La sultana della Martinica

«La sultana validé è morta in seguito a una febbre maligna. L’ho vista essere disposta nel mausoleo che ella aveva cominciato a costruire due anni fa, e che il padishah1 ha promesso di terminare. Ho visto il feretro lasciare il palazzo. È stato trasportato da una riva all’altra del Bosforo a bordo di uno dei caicchi coperti del sultano.

«Il suo palazzo si trovava non lontano da quello del Sommo Signore, a Besiktas2. Molte persone di alto rango aspettavano sulla riva per portare il feretro, così come vuole la tradizione. Qui, quando il morto è un uomo o una donna comune si lotta per avere l’onore di portarlo o toccarlo. Questa volta però la bara era chiusa, ed è stata deposta al centro della cripta: un immenso salone decorato con arabeschi verdi. Sua Altezza ha mandato uno scialle per coprire il sarcofago.

«Si diceva che la sultana validé superasse in bellezza, fascino e amabilità tutte le circasse e le georgiane, e che fosse francese di origini americane, nata a Nantes. Si racconta anche che, quando aveva due anni, imbarcatasi con i genitori per l’America, la sua nave sia stata catturata dai corsari, e i passeggeri trasferiti ad Algeri, dove i suoi genitori morirono. La bambina venne acquistata da un mercante slavo, il quale aveva intuito che una creatura così bella già in tenera età l’avrebbe un giorno risarcito in maniera proporzionale all’educazione che le avesse fatto impartire. Le sue speranze non andarono deluse perché, all’età di quattordici anni, splendidamente bella, la ragazza venne venduta al dey3 d’Algeria, in cambio dell’omaggio dovuto al sommo signore.

«In seguito venne inviata al sultano Abdul Hamid I che, trovandola avvenente, la elevò al rango di kadina4, vale a dire di sposa. Ella gli diede un figlio, Mahmud II, il sultano attualmente regnante».

Questo è l’estratto di una lettera scritta da Costantinopoli dalla contessa della Ferté-Meun il 15 agosto 1817, poi edita a Parigi nel 1820.

Leggendola viene subito da pensare alla celebre Angelica marchesa degli Angeli, eroina dei romanzi di Anne e Serge Golon. Si tratta invece di tutt’altra donna: Aimée Dubuc de Rivery.

Ma è credibile il contenuto di questa lettera?

La sua autrice appartiene al novero di quelle viaggiatrici pioniere che percorsero l’Oriente nel XIX secolo. Non v’è alcun dubbio che si trovasse a Costantinopoli nel 1817 e il mausoleo in cui sarebbe stata sepolta la sultana non è una fantasia: si trova su una delle colline di Costantinopoli, nel recinto del complesso di Mehmet il Conquistatore. Si dice anche che l’architetto che lo concepì sia stato giustiziato quando il sultano si accorse che la cupola della sua moschea non era prestigiosa come quella di Santa Sofia. Il sultano Abdul Hamid I e suo figlio Mahmud II hanno effettivamente regnato, e del resto la contessa non è l’unica ad aver narrato la storia di questa misteriosa Mlle Dubuc de Rivery.

Per alcuni si tratterebbe di una finzione diplomatica, destinata all’epoca a spiegare e a giustificare il riavvicinamento tra Francia e Impero ottomano. Secondo altri Aimée è esistita davvero ma sarebbe morta in mare. Sta di fatto che la sua vita ha ispirato numerose opere, come il romanzo La nuit du Sérail, di Michel de Grèce, venduto in più di un milione di copie, o Le message d’un fantome, di Lesley Blanch, prima moglie di Romain Gary, o ancora La Grande Sultane, di Barbara Chase-Riboud. Altri testi, come La belle Nak-Chidil o Une sultane martiniquaise à Costantinople, conobbero solo la gloria della pubblicazione.

