Erano passati due giorni da quando Audrey se ne era andata. Ero angosciato. Non riuscivo a togliermi il senso di vuoto colto in quel suo ultimo bacio, appassionato e disperato. Non so per quale motivo le avevo fatto quella domanda sul suo futuro. Cioè, lo so. Lo avevo fatto apposta… un po’ per curiosità e un po’ per capire qualcosa in più di lei. Audrey non parlava molto di sé. A volte mi ritrovavo a parlare solo io, per ore, aspettando che anche lei in qualche modo si aprisse, ma non si sbilanciava mai più di tanto. Una volta le avevo chiesto se quella situazione la facesse sentire in colpa, ma lei mi aveva detto tutta seria che seguiva un principio shakespeariano per cui la colpa non era ammissibile se l’azione era fatta per amore. Quando le avevo chiesto di più, si era limitata a sorridere senza dirmi nulla. Aveva solo aggiunto che se volevo continuare a vederla, non avrei dovuto sapere niente di più. Provavo tenerezza per quel suo assurdo approccio alla vita. Nella sua semplicità sorvolava sulle cose, o forse era quello che mi dava a vedere in quella stanza.
E venerdì, quando era uscita dalla porta, mi ero sentito così solo che per un attimo avevo sentito il bisogno di andare a recuperarla. Mi metteva sempre tristezza salutarla. Tristezza per dover rientrare nella mia realtà. Negli ultimi due mesi trascorrevo i giorni in attesa di vederla, di entrare dentro di lei, darle piacere e provarne altrettanto. Me la sognavo anche la notte. Era iniziata come una storia di sesso e passione, ma ultimamente iniziavo a non vederla più così. Spesso mi trovavo a chiedermi cosa stesse facendo, a chi rivolgesse il suo sorriso o il suo sguardo e l’idea che un qualsiasi altro uomo potesse essere oggetto dei suoi desideri mi chiudeva lo stomaco. E subito dopo mi sentivo un ipocrita nel provare quel sentimento, che avevo sempre cercato di non farle percepire.
La regola era chiara: evasione. Ma la verità è che non vedevo l’ora che fosse l’indomani, per rivederla.
E anche di fronte a mia moglie pensavo a lei.
«Oggi a pranzo vengono i miei», disse Zoe.
«Certo», risposi.
Zoe alzò gli occhi dalla tazza di cereali e mi guardò stupita.
«Aidan, ultimamente dici sempre ‘certo’. Non era una parola che odiavi?»
Le sorrisi e mi portai la tazza di caffè alle labbra. «Sì, credo di averla rivalutata.»
«Senti, oggi se mia madre se ne viene fuori con la questione figli, ti prego appoggiami. Deve capirlo», disse. «Non è obbligatorio nella vita procreare, due persone possono stare insieme senza per forza avere figli.»
Stavo per dire «certo», ma mi trattenni con tutto me stesso.
«Come vuoi. Se a noi è chiaro, lo sarà anche per loro», risposi.
Amavo la concretezza di Zoe. Non si perdeva mai, era sempre risoluta su qualunque cosa, l’esatto opposto di Audrey, che non sceglieva mai nulla e si faceva trasportare dalla vita, annoiata e passiva. Ultimamente non facevo altro che paragonarle.
A metà pranzo mi chiamò Preston. Mi sorprese. Non era da lui chiamarmi fuori dall’orario di lavoro. Mi disse di aver ricevuto una chiamata da Audrey, che gli comunicava di non poter presenziare alla riunione dell’indomani. La madre era morta sabato mattina e lei era corsa a Manchester. Mi chiese di cercare un’interprete per la riunione, magari tramite la società di mia moglie avrei potuto far leva su qualche conoscenza.
Con un groppo in gola, confermai che me ne sarei occupato io e, terminata la chiamata, rimasi davanti alla finestra dello studio senza respiro. Non ci pensai due volte: anche se tra me e Audrey la regola era di non chiamarsi mai, quello era un caso eccezionale. Aspettai dieci squilli prima di sentire la sua voce.
«Audrey», dissi. Nessuna risposta.
«Audrey», dissi ancora e di nuovo silenzio.
«Ti prego parla Audrey. Come stai?» chiesi.
La sentivo respirare, non capivo nemmeno se stava piangendo, riuscivo a cogliere soltanto il suo esile respiro.
«Dove sei?» chiesi. «A Manchester?»
E finalmente la sua voce roca, arrivò, pietrificandomi il cuore.
«Sì, sono a casa», rispose.
