IO HO UCCISO

Il dottor Jašvin fece un sorrisetto storto e strano e domandò:

«Si può strappare il foglietto del calendario? Sono esattamente le dodici, quindi è cominciato il giorno 2».

«Prego, prego» risposi.

Con le dita sottili e bianche Jašvin afferrò un angolino e staccò delicatamente il primo foglio. Sotto di esso apparve la paginetta di carta scadente con la cifra «2» e la parola «martedì». Ma qualcosa sulla paginetta grigia interessò straordinariamente Jašvin. Egli socchiudeva gli occhi, fissandola, poi li alzò e guardò lontano, chissà dove, sicché si capiva che vedeva una scena misteriosa, accessibile a lui solo, da qualche parte oltre la parete della mia stanza, e forse anche ben oltre la Mosca notturna nella foschia minacciosa del gelo di febbraio.

“Cosa ci avrà trovato?” pensai, guardando il dottore con la coda dell’occhio. Mi aveva sempre incuriosito molto. Il suo aspetto sembrava non corrispondere alla sua professione. Chi non lo conosceva lo prendeva sempre per un attore. Scuro di capelli, aveva nello stesso tempo una carnagione bianchissima, il che lo rendeva bello e in qualche modo fuori del comune. Era rasato alla perfezione, si vestiva con grande cura, amava moltissimo andare a teatro, e se parlava di teatro lo faceva con grande gusto e competenza. Si distingueva fra tutti i nostri assistenti ospedalieri, e adesso fra i miei ospiti, soprattutto per le calzature. Eravamo in cinque nella stanza, e quattro di noi portavano scarpe di vitello a buon mercato, con le punte ingenuamente arrotondate, mentre il dottor Jašvin portava stivaletti di vernice a punta e ghette gialle. Devo del resto dire che l’eleganza di Jašvin non produceva mai un’impressione particolarmente sgradevole, e che, bisogna rendergli giustizia, egli era un ottimo medico. Coraggioso, fortunato e, soprattutto, capace di trovare il tempo per leggere, nonostante le costanti frequentazioni della Valchiria e del Barbiere di Siviglia.

Naturalmente non si trattava delle scarpe, ma d’altro: egli m’incuriosiva per una sua insolita peculiarità: uomo taciturno e indubbiamente chiuso, in alcuni casi diventava un notevole narratore. Parlava con molta calma, senza affettazione, senza pesantezze filistee e belati, «mia-a», e sempre di argomenti molto interessanti. Il medico riservato e un po’ vanesio allora pareva accendersi, solo di tanto in tanto faceva gesti brevi e morbidi con la bianca mano destra, come a fissare nell’aria piccole pietre miliari del racconto; non sorrideva mai, se raccontava qualcosa di buffo, e le sue similitudini erano talvolta così azzeccate e colorite, che, ascoltandolo, ero sempre assillato da un solo pensiero: “Sei tutt’altro che un cattivo medico, e tuttavia non hai seguito la tua strada, e avresti dovuto fare soltanto lo scrittore...”.

Anche allora mi balenò quel pensiero, benché Jašvin non dicesse nulla, ma fissasse a occhi socchiusi la cifra «2» e una lontananza sconosciuta.

“Cosa ci avrà trovato? L’illustrazione, forse.” Lanciai uno sguardo al di sopra della spalla e vidi che l’illustrazione era quanto mai banale. Rappresentava un cavallo dall’aspetto sproporzionato e dal petto atletico, e accanto un motore con la scritta: «Grandezza relativa di un cavallo (1 cavallo vapore) e di un motore (500 cavalli vapore)».

«Sono tutte stupidaggini, compagni,» presi a dire, continuando la conversazione «volgarità da piccoli borghesi. Quei demòni danno la colpa ai medici, come la danno ai morti, e a noi chirurghi in particolare. Pensate un po’ voi: uno opera cento appendici, alla centunesima il malato gli muore sotto i ferri. Ditemi, l’ha sbudellato, forse?»

«Diranno senz’altro che l’ha sbudellato» rispose il dottor Gins.