In una Histoire de la Martinique depuis la colonisation jusqu’en 18155 possiamo leggere: «Nel quartiere del Robert, nella casa La Pointe Royale, nel 1766 venne al mondo Aimée Dubuc de Rivery, appartenente a una delle famiglie più antiche e prestigiose della Martinica».

Nella sua biografia dell’imperatrice Joséphine, anche il celebre storico André Castelot ricorda questa eroina, che egli ritiene realmente esistita in quanto menzionata due volte: la prima dall’imperatrice, sua cugina, e la seconda da Napoleone. Perciò non potrebbe darsi che, pur diluiti nel romanzesco, i fatti siano autentici?

Aimée nacque dunque verso il 1766 al Robert, a Pointe-Marlet, nella Martinica. Era figlia di François Henri Jacob Dubuc de Rivery, che morì nell’anno della sua nascita. La sua vedova, Marie-Victoire Menant, si spense sei anni dopo e la piccola Aimée venne adottata da un parente, M. Dubuc de Sainte-Preuve, e allevata da una nutrice.

Aimée aveva una cugina, Marie-Josèphe-Rose de Tascher de La Pagerie, anch’ella nata in Martinica, ai Trois-Îlets, che più tardi si farà conoscere con il nome di Joséphine de Beauharnais, futura imperatrice di Francia. Entrambe andavano a scuola presso le Dames de la Providence de Fort-Royal.

Un giorno le due bambine, forse intorno agli otto o nove anni, decisero di recarsi da una mulatta di nome Eufemia che si diceva leggesse le carte; secondo un’altra fonte sarebbero andate da una certa Mme David, una zingara che allora godeva di una reputazione straordinaria nell’arte di predire il futuro e di «indovinare le cose segrete».

Tenendo la mano della piccola Marie-Josèphe-Rose, la veggente le descrisse i suoi amori e il matrimonio con Alexandre de Beauharnais, e le predisse che il suo secondo marito sarebbe stato un uomo piccolo dall’aspetto insignificante, che avrebbe dominato il mondo. Grazie a lui, sarebbe divenuta una gran dama, anzi una regina, ma avrebbe concluso la propria esistenza infelice e ripudiata6. Poi, voltandosi verso Aimée dichiara, con l’enfasi e la voce tenebrosa richiesta da questo tipo di profezia: «Sarete inviata in Europa a completare la vostra educazione. La vostra nave sarà catturata dai pirati. Sarete fatta prigioniera e rinchiusa in un convento per donne di una nazione diversa dalla vostra, o in una prigione… Là avrete un figlio. Egli regnerà gloriosamente su un impero, ma un regicidio insanguinerà i gradini del suo trono. Quanto a voi, non avrete mai onori pubblici né gloria, ma regnerete come regina invisibile e velata».

Nel 1776, diversamente da quel che si faceva abitualmente per le fanciulle nelle colonie, Aimée dovette essere inviata in Francia per portare a termine un’educazione che nel suo paese natale sarebbe rimasta allo stato embrionale, e inadatta alle notevoli qualità intellettive di cui aveva dato prova. Fatto eccezionale, perché all’epoca le famiglie creole più ricche si separavano raramente dalle loro figlie. Aimée si imbarcò per Nantes accompagnata dalla governante, ed entrò come pensionante nel convento delle Dames de la Visitation. Le lettere della madre superiora non risparmiano elogi «sulle grandi qualità d’animo e intellettuali e sulla bellezza di Mlle Aimée».

Trascorsero otto anni: molto più del previsto, perché nel 1778 la Francia era entrata nella guerra d’indipendenza americana contro l’Inghilterra a fianco degli insorti, e navigare era divenuto molto pericoloso.

Fu solo nella prima settimana di settembre del 1783, dopo la firma del Trattato di Parigi, che la fanciulla ormai diciassettenne e la nutrice poterono imbarcarsi sulla Belle Mouette per la Martinica.

