“La voleva bassa e larga la casa, e l’ha avuta alta e stretta e ora sono qui a Sant’Elena e non sono certo Napoleone e neppure sua moglie”, così diceva mia madre, riferendosi a me, sua figlia, quando parlava della casa che avevo fatto costruire soprattutto per mio padre nei campi del nonno, lontani dal centro abitato di Barga a cui lei era tanto attaccata. Ma così era andata, e più tardi forse riuscirò a spiegare meglio questa storia. Qui mi piace iniziare risentendo le sue parole e il tono leggermente ironico con cui le pronunziava. Era una Gemignani e una delle loro caratteristiche, che non apparteneva alla mia famiglia paterna, era di saper sorridere e scherzare anche su fatti non sempre piacevoli o consolanti. Era intelligente e arguta, anche se la vita non le ha offerto molte occasioni per manifestare queste sue doti.
Mia madre, la bambina dagli occhi grandi della foto, seria seria, nata per ultima all’inizio del secolo, cresciuta con sette tra fratelli e sorelle, coccolata specie dalla mamma, forse anche un po’ viziata. Va a scuola, è brava, scrive già bene, e lo farà per tutta la vita quando volentieri aiuterà i figli a comporre i loro temi, ma non le piace allontanarsi da casa anche se si tratta di percorrere un tratto breve, e quando finisce la terza elementare dichiara che non ci andrà più. Viene accontentata, meglio tenerla in compagnia delle sorelle, tra piccoli giochi e impegni più seri, imparerà anche lei a cucire a mano sottovesti e camicie da notte, a ricamarle da cima a fondo, a intrecciare merletti per tende, coperte, tovaglie, scialli. Ci sono i corredi da preparare per il futuro delle figlie, pensa la madre. Come la sorella Marietta pure lei diverrà brava e creativa con pochi fili e colori, questo per buona parte della sua vita. Rita o Ritina vive bene nella grande casa paterna, forse le è troppo attaccata. A differenza delle sorelle non accompagnerà mai il padre a Roma. Lui come impresario edile con rapporti con i ministeri ci va spesso e volentieri conduce con sé una delle ragazze. La Ritina no, non vuole andare, troppo lontano. Anche l’opera non le interessa, ci va una volta, tutta vestita di pizzi, in carrozza, naturalmente. Danno la Tosca, le sorelle sono entusiaste, orgogliose della protagonista, ne esaltano la bellezza, il coraggio. A lei chiedono se è piaciuta e lei risponde con una battuta che è stata ripetuta per anni in famiglia, “Quando si è buttata giù dal muretto aveva i calzini bianchi…” e rinunzia ad altre opere. Però le piace leggere, forse è un nascondersi e ritrovarsi nelle storie degli altri, e questo continuerà a farlo anche negli anni difficili a venire quando saprà infondere nei figli il piacere della lettura. Poi accompagna a Barga in vacanza la zia Marietta, che ha bisogno di cambiare aria a causa della salute cagionevole e diventano pensionanti da Pia Pieri nella casetta del Giardino, con l’ampia terrazza al sole che guarda il Duomo.
Passa una vacanza, passa la seconda, alla terza si fidanza con il figlio maggiore, Leonello, Gioni per gli amici, e presto i due si sposano. Per la nonna Pia lei è un po’ troppo signorina, per i genitori Gemignani è un dolore averla lontana e forse speravano in un matrimonio più sostanzioso, ma così è. Arriva il primo figlio, Piero, e cominciano i guai per mia madre. Una pleurite viene considerata alla stregua di una tubercolosi, la famiglia paterna le toglie il figlio, deve curarsi, il bambino lo accudiranno loro. Nessuno si rende conto che c’è tanta gelosia alla base di tutto. É un brutto colpo per Rita che fa un voto, si vestirà sempre di nero, di grigio e di viola, i colori del lutto, abbandonerà ciò che di allegro e vivace fa parte del suo abbigliamento. Questo per sempre. La volpe argentata viene tinta di nero, lo scialle di seta cinese è messo da parte, ne usufruirò io tanti anni dopo. Il bianco è ammesso solo per rifiniture e per qualche colletto di pizzo creato dalle sue mani. Così io la ricordo, sempre a lutto. Solo dopo sei anni, nasco io, una bella bambina e mia madre gioisce, mi chiama con il nome della sorella più cara, Maria, e della nonna paterna. La bottega di mio padre viene ampliata, la mamma ha qualche tata che la aiuta così trova il tempo per ricamare ogni pezzetto di stoffa che si trova tra le mani. Qualche volta raggiunge le donne che si incontrano di pomeriggio nella piazzetta vicina, più per un senso di convenienza che per un vero piacere personale. Ama stare in casa. Non ama invece fare le faccende di casa e neppure ha passione per la cucina, anche se ha cucinato, talvolta con poco, tutta la vita. Solo la domenica prepara un vero pranzo con due portate, due contorni e il dolce. Nasce intanto il secondo fratello, Mario, e subito dopo arriva la guerra.