«E se è una donna, il marito verrà in clinica a scagliarvi contro la sedia» confermò con convinzione il dottor Plonskij e addirittura sorrise, e anche noi sorridemmo, benché, in realtà, ci fosse ben poco di divertente nelle sedie scagliate in clinica.

«Non posso sopportare» continuai «le parole false e contrite: “Io ho ucciso, ah, ho ammazzato”. Nessuno ammazza nessuno, e se anche ci muore un paziente fra le mani, è un caso disgraziato che lo uccide. Insomma, è ridicolo! L’omicidio non si addice alla nostra professione. Che diamine!... Io chiamo omicidio l’eliminazione di un uomo con l’intenzione premeditata, be’, o in ogni caso con il desiderio di ucciderlo. Un chirurgo con la pistola in mano: così l’intendo. Ma un chirurgo del genere non l’ho ancora incontrato in vita mia, e dubito che mai l’incontrerò.»

Il dottor Jašvin a un tratto voltò la testa verso di me, e allora notai che il suo sguardo era diventato greve, e disse:

«Eccomi, per servirla».

Così dicendo si puntò il dito contro la cravatta e di nuovo fece un sorrisetto storto, non con gli occhi però, ma con l’angolo della bocca.

Lo guardammo stupiti.

«Cioè, come sarebbe a dire?» domandai.

«Io ho ucciso» chiarì Jašvin.

«Quando?» domandai assurdamente.

Jašvin indicò la cifra «2» e rispose:

«Pensi che combinazione. Appena lei ha cominciato a parlare di morte, ho fatto caso al calendario e ho visto che era il giorno 2. Del resto, comunque ogni anno ricordo quella notte. Vedete, esattamente sette anni fa, in questa stessa notte, sì, e forse anche...» Jašvin tirò fuori l’orologio nero, lo guardò «... Sì... quasi alla stessa ora, la notte fra l’1 e il 2 febbraio io lo uccisi.»

«Un paziente?» domandò Gins.

«Un paziente, sì.»

«Ma non intenzionalmente?» domandai io.

«Sì, intenzionalmente» rispose Jašvin.

«Be’, credo di indovinare,» osservò fra i denti lo scettico Plonskij «avrà avuto il cancro, un’agonia atroce, e lei gli ha somministrato dieci dosi di morfina...»

«No, la morfina qui non c’entra affatto» rispose Jašvin «e lui non aveva nessun cancro. C’era il gelo, lo ricordo benissimo, quindici gradi sotto zero, le stelle... Ah, che stelle ci sono in Ucraina. Ecco, son quasi sette anni che vivo a Mosca, eppure ho sempre nostalgia della patria. Mi si stringe il cuore, certe volte muoio dalla voglia di salire su un treno... e via. Rivedere i dirupi innevati. Il Dnepr... Al mondo non c’è città più bella di Kiev.»

Jašvin ripose il foglietto di calendario nel portafogli, si rannicchiò nella poltrona e continuò:

«Città minacciosa, tempi minacciosi... e ho visto cose terribili, che voi, moscoviti, non avete mai visto. Era l’anno 1919, proprio il primo di febbraio. Era già sceso il crepuscolo, erano le sei di sera. Quel crepuscolo mi trovò intento a una strana occupazione. Sul tavolo del mio studio la lampada è accesa, nella stanza c’è un tepore accogliente, e io siedo sul pavimento davanti a una piccola valigetta, vi ficco dentro alla rinfusa varie cosucce e sussurro una sola parola:

«Fuggire, fuggire...».

Ora caccio una camicia nella valigia, ora la tolgo... Non ci entra, maledetta. La valigetta è di quelle a mano, minuscola, i mutandoni hanno occupato un sacco di posto, poi un centinaio di sigarette, lo stetoscopio. Tutto preme per saltar fuori della valigetta. Butto via la camicia, mi metto in ascolto. Gli infissi invernali sono sigillati, i suoni arrivano ovattati, ma arrivano... Lontano, lontano brontola grevemente così: «Bu-u... hu-u...» Artiglieria pesante. Passa un boato, poi tace. Guardo fuori della finestra... Abitavo su un pendio, in cima all’Alekseevskij spusk, da cui potevo vedere tutto il Podol. Dal Dnepr avanza la notte, avviluppando le case, e a poco a poco le luci si accendono a catenelle, a file... Poi di nuovo un boato. E ogni volta che scoppia oltre il Dnepr, io sussurro:

«Dài, dài, dài ancora».