Dopo alcuni giorni di navigazione, mentre attraversavano il Golfo di Biscaglia, una falla si aprì sotto la linea di galleggiamento della nave e parve impossibile turarla. La Belle Mouette cominciava già ad affondare quando miracolosamente si vide spuntare una vela all’orizzonte. Era un bastimento spagnolo, l’Aliaga, diretto a Maiorca, che li vide e li soccorse, raccogliendo passeggeri ed equipaggio. Ma il giorno dopo, proprio mentre erano in vista di Palma di Maiorca, una nave corsara algerina si abbatté su di loro e li catturò, conducendoli ad Algeri.

Quella terra faceva allora parte dell’Impero ottomano e la città era governata da ventitré anni dal dey Baba Mohammad ibn Osman.

Quello era il regno della tratta degli schiavi. Giovani maschi e femmine, rapiti per la maggior parte nei paesi che costeggiavano il Mediterraneo o sulle rive del Mar Nero, venivano condotti in città e venduti al miglior offerente. circasse e georgiane dalla pelle di seta erano tra le più richieste. In questo modo venivano regolarmente riforniti gli harem dell’Impero, in particolare quelli di Istanbul. Ovviamente una giovane donna come Aimée era un esemplare di prima scelta. A diciassette anni era già molto bella: un’incisione mostra un volto sottile, dolce, con grandi occhi (forse azzurri?), la fronte ampia e piccole labbra dal broncio commovente. La legenda dice: «Aimée Dubuc de Rivery, divenuta sultana validé di Mahmud II» ed è firmata Berger-Levrault & Cie.

Cosciente del valore della sua preda, il capitano la fa condurre immediatamente al palazzo del dey. A strapiombo sulla città, con una vista stupenda sulla baia di Algeri, il palazzo era uno dei più prestigiosi monumenti dell’epoca ottomana. Là, poco meno di cinquant’anni dopo, avrà luogo il famoso “colpo di ventaglio”7, pretesto all’occupazione francese dell’Algeria.

Ignoriamo cosa sia accaduto alle altre donne che si trovavano a bordo, come pure quale sia stata la sorte della governante di Aimée. Alcuni affermano che non solo seguì la padrona, ma di fronte all’estrema disperazione manifestata da quest’ultima le avrebbe letto le carte – la stessa scena verificatasi alcuni anni prima presso Eufemia, o presso Mme David – affermando: «Mademoiselle Aimée, vivete, vivete, mia cara padrona! Le carte mi dicono che avrete un grande destino. Abbiate coraggio, non vi abbandonate al dolore in questo modo, e asciugate le vostre lacrime: le lacrime nuocciono allo splendore degli occhi!».

Comunque sia, vedendo la giovane martinichese, il dey dovette immediatamente comprendere quale grande vantaggio potesse rappresentare per lui. A Costantinopoli regnava da nove anni il sultano Abdul Hamid I, sessantenne senza grandi doti, che stava trascinando l’Impero, in modo lento ma inesorabile, verso il declino. Egli rappresentava tuttavia l’Ombra di Allah sulla terra. Offrirgli un tal dono avrebbe certo rialzato il prestigio del dey agli occhi del suo signore e gli avrebbe attirato i favori imperiali. Inoltre era anche un modo di esprimergli la propria gratitudine per avergli mandato in rinforzo le sue truppe durante un attacco spagnolo che, qualche mese prima, aveva minacciato Algeri.

Diede ordini affinché Aimée fosse trattata con le massime cure e, qualche tempo dopo, la imbarcò su una nave con destinazione Costantinopoli.

Per una fanciulla di buona famiglia allevata dalle suore, abituata ai ricami e alle maniere cortesi, l’emozione dovette essere certo violenta; sicuramente fu presa da vertigini scorgendo un mattino le acque del Bosforo e l’estuario del Corno d’Oro. Uno scenario d’opera in una rappresentazione di fate: la Torre di Galata, Pera, residenza degli europei, distesa sulla sommità di una collina disseminata di cipressi, l’antica cattedrale di Santa Sofia, e soprattutto i minareti circondati da una balconata e terminanti con una punta acuta rivolta al cielo… Per una fedele cristiana allevata nel culto del crocifisso, si trattò senza dubbio di una visione fantasmagorica.