«Mi dispiace, mi ha chiamato Preston, mi dispiace tanto, Audrey, non so cosa dire, vorrei essere lì.»
«Ma non ci sei», rispose lapidaria. «E non ci sarai mai.»
Improvvisamente fu tutto chiaro. Il suo abbraccio, il suo bacio, il suo debole sorriso di solo due giorni prima. Non sapevo che altro dire, avevo lo stomaco chiuso, mi sentivo un miserabile. Dopo un lungo silenzio, Audrey parlò di nuovo.
«Dopo il funerale andrò in Svezia, ho avvertito Preston», disse.
«Certo», dissi. «Prenditi tutto il tempo che vuoi, ti farai sentire quando torni.»
«Bennett, resterò per un po’ in Svezia, hai capito?» disse.
«Sì», risposi, stupito che mi avesse chiamato Bennett. Intuii che non era sola. «Ho capito, ci sentiamo quando rientri.»
«Devo andare, ciao.»
«Ciao», forse lo dissi o forse no. Ero sospeso, in trance.
Zoe venne a cercarmi in studio. Le dissi del problema dell’interprete e lei reagì come al suo solito: mi disse di conoscere una buona agenzia e che nel pomeriggio mi avrebbe messo in contatto direttamente con il direttore.
Accampando la scusa del lavoro, rimasi trincerato nello studio. Nella mente avevo scolpito il suo «Hai capito?» «Per un po’», aveva detto. Cosa intendeva dire? Quanto tempo, una settimana, un paio? Il dubbio che quella frase nascondesse altro mi tormentava.
Più tardi Zoe mi mise in contatto con il candidato interprete, mi accordai per la riunione indetta per l’indomani e richiamai Preston per avvertirlo di aver risolto. Sostituire Audrey. Quel pensiero mi fece stare ancora più male.
Preston mi ringraziò e mi disse che la riunione era stata spostata al giorno dopo, perché anche Mr. Swego e il figlio Eran volevano partecipare al funerale della mamma di Audrey. Quando mi chiese se volevo accompagnarlo, risposi di sì. Avevo bisogno di vederla, farle capire che si sbagliava. Io c’ero. E poteva contare su di me, in qualche modo.
Il lunedì andammo a prelevare Mr. Swego con il figlio e la fidanzata, l’amica di Audrey, all’aeroporto e partimmo alla volta di Manchester. Ad accoglierci sulla porta di casa venne il padre. Avevano allestito un buffet in giardino. D’un tratto, la vidi. Teneva tra le braccia una bambina paffuta biondissima, con la quale sfogliava un libro. La presenza di Mr. Swego e gli altri alleviò la fatica di raggiungerla. Ma, mentre camminavo, improvvisamente mi trovai di fronte l’amica di Audrey, Diedre, con un’espressione rabbiosa in viso.
«Che cosa ci fai qui?» chiese decisa, col suo ragazzo che le cingeva la vita.
«Sono venuto per il funerale.»
«Non sei il benvenuto.»
Restai a fissarla senza parole, mentre il ragazzo si metteva fra noi.
«Ho capito, ma ho bisogno di parlarle», dissi deciso, oltrepassandola.
Raggiunsi Audrey che stava parlando con Preston e mi accodai. Lei appena mi vide abbassò lo sguardo. Una volta soli mi presentò la sorella Susan e la nipotina che teneva tra le braccia. Le chiesi se potevamo parlare in privato e così ci spostammo in un angolo del giardino un po’ appartato. Le sfiorai il braccio e lei si scostò fredda.
«Audrey, mi dispiace», dissi. «Volevo esserti vicino.»
«E come? Come direttore o come Aidan?» sussurrò.
«Tutti e due, Audrey lo sai, le cose sono complicate.»
«Complicate…» mormorò. «Non per me», disse, «non ti ho mai chiesto nulla, non ti ho mai imposto nulla, ma devo chiederti di andartene. Non ce la faccio a starti vicino ora, non dovevi venire».
«Lo so, è difficile.»
«No, non lo sai quanto sia difficile, non lo immagini proprio.» Ero lì a mezzo metro da lei, avrei voluto abbracciarla, consolarla e invece dovevo restare rigido e controllato.
«Allora partirai per Stoccolma?» chiesi per stemperare il peso della conversazione.
Annuì, buttò un occhio agli ospiti e fece un sospiro.
«Sì, domani.»
«E quanto ci resterai?»
A quel punto mi fissò. «Sei preoccupato per la tua ora d’aria?»
Non volevo che proseguisse, sapevo benissimo dove stava andando a parare.