Rivedo ancora la sera della dichiarazione. Devo essere stata malata, influenza, bronchite, non so, ma sono nel mio lettino vicino alla finestra. Mio padre mi prende in braccio e arriva anche la mamma con il piccolo. Lui è arrabbiato con Piero, il figlio maggiore, perché non è con noi, è a festeggiare il discorso di Mussolini in piazza; dovrebbe essere a casa, altro che fuori a inneggiare con i fascisti. Sì, perché mio padre si è iscritto al partito solo all’ultimo momento dopo una giornata passata in una stanza chiusa insieme ai suoi due amici, e come loro l’ha fatto pensando alla famiglia. Poi parte militare. Mia madre prova a mandare avanti la bottega con l’aiuto del nonno ma non ci riesce, deve rinunziare e cominciano i tempi duri sia per la mancanza di denari sia per le restrizioni del periodo. Il cibo spesso manca, le donne fanno la fila sperando che arrivi qualcosa, mentre i repubblichini di guardia urlano di stare “buone, di non agitarsi e di essere grate”. Mia madre non risponde ma risponde anche per lei la sua giovane amica Valda: “E chi ce la fa ad agitarsi se non ce la facciamo nemmeno più a stare in piedi”. Mio padre ritorna, arriva un po’ di tempo dopo l’8 settembre, a piedi e con mezzi di fortuna, e mia madre è di nuovo incinta.
A questo punto non posso fare a meno di ricordare la battuta ricorrente tra noi figli, “per fortuna che c’è stata la malattia della mamma e poi la guerra sennò eravamo in sei invece che in quattro” e chissà quanti l’hanno pensato in quei giorni tristi e pericolosi. Dei miei genitori ricordo quanto fossero onesti e pudichi, e mi chiedo come facevano vivendo in un piccolo appartamento con un solo cesso, anzi un “comodo”, come si diceva a Barga con un termine inglese italianizzato.
La Rita era economica, ci teneva a fare economie, e lo sapevano i vari bottegai di Barga quando il peso non era abbondante, e i contadini a cui chiedeva frutta e verdura e con cui si arrabbiava quando non erano fresche e convenienti. Al tempo stesso, però, era generosa. Nessuno è mai uscito da casa nostra senza avere un piccolo dono, dei biscotti o della marmellata casalinga, dei lavori all’uncinetto o a maglia. Perché il bisogno l’aveva fatta diventare molto brava con i ferri. Ricordo le coperte di trina disfatte con attenzione per ricavare cotone da utilizzare per maglie, golfini e calzoncini. Anche i maglioni vecchi del figlio grande e del padre venivano sfatti, rinforzati se possibile con un filo di lana nuovo, e rifatti per i più piccoli e noi stavamo spesso con le braccia ben stese per riaggomitolare le matasse lavate. Le mie amiche negli anni capitavano volentieri a trovarci perché c’era sempre un oggetto fatto a maglia per i loro figli, rosa se femmina, azzurro se maschio, come voleva la consuetudine. E mia madre gioiva quando poteva ricamare le cifre del corredo di qualche giovane ricca sposa. Le piaceva studiare varie opzioni, disegnava con amore le iniziali dei nomi ed era felice quando in cambio veniva pagata. Erano soldi suoi, non concessi dal marito per i bisogni giornalieri. Dover passare ogni mattina dalla bottega per avere il necessario per la spesa non le andava giù, avrebbe voluto più autonomia finanziaria però era vittima del costume patriarcale. A mio padre, invece, faceva tanto piacere poterle dare il denaro magari di fronte a dei clienti maschi.