Possiamo supporre che sia stata condotta a palazzo Topkapi oltrepassando il portale di marmo nero e bianco, che abbia superato il primo e il secondo cortile, dove sarà stata accolta dal capo degli eunuchi, e poi condotta nell’harem: quattrocento stanze disposte attorno a cortili stretti e scuri e corridoi senza fine, su una superficie di quindicimila metri quadrati. Là vivevano la sultana validé, le sorelle e le mogli del sultano e legioni di concubine. Il termine “harem” deriva dall’arabo haram, che significa “proibito, sacro”, nel senso di proibito agli uomini. Di conseguenza, i guardiani dell’harem potevano essere solo maschi evirati, cioè eunuchi. Paradossalmente, per Aimée fu come se ricominciasse il suo periodo scolastico a Nantes: la stretta sorveglianza, i gruppetti di ragazze con rivalità, gelosie, vendette meschine, chiacchiere, ma anche amicizie.

Tutto il resto apparteneva a un universo diametralmente opposto a tutto ciò che lei aveva conosciuto fino a quel momento. Prima di tutto il cibo: basta polpettine di merluzzo, frittelle di mais, addio al pollo affumicato e ai cioccolatini di cocco e banana. Al loro posto c’erano ora i borek, delle sfoglie al formaggio; l’arnavut cigeri, fegato all’albanese; i kofte, polpette di manzo e un’infinità di dessert, annegati nello sciroppo e stracolmi di zucchero.

Vi furono poi le lunghe ore passate nell’hammam e Aimée, cui era stato insegnato più di ogni altra cosa il pudore, si trovò a girare nuda nelle sale piene di vapore dove risuonavano i sospiri delle donne, sfiorata da mani anonime. Un contrasto che avrebbe potuto sembrarle blasfemo, pensando ai bagni in convento in cui era obbligata a entrare nella vasca coperta da un camiciotto che presumibilmente doveva servire da barriera contro le tentazioni della carne. Giorno dopo giorno Aimée non ebbe altra scelta che adattarsi alla sua nuova esistenza.

Le insegnarono che esistevano le dimore degli eunuchi neri e di quelli bianchi, i dormitori dei nani, dei muti e dei buffoni, il luogo per le esecuzioni e la suite riservata al capo degli eunuchi. Imparò la differenza tra i calfas e gli altri. I calfas erano stati schiavi che, grazie alla loro intelligenza e alle loro capacità, erano giunti a occupare una posizione privilegiata all’interno dell’harem. Su tutto quel mondo isolato regnavano il kapi aga, capo degli eunuchi bianchi, e il kizlar aga, quello degli eunuchi neri, a loro volta sotto il controllo dell’aga della Porta della Felicità, l’eunuco più importante. Il ruolo delle kadine e delle iqbal non ebbe più segreti per lei.

Fremette di orrore quando le raccontarono che esisteva una gabbia in cui venivano rinchiusi i pretendenti al trono fino al momento della loro ascesa o della morte. Di fronte al suo atteggiamento spaventato, il capo degli eunuchi le spiegò allora che, dopo l’abolizione della legge del fratricidio, instaurata da Mehmet II, la gabbia non era altro che una sontuosa suite riccamente decorata. L’unico fastidio era che il principe viveva lì del tutto segregato dall’età di sette anni e poteva uscire solo per regnare. In quel modo si evitava che un erede troppo impaziente fomentasse un colpo di stato o attentasse alla vita del sultano. Occorre precisare che il diritto turco non riconosceva la primogenitura, di conseguenza un cadetto che non riconoscesse al fratello maggiore il diritto di regnare non si faceva nessuno scrupolo a eliminarlo. Così pure le madri ambiziose non esitavano a sopprimere i pretendenti più vecchi che dividevano il loro figlio dal trono.

