Nonna, mi racconti una fola? Va bene, ma quale vuoi? Una delle Alpi con la neve e il vento e i banditi o una bella con le principesse, il principe e...?
Nonna Pia raccontava fole e giocava a carte. Questi sono gli aspetti di lei che amavo e che ripenso con nostalgia. Il ricordo delle fole risale a quando ero piccola, prima di andare alla scuola elementare. Mi mettevo seduta su una seggiolina accanto alla sua poltrona e lei cominciava. Talvolta le fole erano storie locali, perse un po’ nel tempo, più spesso erano fiabe classiche rivisitate. A seconda del suo umore, venivano arricchite dal sole o rese tristi dalla pioggia, mentre l’accento cadeva sui personaggi buoni e prendeva le distanze da quelli cattivi. Oggi posso dire che era una narratrice nata, anzi una affabulatrice. Allora mi bastava ascoltarla, per ore, senza stancarmi.
Poi crebbi e scoprii la canasta. La nonna avrebbe preferito giocare a scopa, briscola e ancor di più a scopone e tresette, io, però, non ne ero capace e allora si accontentava. Abitavamo vicino e dopo desinare correvo da lei e giù una partita dopo l’altra, finché, prima di sera, dovevo tornare a casa per fare i compiti. Se qualche adulto veniva in visita lei si offriva di giocare e dato che era brava veniva accontentata più che volentieri. Questo specialmente in età avanzata perché prima il suo tempo era preso dai lavori preferiti: coltivare i fiori, fare la maglia, lavorare all’uncinetto. Bravissima in tutti e tre. I suoi davanzali erano pieni di gerani fioriti quasi tutto l’anno, come se le cure praticate sfidassero i rigori invernali; le sue maglie erano un ricamo di trecce e di fioriture, l’uncinetto le piaceva perché “si teneva bene in mano” e così sfornava centri e centrini da regalare in giro, bastava portarle il filo da lavorare perché comprarlo con i suoi soldi non le piaceva.
Era bella nonna Pia, alta con gli occhi azzurri, una migrante che aveva passato la vita andando e tornando dall’Inghilterra, con due figli nati là e due nati in Italia, che parlava a volte un “broken English” e un buffo italiano. “Ho avuto una bella ciansa”, era la sua espressione preferita quando alcuni piccoli commerci erano andati bene. Le dava particolare soddisfazione affittare due camere durante la stagione estiva, quelle sì che erano belle cianse. Era anche una padrona, della famiglia, della casa e dei soldi, e questo era l’aspetto meno simpatico, sempre celato dalla bella figura. E qui conviene cominciare da capo.
Nonna Pia era nata venti anni prima della fine del secolo in un casolare sotto San Pellegrino in Alpe, da una famiglia di piccoli pastori, taglialegna e carbonai. Aveva imparato a leggere e a far di conto dal prete come tanti altri bimbi del posto e questo fu importantissimo per la sua vita futura. Sui monti è facile per gli uomini camminare e spostarsi per lavoro ma anche per trovare compagnia. Fu così che conobbe il nonno, anche lui un montanaro ma della montagna più in basso, sopra Barga. Qui si stabilirono da giovani sposi nella casa di famiglia, con i fratelli e le sorelle del nonno finché come molti barghigiani decisero di emigrare in Scozia dove già alcuni parenti e parecchi compaesani avevano trovato lavoro. Ma, a differenza della maggior parte di loro, non si considerarono mai stanziali né tanto meno decisi a rimanere fino a prendere la cittadinanza britannica. Anzi, e questo è il fatto quasi straordinario per l’epoca e per la zona sempre più caratterizzata da una emigrazione duratura, appena messo da parte un gruzzoletto tornavano a casa.
Una volta riuscivano a comprare un campo o due, poi ad acquistare una casetta e così via, in una andata e ritorno continuo. Fatti un po’ di soldi si tornava al paese; quando il bisogno si faceva sentire si ripartiva per la Scozia dove il lavoro era assicurato. Intanto nascevano i figli; il primo poco dopo il matrimonio, un bel bimbo robusto, gli altri a seguire, un fratello e poi due sorelle, quattro figli in poco più di sei anni. Poi l’ultimo viaggio e il ritorno definitivo a Barga.