Ho già detto che amava leggere, tempo permettendo, e il libro che le piaceva farci ascoltare era Sussi e Biribissi, di Paolo Lorenzini, il nipote di Collodi, ormai credo scomparso dalle librerie. Quanto ci ha fatto ridere con la storia di questa coppia di ragazzotti che volevano infilarsi in un tombino di Firenze e arrivare al centro della terra. Uno grasso e basso, l’altro, il più intelligente almeno in apparenza, alto e magro. Era capace di drammatizzarlo per noi. Il Giornalino di GB invece non l’attirava, era troppo sofisticato secondo lei; Cuore invece la commuoveva, specialmente il racconto “Dagli Appen-nini alle Ande”, quasi un contrappunto a lei che non amava muoversi da casa. Non ci leggeva Pinocchio, perché la storia del burattino era riservata a mio padre. Per sé leggeva storie di donne e di sante, di quella poveraccia di Santa Rita con quel marito violento, e la sera pochi minuti erano dedicati al messale della Sposa Cristiana, il tipico regalo di nozze, scritto da Elena Guerra, una suora lucchese.
Le piaceva anche portarci in campagna “per respirare aria pura” e aveva due zone preferite dove vivevano famiglie amiche: la Vignola sotto il Duomo, vicina al paese, e San Piero in Campo, una frazione più lontana a cui si arrivava camminando lungo una strada in parte asfaltata. Ogni tanto, molto di rado, passava una macchina e allora “prendete il fazzolettino e tappatevi il naso, attenzione alla polvere, ci sono i batteri”. Il fazzolettino doveva essere sempre pulito in una taschina, pronto a tenere lontano i terribili batteri. É vero che noi figli più piccoli crescevamo un po’ bronchitici e linfatici, anche se non ho mai capito cosa volesse dire linfatici, e il dottorino che aveva aiutato a far nascere Paolo sotto le cannonate era ormai di famiglia, così come il farmacista diventatole grande amico. A me per anni ha continuato a dire: “un medico no ma almeno un farmacista te lo potevi trovare…”
Poi ci fu la ricerca di una casa diversa, più grande, “non voglio un salotto, voglio un bagno, anzi due”, finché mio padre si decise a dire di sì e comprò una casetta non male. Non più sopra la bottega ma sempre vicina ai magazzini edili che si erano ingranditi nella parte nuova di Barga, il Giardino. C’erano un bagno e un bagnetto e anche un salotto e due terrazze al sole e c’era la consapevolezza che tante sue economie avevano aiutato a mettere insieme la cifra necessaria. Gli anni passarono e ci fu la storia di un’altra casa, quella nei campi del nonno, a cui ho accennato all’inizio. Grande, moderna, con la cucina all’americana, con il giardino davanti e l’orto dietro e la vigna, e soprattutto con la Pania, la regina delle Apuane di fronte e la catena degli Appennini dietro. I miei amati monti. Ma mia madre non era fatta per vivere in campagna con solo tre case vicine. Lei dei campi non si era mai interessata, anche a Nozzano la vita delle sorelle Gemignani non era nei campi, al massimo nel giardino davanti casa, con la pergola, le aiuole, i muretti e le colonnine di mattoni. Si trovò lontana dalla sua chiesa, S. Rocco, e dalle botteghe a cui era abituata, senza i suoi giri giornalieri, dipendente dal marito per arrivare in paese. Anche con la sorella Marietta, che invece viveva tanto bene in mezzo al verde e ai fiori, ogni tanto c’erano scontri e diatribe soprattutto perché lei non si curava e la zia sapeva quanto mio padre ne soffrisse. Solo i suoi lunghi capelli, già bianchi a quarant’anni, erano ancora belli, raccolti a crocchia sulla nuca. Io ho ancora il rimorso di averla portata nella nuova casa che a me invece piaceva tanto, così piena di sole e che appagava mio padre, ormai commerciante in pensione e contadino a tempo pieno. Rimpiango di non aver capito il trauma che la lontananza dal paese e il distacco dalle sue abitudini avrebbe avuto su di lei che, “sono qua a Sant’Elena”, diceva in tono spiritoso quando era di buon umore oppure se c’era qualche visitatore, e in tono triste quando si sentiva sola e abbattuta. A poco a poco, dopo tanto lavorare e mettersi in gioco, sembrò tornare bambina, stava in casa, non aveva più la forza o la voglia di darsi daffare, si abbandonava sulla poltrona. Voleva che fossero gli altri a prendersi cura di lei e se lo meritava. Mio padre che non sapeva fare niente in cucina, diventò il cuoco di famiglia.
Parecchi anni dopo ho fatto un sogno pieno di gioia. Ho visto mia madre in passeggiata a Viareggio insieme alla zia Paola. Indossava una pelliccia nera di astrakan, elegante quanto quella della sorella. Ciò che noi tutti avremmo voluto per lei tanti anni prima. Al risveglio ho continuato a provare un grande conforto e un senso di pace. Anche oggi, ogni volta che rivivo questo sogno con gli occhi della memoria è come ricevere un dono.