Ecco di che si trattava: a quell’ora tutta la città sapeva che Petljura stava per lasciarla. Se non quella notte, la successiva. Da dietro il Dnepr avanzavano, e in gran numero, a dar retta alle voci, i bolscevichi; e bisognava riconoscere che tutta la città li aspettava non solo con impazienza, ma direi perfino con entusiasmo. Perché quel che avevano fatto le truppe di Petljura a Kiev in quell’ultimo mese del loro soggiorno era addirittura inconcepibile. Ogni momento scoppiavano pogrom, ogni giorno uccidevano qualcuno, dando la preferenza agli ebrei, si capisce. Requisivano, per la città sfrecciavano automobili e in esse uomini con šlyk1 rossi gallonati sui berrettoni di pelo, e negli ultimi giorni i cannoni in lontananza non si erano fermati neppure un’ora. Giorno e notte. Tutti erano come in pena, tutti avevano occhi acuti, inquieti. E sotto le mie finestre, non più tardi del giorno prima, due cadaveri erano rimasti nella neve per mezza giornata. Uno in cappotto militare grigio, l’altro in camiciotto nero, ed entrambi senza stivali. E la gente ora scartava di lato, ora si ammassava a capannelli, guardava, delle donne a capo scoperto correvano fuori dei portoni, levavano minacciosamente i pugni contro il cielo e gridavano:

«Sì, aspettate. Verranno, verranno i bolscevichi!».

Ripugnante e miserevole era la vista di quei due, uccisi non si sa perché. Cosicché alla fine cominciai ad aspettare i bolscevichi. Che erano sempre più vicini. L’orizzonte si spegne, e i cannoni in lontananza brontolano, come se fossero nel ventre della terra.

E così...

E così: la lampada brilla accogliente e nello stesso tempo inquietante, sono solo soletto in casa, i libri giacciono sparsi qua e là (il fatto è che in tutto quel caos accarezzavo il folle sogno di prepararmi per il grado accademico), e io sono alle prese con la valigetta.

Accadde, bisogna che vi dica, che gli eventi irruppero in casa mia, mi trascinarono per i capelli e mi portarono via, e tutto cominciò a volare come un accidente di brutto sogno. Ero tornato proprio quella sera dalla periferia, dall’ospedale operaio dove ero assistente nel reparto di chirurgia femminile, e avevo trovato nella fessura della porta un plico dalla sgradevole aria ufficiale. L’avevo aperto subito, lì sul pianerottolo, avevo letto il contenuto di un foglietto, e mi ero seduto sulle scale.

Sul foglietto era battuto a macchina a caratteri bluastri:

«Con la presente...».

In breve, tradotto in lingua russa:

«La invitiamo a presentarsi entro due ore dal ricevimento della presente alla direzione sanitaria, per conoscere la Sua destinazione...».

Dunque era così: quello stesso brillante esercito che abbandonava i cadaveri per strada, bat’ko Petljura, i pogrom e io con la croce rossa sulla manica in loro compagnia... Del resto, non fantasticai più di un minuto, seduto sulla scala. Scattai in piedi come una molla, entrai in casa, ed ecco entrare in scena la valigetta. Il mio piano maturò in fretta. Fuori dell’appartamento, un po’ di biancheria, e via in periferia da un mio amico infermiere, un uomo dall’aria malinconica e di chiare simpatie bolsceviche. “Resterò tappato da lui finché non cacceranno via Petljura. E se non lo cacceranno affatto? Forse questi bolscevichi tanto attesi sono un mito? Cannoni, dove siete? Tacciono. No, brontolano di nuovo...”

Buttai via rabbiosamente la camicia, feci scattare la serratura della valigetta, misi in tasca la Browning e un caricatore di riserva, infilai il cappotto con la fascia con la croce rossa, mi guardai intorno tristemente, spensi la lampada e a tentoni, fra le ombre del crepuscolo, uscii in anticamera, l’illuminai, presi il cappuccio e aprii la porta sul pianerottolo.