I primi giorni di Aimée nell’harem dovettero rappresentare una prova terribile: tutto il suo modo di vivere era cambiato, compreso il nome. L’usanza voleva che alle donne venissero dati dei nomi che riflettevano la loro personalità o il loro aspetto fisico. La bellezza di Aimée le valse il soprannome di Naksh, la bella in osmanli. Più tardi quel soprannome si sarebbe trasformato in Naksh-i-dil Haseki, la bella favorita che ha dato un figlio al sultano.

La storia dell’Impero ottomano è una lunga testimonianza dell’enorme potere detenuto dalle donne dell’harem. Questo stato orientale di cui si immagina spesso che le donne non avessero ruolo o riconoscimento e che fossero delle vittime sottomesse, da vezzeggiare o abbandonare a piacere, fu in realtà governato per secoli dall’influenza segreta delle favorite.

In quell’anno 1783, se il sultano Abdul Hamid fosse morto, secondo l’ordine di successione il trono doveva andare al figlio cadetto Mustafà. Ma questi aveva solo quattro anni, per cui il potere sarebbe andato a Selim, il nipote ventiduenne. Contrariamente alla maggior parte dei principi della sua famiglia, quest’ultimo non era stato allevato nella gabbia dorata del palazzo. Suo padre, il sultano Mustafà III, gli aveva accordato una grande libertà di movimento, e Selim aveva dedicato la maggior parte del suo tempo agli studi, ispirandosi alla Francia con il sogno di riformare il paese. Ma come attuare le riforme, quando nell’ombra imperversavano gli Yeni Ceri, i giannizzeri8, una milizia onnipotente, tanto temuta quanto temibile, una sorta di guardia pretoriana la cui creazione risaliva a quattro secoli prima? La loro importanza non cessò di crescere, mentre contemporaneamente le loro virtù si degradavano. Erano divenuti un vero e proprio contropotere in seno alla corte del sultano e, a partire dal XVI secolo la loro storia fu solo una successione di rivolte, di assassinii, di rovesciamenti di visir e anche di sultani, mentre intanto l’Impero ottomano andava declinando.

Naturalmente, se anche Aimée era al corrente di quelle cospirazioni politiche, in realtà non era tenuta a interessarsene. Poco importava se i giannizzeri complottavano per insediare il piccolo Mustafà sul trono del sultano e poco importavano le ambizioni segrete delle madri dell’uno o dell’altro: la sorte della giovane era fissata per sempre e non sarebbe stato l’arrivo al potere di un nuovo sultano a cambiare qualcosa.

Possiamo supporre che in qualche modo la donna sia stata manipolata per divenire un mezzo per accedere al potere? Forse il capo degli eunuchi manovrò tramite suo per ottenere qualche favore da Abdul Hamid? Può essere che, per qualche ragione ignota, divenne lo strumento della madre di Selim, la quale temeva per il futuro del figlio e riteneva che quella francese potesse tornarle utile? Poco probabile. Se una sera di quel medesimo anno il sultano mise gli occhi su Aimée fu solo perché tra tutte le sue odalische lei era non solo la più bella e la più raffinata, ma anche la più colta.

Inoltre la giovane era stata preparata e formata per ottenere i favori del sultano. Come tutte le altre schiave, era passata per l’Accademia dell’Amore, la scuola delle odalische, dove aveva assimilato le più sottili sfumature del piacere. Le giovani candidate all’alcova imperiale dovevano passare l’esame di una commissione, solitamente presieduta dalla sultana validé. Nulla era lasciato al caso al fine di non deludere il sultano. Quando la nuova venuta era ritenuta perfetta, raggiungeva i ranghi delle dame di compagnia e attendeva la sua sorte. Come al solito, Abdul Hamid aveva fatto visita al suo harem un giorno dell’ottobre 1783: aveva esaminato ogni schiava nell’atteggiamento previsto dall’etichetta – la testa spinta all’indietro e le mani incrociate sul petto – e aveva fatto cadere la sua scelta sulla creola.