La casetta in via del Giardino fu ampliata: quattro camere al piano di sopra con terrazza e gabinetto, cucina e salotto a piano terra e sul retro una cantina buia e sterminata, così almeno sembrava a me, piena di roba varia, dai formaggi alle salsicce, alla frutta, al pane, e dietro ancora il lavatoio e il pollaio. Sì, perché avere un pollaio era vitale per le uova giornaliere e per la carne delle feste. I conigli invece venivano allevati in quantità quasi industriale per essere venduti e delle loro pelli, conciate ad arte, si facevano sopraccoperte, copripiedi e anche cappottini per le nipotine più piccole. Le gabbie, ben allineate e pulite ogni giorno, erano sistemate in un angolo dei campi, che, diventati quattro, erano coltivati a grano e granturco e circondati da viti. Si faceva anche il vino, aspro ma bevibile, e la vendemmia era una festa. E come se non bastasse, si coltivava un orto preso in affitto, grandissimo, circondato da alberi da frutto e pieno di verdure e fiori in ogni stagione.
I figli erano ormai adulti, due vivevano in Scozia con il loro negozio di pesci e patate, in seguito diventato gelateria e drogheria. Il figlio maggiore, rimasto in Italia, con l’aiuto del padre aveva iniziato un commercio di materiali edili, si era sposato e anche lui aveva avuto figli.
Era intanto iniziata la seconda guerra mondiale con il suo seguito di sofferenze per tutti ma maggiore per molti barghigiani che avevano familiari in Gran Bretagna, diventata all’improvviso terra ostile. Per la nonna, e non solo per lei, questo fu lacerante: due figli vivevano vicini, gli altri due nel paese nemico.
Era una guerra che la nonna sentiva nella carne e ci furono momenti non solo tristi ma pieni di paura quando si sparse la voce che in casa si ascoltava la radio inglese. Non accadeva spesso ma era un modo per avere notizie diverse da quelle raccontate dalla propaganda di regime e per sentirsi vicini a quel paese da cui lei e il nonno avevano ricevuto una buona dose di benessere e che era diventato la patria di due figli e delle loro famiglie.
Arrivò l’8 settembre del ’43 ma la vita non migliorò, anzi continuarono le rappresaglie per chi aveva dimostrato poco affetto per il fascismo e iniziarono continui cannoneggiamenti con relative fughe anche notturne verso i monti vicini. Poi arrivarono gli alleati e la zona fu liberata, così almeno si pensò, fino ai giorni terribili del Natale ’44 quando il paese fu sottoposto a tre giorni di continui inutili bombardamenti da parte degli stessi alleati. Il terzo giorno il nonno morì, di spavento e di crepacuore, sosteneva la nonna.
Passò anche la guerra, la vita riprese il suo andamento quasi normale, dal Regno Unito tornarono i figli, vennero anche i nipoti mai visti prima e seguirono negli anni tanti pronipoti.
Ormai vecchia ma sempre vivace e arguta, nonna Pia si dovette fermare per una stupida caduta. Aveva preso l’abitudine di fare brevi passeggiate due volte al giorno, sedersi su una panchina non lontana da casa e chiacchierare con i passanti. Era conosciuta da tutti nella zona e trovava sempre qualcuno con cui scambiare ricordi e commenti. La lettura del giornale e l’ascolto della radio l’aiutavano in questo. Ma un giorno nell’alzarsi dalla panchina inciampò e cadde. Un dolore straziante, il femore si era rotto.
Oggi sarebbe stata subito operata, probabilmente con successo, allora il danno avvenuto non fu diagnosticato. Il medico parlò di contusione. I lamenti continui e lancinanti della nonna furono interpretati come quelli di chi non aveva avuto mai gravi malanni e non riusciva a sopportare alcun dolore. Quando la diagnosi corretta ebbe luogo era troppo tardi per operare e lei dovette passare i suoi ultimi anni in un letto e qualche volta su una carrozzina, rimpiangendo sempre la sua precedente autonomia.
Si spense lentamente quasi centenaria, dopo aver visto tanti cambiamenti, avere accolto le novità con curiosità e interesse, felice di tutti i nipoti e pronipoti qui in Italia e al di là del mare che spesso andavano a trovarla e le raccontavano, loro, della vita e del mondo.