Era una domenica di inizio settembre, un anno dopo l’armistizio ed ero andata come al solito a giocare dalla Luisa. Mi piaceva andare a casa sua, era grande, noi giocavamo nell’ultima stanza in fondo al corridoio, una stanza ampia quasi priva di mobili e con tante finestre tutte al sole. Quella della Luisa era una casa così diversa dalla mia, piccola e buia e piena di gente: il babbo e la mamma, i due figli maschi e io, la sola femmina, e una nuova creatura in arrivo. Poi i nonni sempre in visita. Anche in casa della Luisa erano in tre figlioli ma lei era la bimba della famiglia, quella coccolata, e aveva una sorella maggiore, una ragazza d’oro, e un solo fratello. Comunque, quella domenica stavamo giocando alle belle signore, con qualche vestito vecchio addosso e un po’ di trucco preso alla sorella. Sentimmo un boato fortissimo e poi una scarica di colpi uno dietro l’altro, i vetri tremavano e a me sembrò che tremasse tutta la casa come per il terremoto. Ma, anche se eravamo piccole, sapevamo che non era il terremoto. Cannonate lontane le avevamo sentite tutta l’estate, ma mai avevano puntato su Barga.
“Devi andare a casa, corri da dietro, dal vicolo”, mi giunse la voce della madre di Luisa, e io corsi davvero. La mia casa era tra quelle più esposte, qualche vetro infatti era saltato proprio nelle camere. Ci fu un grande abbraccio tremante quando entrai.
E cominciò la storia delle cannonate, quel pomeriggio che giocavo con la Luisa. Di giorno, appena iniziavano ad arrivare, la gente cercava di nascondersi in qualche punto del paese ritenuto più sicuro, di notte correva passando da vecchie scorciatoie verso le montagne vicine. Una processione scomposta intramezzata da qualche richiamo ad alta voce: “Ci siamo tutti? Dove avranno preso questa volta? Mi sembra giù verso il cimitero!” Per lo più, però, ci si muoveva in silenzio, un silenzio assoluto, come per non indirizzare le cannonate verso di noi. Una volta per via di quel silenzio pensai che la guerra fosse già passata, non capii che era quel silenzio la guerra.
Mia madre era in difficoltà, la pancia le cresceva e i vestiti davanti si alzavano e lasciavano vedere un po’ delle sue gambe. Lei sempre così ordinata e pudica non lo sopportava ma stava zitta e cercava di correre come il resto del gruppo, sconvolta e triste tutto il tempo. Una sera cadde e si mise a piangere piano, senza riuscire a fermarsi. Fu allora che mio padre prese una decisione e, abbandonato un bel po’ di orgoglio, si rivolse a dei cugini che abitavano in un grande casa sulla montagna, al Betaglio. Chiese rifugio, non nella loro abitazione ma nella capanna a fianco. Dovette supplicare perché sapeva che i due, fratello e sorella, benestanti, non sposati e non più giovanissimi, non intendevano crearsi dei problemi vicino casa. C’era per fortuna anche la loro madre, la zia paterna, che intervenne per noi e li convinse ad accoglierci nella capanna. Dai due zitelloni quando arrivammo nemmeno una parola di saluto.
Così salimmo in montagna, non da partigiani, ma da sfollati. I primi giorni furono belli, c’era tanto da scoprire, alberi e frutti tardivi, c’erano anche altre famiglie sfollate come noi con cui fare amicizia, inoltre eravamo liberi di correre, di salire sugli alberi, persino di fare la guerra, perché questo avevamo imparato. Di lassù si vedevano i cannoneggiamenti su Fornaci, sulla SMI, la grande fabbrica metallurgica, su Barga, anche sul bel Duomo romanico e spesso non sapevamo chi era a sparare, se gli alleati o i tedeschi. La notte talvolta si scorgevano i bengala, che illuminavano il cielo di luce verde. Erano un segno di speranza. Però giunse il freddo, e il vento passava tra le tegole e faceva paura, e le patate e i fagioli mangiati ogni giorno erano buoni ma non bastavano più a mio fratello grande. Talvolta arrivava un gruppo sparuto di partigiani, alcuni si fermavano ma c’era solo un bicchiere di vinello rosso da offrire, e iniziava a fare freddo anche per loro.
Il parto di mia madre era previsto per la fine di ottobre ma i dolori si fecero sentire in anticipo, la sera del 14. Mio padre andò di corsa a chiamare il giovane dottore di Barga, rifugiato anche lui in una casa vicina e anche lui con la moglie incinta, ma lei per la prima volta. A quel punto la zia si impose sui due figli zitelloni per far sì che alla mamma fosse data una stanza e un comodo letto nella loro bella casa, e lei volle prendere me e mio fratello più piccolo con sé nel suo bel lettone.
Oggi non so se fu una scelta giusta, certamente dovuta al buon cuore, ma per tutta la notte o quasi sentii le urla di mia madre, interrotte solo dai colpi di un cannoneggiamento continuo, vicino, pauroso. Mi tappavo le orecchie con le mani e mi accoccolavo stretta stretta alla zia. Mario, il fratello più piccolo, sembrava dormire anche se ogni tanto sussultava, apriva gli occhi con una specie di pianto e poi li richiudeva. Intanto il neonato non si decideva a uscire e il medico se ne voleva andare, non ne poteva più del parto di mia madre ed era troppo in ansia per sua moglie. Quando già aveva infilato le scale, dopo un tira e molla piuttosto ruvido con mio padre, tornò indietro. Era il momento buono e Paolo Giovanni finalmente nacque, bello e robusto. Non ho mai saputo né indagato come si sentisse mia madre, di certe cose allora si parlava molto poco o a voce molto bassa.