A quel punto questa diveniva gozde, cioè marcata, e in quanto tale godeva di un trattamento privilegiato: sistemata in un appartamento speciale, vezzeggiata e curata, avrebbe atteso la convocazione nell’alcova imperiale.

La prima reazione dell’eletta fu senza dubbio di rivolta, giustificata in una giovane donna allevata in convento e terrorizzata da ciò che l’attendeva. Se ancora il sultano fosse stato giovane e dotato di un fisico attraente, il suo atteggiamento avrebbe potuto essere diverso, ma questo non era il caso di Abdul Hamid, che aveva cinquantotto anni, una grossa pancia, il volto smisuratamente lungo, le guance nere di barba e piccoli occhi inquietanti. Possiamo immaginare la rivolta di Aimée come quella della figlia di uno schiavista cui ora toccava di essere condotta come schiava verso il letto di un uomo che considerava un selvaggio. Ma non aveva scelta.

Rassegnata alla propria sorte, Aimée passò la sua prima notte d’amore senza amore, ma senza che lei se ne rendesse conto il fascino della sua innocenza dovette scuotere i sensi dell’Ombra di Allah sulla terra, perché egli decise di farne la sua favorita.

Nove mesi dopo, il 20 luglio del 1784, nasceva suo figlio Mahmud, e in questo modo Aimée Dubuc diveniva un personaggio chiave nella successione al trono ottomano. Certo le parole della vecchia Eufemia le tornarono alla mente: «Sarete fatta prigioniera e rinchiusa in un convento per donne di una nazione diversa dalla vostra o in una prigione… Là avrete un figlio. Egli regnerà gloriosamente su un impero».

Ma il destino, che decisamente non è mai a corto di idee, stava per trascinare Aimée su una nuova strada.

Come abbiamo detto prima, il trono doveva andare a Mustafà, il figlio cadetto di Abdul Hamid I, ma data la giovane età di quest’ultimo la scelta era caduta sul nipote del sultano. Lui e la creola avevano quasi la stessa età, Selim era più vecchio di lei di soli tre anni. Era un giovane sensibile, timido e chiuso in se stesso. Forse incontrò Aimée e cadde preda del suo fascino? Tra i due si intrecciò una relazione amorosa? È possibile che la giovane abbia incarnato agli occhi del futuro padrone dell’Impero la libertà e la civilizzazione che egli cercava invano attorno a sé? Senza vere prove possiamo solo lasciarci trascinare dall’immaginazione.

Il 7 aprile 1789 il sultano Abdul Hamid morì e venne sostituito dal nipote, che divenne sultano con il nome di Selim III.

Aveva ventotto anni, era poeta e raffinato compositore classico e voleva riformare l’Impero, in particolare l’esercito. Nel 1793 promulgò il Nizâm el djedid 9, ma il codice si rivelò insufficiente, perché non rinnovava nel profondo il corpo dei giannizzeri, cancrena della nazione. Ben presto, le riforme che egli tentava di imporre sotto la crescente influenza della Francia – da alcuni spiegata con il sempre maggior ascendente che Aimée avrebbe avuto sul sultano – suscitarono vive reazioni tra i giannizzeri e gli altri gruppi conservatori. Quando, nel 1807, Selim tentò di riorganizzare l’esercito, i giannizzeri si rivoltarono, marciarono su Costantinopoli e obbligarono Selim ad abolire il Nizâm el djedid, prima di imprigionarlo. Nei mesi convulsi che seguirono, i riformatori si raccolsero attorno al generale Mustafà Bayraktar, pascià di Rusçuk, una città bulgara sul Danubio, leale sostenitore del sultano. Egli riunì le sue truppe e marciò su Costantinopoli per restaurare sul trono Selim. Raggiunse le mura esterne del palazzo, soprese la guardia e fece irruzione nel primo cortile.