E subito, tossendo, misero piede in anticamera due figure con le corte carabine della cavalleria dietro le spalle.

Uno aveva gli speroni, l’altro no, entrambi portavano i berrettoni di pelo con gli šlyk blu spavaldamente spenzolanti sulle guance.

Ebbi un tuffo al cuore.

«È lei il dottor Jašvin?» domandò il primo soldato.

«Sì, io» risposi sordamente.

«Verrà con noi» disse il primo.

«Che significa?» domandai, riprendendomi un po’.

«Sabotaggio, ecco cosa;» rispose quello che faceva chiasso con gli speroni e mi guardò con aria allegra e maliziosa «i dottori non vogliono mobilitarsi, e di questo risponderanno secondo la legge.»

Si spense l’anticamera, scattò la porta... le scale... la strada...

«E dove mi portate?» chiesi e nella tasca dei pantaloni sfiorai dolcemente la fresca impugnatura scanalata.

«Al primo reggimento di cavalleria» rispose quello con gli speroni.

«Perché?»

«Come perché?» si stupì il secondo. «Lei è destinato a noi come medico.»

«Chi comanda il reggimento?»

«Il colonnello Leščenko» rispose con un certo orgoglio il primo, e i suoi speroni tintinnavano ritmicamente alla mia sinistra.

“Figlio di un cane che sono,” pensai “fantasticavo sulla mia valigetta. Per dei mutandoni... Ma cosa mi costava uscire cinque minuti prima...”

Sulla città era già sospeso un gelido cielo nero, e vi stavano spuntando le stelle, quando arrivammo a una villetta. Nei suoi vetri arabescati dal gelo ardeva la luce elettrica. Con gran stridio di speroni mi condussero in una vuota stanza polverosa, illuminata in modo accecante da un forte globo elettrico sotto un tulipano opalescente rotto. In un angolo spuntava la canna di una mitragliatrice, e la mia attenzione fu attirata da alcune macchie rossicce e vermiglie nell’angolo vicino alla mitragliatrice, là dove pendeva a brandelli un arazzo prezioso.

“Ma quello è sangue” pensai, e il mio cuore si strinse sgradevolmente.

«Pan colonnello,» disse sottovoce quello con gli speroni «abbiamo trovato un dottore.»

«Ebreo?» a un tratto proruppe una voce secca e rauca, da qualche parte.

Una porta ricoperta da un arazzo con delle pastorelle si aprì senza rumore, e un uomo entrò di corsa.

Portava uno splendido cappotto e stivali con gli speroni. Era ben stretto in vita da una cintura caucasica con le borchie d’argento, e sulla sua coscia una sciabola, pure caucasica, brillava come tante fiammelle nel fulgore della luce elettrica. Portava un berretto di astrakan con una calotta cremisi attraversata da un gallone dorato. Gli occhi strabici avevano uno sguardo cattivo, morboso, strano, come se vi saltellassero delle palline nere. La sua faccia era butterata, e i corti baffi neri si contraevano nervosamente.

«No, non è ebreo» rispose il soldato.

Allora l’uomo balzò verso di me e mi guardò negli occhi.

«Lei non è ebreo,» disse con forte accento ucraino in una lingua scorretta, un miscuglio di parole russe e ucraine «ma non è meglio di un ebreo. E quando la battaglia finirà, io la consegnerò a un tribunale militare. Sarà fucilato per sabotaggio. Non allontanarsi da lui!» ordinò al soldato. «E dare un cavallo al dottore.»

Io stavo in piedi, tacevo, ed ero, presumibilmente, pallido. Poi di nuovo tutto si mise a scorrere come un sogno nebuloso. Qualcuno in un angolo disse lamentosamente:

«Abbia pietà, pan colonnello...».

Vidi confusamente una barbetta tremante, un lacero cappotto militare. Intorno a esso cominciarono a balenare facce di cavalleggeri.

«Un disertore?» cantilenò la voce un po’ rauca che già conoscevo «Ah, peste schifosa.»

Vidi il colonnello, con la bocca contratta da un tic, estrarre dalla fondina una pistola elegante e cupa, e con il calcio colpire in faccia quell’uomo lacero. Questi barcollò di lato, cominciò a soffocarsi col suo sangue, cadde in ginocchio. Dai suoi occhi le lacrime scorsero a rivoli...