«Se è ancora per il discorso dell’altro giorno, ti chiedo scusa, e capisco, il momento ha peggiorato il tuo stato d’animo», dissi.
A un tratto vidi Audrey fulminarmi con gli occhi.
«Audrey…» mormorai dispiaciuto.
«Cosa sei venuto a fare qui? Aidan, chi siamo noi?»
«Due persone che hanno capito come stare bene», dissi.
Audrey scosse la testa dietro un’amara risata. «Con l’evasione?» chiese sarcastica. «Forse non ti è chiaro, l’evasione è tutta tua, per me è l’esatto contrario», disse alzando le spalle. «Siamo su due sponde diverse, uno di fronte all’altro e in mezzo c’è un fiume profondo.»
«Quindi siamo arrivati a questo?» chiesi.
«Questo cosa? Dimmelo tu a cosa siamo arrivati. Perché io non lo so proprio, per quel che mi riguarda noi non esistiamo al di fuori di quella stanza. Non abbiamo condiviso nulla della vita vera. E hai ragione, devo smetterla con i palliativi. a cominciare da te.»
«No, il nostro non è un palliativo e non voglio che finisca quello che c’è fra noi, ma Audrey, lo sai anche tu, fuori da quella stanza tutto si perderebbe nella quotidianità. Audrey, mi sveglierei un giorno e ti guarderei senza sapere come mai sto insieme a te, allora mi parlerai e io non ascolterò una parola, farò l’amore con te pensando ad altro. Audrey, è perfetto così, tra noi, non l’hai capito? Nessun condizionamento, solo noi, nessun extra a interferire.»
Audrey sorrise. «È la vita Aidan, la vita! Fa parte della vita. Cosa vuoi propormi? Di andare avanti con l’evasione all’infinito? Anche quella, prima o poi, diventerà abitudine. Èè esattamente la stessa cosa. Aidan, abbiamo sbagliato, io ho sbagliato. Per favore, adesso va’ via, non ti voglio qui, tu non appartieni alla mia vita se non come direttore commerciale della Preston Air Filter, per il resto sei solo una parentesi di niente, non abbiamo nulla in comune e in fondo disapprovi quella che sono.»
«Non è vero.»
«Non sai nulla di me, non sapevi nemmeno che avessi una sorella, l’ho capito dall’espressione con cui l’hai salutata.»
«Sono disposto...»
«Basta, Aidan», disse. «non è il momento, e per me è finita, l’avevo già deciso venerdì, e te l’avrei detto oggi se non...»
«Non dirlo…»
«Lo dico e lo faccio, Aidan, per me è finita senza alcuna possibilità. Sei sposato Aidan, hai una moglie perfetta, devi tornare da lei, se hai bisogno di evasione trovatela con lei. È quello il matrimonio. Ciascuno custode della solitudine dell’altro.»
D’improvviso arrivò la fidanzata di Eran e la sua presenza ci obbligò a chiudere la conversazione. Poco dopo ci raggiunsero Preston e gli altri due svedesi. Era ora di rientrare.
«Grazie per la visita», disse Audrey stringendo a tutti le mani, compresa la mia, poi raggiunse la sorella. Mi accodai al gruppo per uscire di casa e mi trovai accanto di nuovo Diedre. «Ti è più chiaro ora?» chiese con un sussurro.
«Sì», risposi.
Era tutto chiaro. Chiarissimo.
Rientrato a Londra, me ne andai a casa. Mi chiusi nel mio studio e restai ripensare a tutta la faccenda.
«Com’è andato il funerale?» chiese Zoe sulla porta.
«Come vuoi che sia andato, la fine di tutto», dissi.
«Così brutto?» chiese.
«Direi di sì.»
«E la riunione?»
«È stata rimandata a domani.»
«Meglio», disse.
«Certo», risposi.
Zoe sorrise. «Quella parola la devi eliminare dal dizionario.»
Mai, pensai, l’avrei ripetuta all’infinito, era tutto ciò che mi restava di lei. Non avevo nient’altro di lei se non il ricordo dentro di me. Non avevo capito, anzi non avevo voluto capire quanto l’amassi. Come nessuna mai. Nemmeno per Zoe avevo mai provato un sentimento simile. Eravamo compagni di vita, complici, ci eravamo scelti per un senso di appartenenza caratteriale più che per amore. Sarei potuto restare con lei per il resto dei miei giorni senza farmi domande. Per inerzia. Ma con Audrey era diverso. Mi spingeva a essere diverso.