Terrorizzato, Mustafà, il primo figlio di Abdul Hamid, decise di far assassinare Selim e anche l’altro pretendente al trono, Mahmud, figlio di Aimée e di Abdul Hamid I. Eliminandoli, pensava che nessuno avrebbe osato toccarlo, in quanto egli rimaneva l’ultimo erede della famiglia reale, e una vecchia superstizione diceva che la dinastia e l’Impero sarebbero sopravvissuti o crollati assieme. Spedì dunque la guardia per uccidere i due giovani.

Selim morì strangolato. Quanto a Mahmud, la leggenda vuole che la madre sia riuscita a nasconderlo in una stufa in disuso di una stanza da bagno, salvandogli così la vita. Secondo un’altra fonte l’avrebbe avvolto in un tappeto.

Intanto il generale Bayraktar, entrato nel serraglio, cercava disperatamente il suo padrone, scoprendone solo il corpo ormai senza vita. Dapprima sconvolto, ritrovò subito la padronanza di sé e pensò all’altro potenziale successore, Mahmud. Quest’ultimo, certo tranquillizzato dalla presenza del generale liberatore, uscì dal nascondiglio assieme ad Aimée. Ordinò che Mustafà e sua madre venissero condotti in prigione e nominò Bayraktar gran visir. La sera stessa, il figlio di Aimée Dubuc de Rivery venne proclamato sultano e signore dell’Impero, e lei divenne la sultana validé. Ancora una volta, le parole di Eufemia e di Mme David dovettero tornarle alla mente.

Non appena insediato sul trono, Mahmud tentò di riprendere le riforme interrotte dal fratellastro, ma si scontrò nuovamente con i giannizzeri, che verso la fine del 1808 si ribellarono e fecero uccidere il generale Bayraktar. Il figlio di Aimée dovette attendere la metà degli anni Venti del XIX secolo per riprendere il suo programma riformatore. Riuscì a costituire un governo basato su un gabinetto ministeriale, organizzò un censimento e un rilevamento catastale e creò un servizio postale. In campo scolastico dichiarò obbligatoria l’istruzione primaria, inaugurò una facoltà di Medicina e inviò dei giovani a studiare in Europa. Abolì anche il diritto del sultano a confiscare la proprietà di un ufficiale decaduto. Ordinò inoltre l’abbandono del costume tradizionale in favore dell’abbigliamento occidentale. Tutte queste riforme, forse ispirate dalla madre, consolidarono la struttura dell’Impero ottomano, nonostante le sconfitte militari e le perdite territoriali che Mahmud subì nel corso del suo regno.

Non è mai stato fatto un bilancio esatto dell’influenza delle donne in quella specie di prigione dalle muraglie impenetrabili che era l’harem imperiale e tuttavia, come scriveva M. de Lamartine nel suo Voyage en Orient, a volte il genio politico si manifestò «nelle sultane favorite, ammesse a tutte le confidenze del governo e abili in tutti gli intrighi della corte». Grandi regni, aggiunge Lamartine «sono stati fondati e governati da alcune di queste belle schiave. Spesso sono state la molla nascosta dei maggiori avvenimenti. In quanto favorite, loro sapevano sottomettere; in quanto donne, sapevano ispirare; in quanto madri, studiavano e preparavano il regno dei loro figli».

Comunque, nel 1807 e 1808 i giornali inglesi attribuirono all’influenza positiva di Mlle Dubuc l’ascendente che, durante il suo brillante e glorioso periodo da ambasciatore, il generale Sebastiani esercitò sul sultano Selim. Dopo l’evacuazione dell’Egitto da parte dei francesi nel 1801, abbagliato dai successi di Napoleone in Europa, il sultano nel 1804 l’aveva riconosciuto come imperatore. Fu l’influenza del generale Sebastiani, inviato come ambasciatore di Francia a Costantinopoli, a spingere Selim a dichiarare guerra a Russia e Gran Bretagna nel 1806.