E poi sparì la città bianca di brina, lungo la riva del Dnepr impietrito, nero e misterioso, si stese la strada orlata di alberi, e sulla strada marciava, snodandosi come un serpente, il primo reggimento di cavalleria.

In coda di tanto in tanto rumoreggiavano i carri delle salmerie. Le picche nere ondeggiavano, spuntavano i cappucci a punta ricoperti di brina. Io cavalcavo sulla sella fredda, di tanto in tanto muovevo dolorosamente le dita indolenzite negli stivali, respiravo nell’apertura del cappuccio, orlata di un baffo di brina, sentivo la mia valigetta, legata all’arcione della sella, premermi contro la coscia sinistra. Il mio inseparabile soldato di scorta cavalcava in silenzio al mio fianco.

Dentro di me tutto gelava, così come gelavano i miei piedi. A tratti alzavo la testa verso il cielo, guardavo le stelle grandi, e nelle mie orecchie, come se ci fosse rimasto attaccato, risuonava, svanendo solo di tanto in tanto, l’urlo di quel disertore. Il colonnello Leščenko aveva ordinato di picchiarlo con le bacchette per pulire i fucili, e l’avevano picchiato nella villetta.

La lontananza nera adesso taceva, e con severa amarezza pensavo che probabilmente i bolscevichi erano stati respinti. La mia sorte era senza speranza. Avanzavamo verso Slobodka, là dovevamo fermarci a difendere il ponte che attraversava il Dnepr. Se i combattimenti fossero cessati e io non fossi stato direttamente necessario, il colonnello Leščenko mi avrebbe processato. A questo pensiero mi sentivo impietrire e contemplavo teneramente e tristemente le stelle. Non era difficile indovinare l’esito di un processo per il rifiuto di presentarsi entro due ore in un momento così drammatico. Atroce destino di un laureato...

Di lì a un paio d’ore di nuovo tutto mutò, come in un caleidoscopio. Era sparita la strada nera. Mi ritrovai in una bianca stanza intonacata. Sul tavolo di legno c’erano una lanterna, un tozzo di pane e una borsa da medico tutta sottosopra. I miei piedi si ripresero, mi scaldai, perché nella nera stufetta di ferro danzava un fuoco purpureo. Di tanto in tanto entravano da me dei soldati, e io li curavo. Per la maggior parte erano congelati. Si toglievano gli stivali, svolgevano le pezze da piedi, si contorcevano davanti al fuoco. Nella stanza c’era un acre odore di sudore, tabacco forte e tintura di iodio. Talvolta restavo solo. Il mio soldato di scorta mi aveva lasciato. “Fuggire” — di tanto in tanto socchiudevo la porta, sbirciavo fuori e vedevo le scale, illuminate da un moccolo di candela stearica, volti, fucili. Tutta la casa era piena di gente, fuggire era difficile. Mi trovavo nel centro dello stato maggiore. Dalla porta tornavo al tavolo, mi sedevo sfinito, appoggiavo la testa sulle braccia e ascoltavo attentamente. Orologio alla mano notai che ogni cinque minuti da sotto il pavimento si levava un urlo. Ormai sapevo esattamente di che si trattava. Al piano di sotto stavano fustigando qualcuno con le bacchette. L’urlo talvolta si trasformava in qualcosa di simile a un roboante ruggito leonino, talvolta invece in suppliche e lamenti, che attraverso il pavimento parevano teneri, come se qualcuno conversasse in intimità con un amico; talvolta si interrompeva di botto, come reciso con un coltello.

«Perché li picchiate?» domandai a uno degli uomini di Petljura, che, tremando, tendeva le mani verso il fuoco. Il suo piede nudo stava sullo sgabello, e io ricoprivo con un unguento bianco una piaga corrosa vicino all’alluce livido. Egli rispose:

«Si è scoperta un’organizzazione a Slobodka. Comunisti ed ebrei. Il colonnello li sta interrogando».