In Les Femmes du Nouveau Monde, Louis-Xavier Eyma ci presenta, basandosi su documenti di famiglia, una lettera scritta dal cognato di Aimée, M. Marlet, ritrovata negli archivi dell’ambasciata francese a Costantinopoli, dove egli fu inviato nel 1821 – la lettera è datata a Parigi il 24 gennaio – mentre il sultano Mahmud II stava facendo delle ricerche sulla famiglia di sua madre.

Eccone un frammento: «Mlle Aimée Dubuc de Rivery, mia cognata, nata in Martinica, venne educata a Nantes presso le Dames de la Visitation, dove ricevette un’accuratissima educazione in tutte le discipline che potevano essere necessarie a una fanciulla di famiglia distinta. A queste sue caratteristiche univa una grande bellezza e tutta la grazia delle più amabili donne francesi. Richiamata nel suo paese dai genitori prima della Rivoluzione, venne catturata da una nave corsara barbaresca, e dopo molti accidenti – che potremmo considerare spiacevoli per la bella creola, ma che, nell’ambito del suo destino, erano solo attrettante tappe sulla via della sua futura grandezza – venne collocata nel serraglio, dove presto la sua bellezza e la sua educazione raffinata la fecero notare dal sultano allora regnante, Abdul Hamid, che ne fece la sua sultana10 favorita».

L’autore precisa anche: «La persona cui dobbiamo il contenuto di questa comunicazione è altamente onorevole e degna di fede. In calce alla lettera ha scritto di sua propria mano che l’identità della sultana validé è stata indiscutibilmente stabilita in base alle informazioni giunte a Costantinopoli, aggiungendo che nell’originale della nota consegnata da M. Marlet e ritrovata, come ho detto, negli archivi dell’ambasciata, sei righe erano state cancellate da una penna estranea. Perché, e cosa dicevano quelle righe cancellate? Non lo sappiamo».

1.  Titolo reale. Il termine appartiene alla lingua persiana ed è composto dalla parola padi che significa “maestro” e shah, “re” (N.d.A.).

2.  Una delle trentanove municipalità di Istanbul (N.d.A.).

3.  Titolo dei reggenti di Algeri all’epoca della dominazione ottomana. Alla lettera il termine significa “zio” (N.d.A.).

4.  Alla lettera kadina significa “donna” e iqbal “fortuna, favore”. Le une e le altre erano spose titolate e riconosciute del sultano, ma le kadine occupavano un rango più elevato, ed erano per così dire le spose ufficiali (N.d.A.).

5.  Di Sidney Dancy, pubblicato da E. Ruelle nel 1846, tomo IV (N.d.A.).

6.  Si racconta che nel momento in cui Joséphine s’imbarcava, sulla nave sarebbe stato visto un fuoco, che poteva essere ciò che i naviganti chiamano fuoco di Sant’Elmo. Louis-Xavier Eyma, Les femmes du Nouveau Monde, Editions Michel Lévy Frères, 1860 (N.d.A.).

7.  Il 30 aprile 1827 il dey di Algeri, durante un acceso diverbio con il console francese per una oscura storia legata a una partita di frumento, lo colpì al viso con un ventaglio (N.d.T.).

8.  Un corpo fondato nel 1330 dal sultano Murad I e costituito inizialmente da giovani cristiani e altri prigionieri di guerra. Il termine significa “nuove truppe” (N.d.T.).

9.  Il testo intendeva soprattutto modificare il metodo di governo delle province, la fiscalità e il sistema fondiario. Le riforme principali concernevano l’esercito (N.d.A.).

10.  L’autore della lettera non doveva essere a conoscenza del senso autentico del termine “sultana”. Alla corte ottomana, le sultane non erano le spose del sultano, ma le principesse figlie del sultano o di un principe discendente da un sultano in linea diretta maschile (N.d.A.).