Tacqui. Quando se ne andò, mi avvolsi la testa nel cappuccio, e i suoni mi arrivarono più attutiti. Trascorsi così circa un quarto d’ora, finché da quella smemoratezza, in cui incessantemente mi affiorava davanti agli occhi chiusi una faccia butterata sotto dei galloni dorati, mi riscosse la voce del mio soldato di scorta:

«Il pan colonnello la vuole».

Mi alzai, sotto lo sguardo perplesso del soldato svolsi il cappuccio e lo seguii. Scendemmo le scale fino al piano di sotto ed entrai in una stanza bianca. Lì vidi il colonnello Le ščenko alla luce di una lanterna.

Era nudo fino alla cintola e si rattrappiva sullo sgabello, stringendo al petto una garza insanguinata. Vicino a lui stava un ragazzo smarrito che scalpicciava, sbattendo gli speroni.

«Carogna» mormorò il colonnello. Poi si rivolse a me: «Su, pan dottore, mi cambi la medicazione. Ragazzo, esci» ordinò, e il ragazzo con gran fracasso infilò la porta. Nella casa c’era silenzio. E in quel momento l’intelaiatura della finestra tremò. Il colonnello guardò furtivamente la finestra nera, e anch’io. “Cannoni” pensai, sospirai convulsamente, domandai:

«Con che cosa?».

«Un temperino» rispose tetro il colonnello.

«Chi?»

«Non sono affari suoi» rispose con freddo, maligno disprezzo e aggiunse: «Ohi, pan dottore, lei finirà male».

A un tratto capii: “È qualcuno che non ha retto alle sue torture, si è scagliato contro di lui e l’ha ferito. Non può essere andata altrimenti...”.

«Si tolga la garza» dissi, chinandomi sul suo petto ricoperto di peli neri. Ma non fece in tempo a togliersi il grumetto insanguinato, che dietro la porta si udì uno scalpicciare, un tramestio, una voce rozza si mise a gridare:

«Ferma, ferma, diavolo, dove...».

La porta si spalancò, e nella stanza irruppe una donna scarmigliata. Il suo viso era asciutto e, così mi parve, perfino allegro. Solo in seguito, molto tempo dopo, capii che il furore più disperato può esprimersi in forme molto strane. Una mano grigia fece per afferrare la donna per lo scialle, ma la mancò.

«Va’, ragazzo, va’,» ordinò il colonnello, e la mano sparì.

La donna fermò lo sguardo sul colonnello seminudo e disse con voce asciutta, senza lacrime:

«Perché avete fucilato mio marito?».

«Perché bisognava, per questo l’abbiamo fucilato» rispose il colonnello e fece una smorfia di sofferenza. La pallottola di garza diventava sempre più vermiglia sotto le sue dita.

Lei sorrise in modo tale che non distolsi più lo sguardo dai suoi occhi. Non avevo mai visto occhi simili. Ed ecco, si voltò verso di me e disse:

«E lei, dottore!...».

Puntò il dito sulla mia manica, sulla croce rossa, e tentennò il capo.

«Ahi, ahi,» continuava, e i suoi occhi fiammeggiavano «ahi, ahi. Che vigliacco è lei... ha studiato all’università e sta con questa marmaglia... Fa anche le medicazioni per loro?! Lui bastona e bastona un uomo sulla faccia. Finché non lo fa impazzire... E lei gli fa la medicazione?...»

Tutto mi si offuscò davanti agli occhi, fino alla nausea, e sentii che proprio adesso erano cominciati gli eventi più terribili e sorprendenti nella mia disgraziata vita di medico.

«Dice a me?» domandai e sentii che tremavo. «A me?... Ma lo sa?...»

Ma lei non volle ascoltare, si girò verso il colonnello e gli sputò in faccia. Questi scattò in piedi, gridò:

«Ragazzi!».

Quando accorsero, egli disse con rabbia:

«Datele venticinque bacchettate».

Lei non disse nulla, e la trascinarono fuori per le braccia; il colonnello chiuse la porta e abbassò il gancio, poi si lasciò cadere sullo sgabello e gettò via la pallottola di garza. Dal piccolo taglio gocciolava il sangue. Il colonnello asciugò lo sputo che gli pendeva sul baffo destro.

«A una donna?» domandai con una voce che non era affatto la mia.

L’ira si accese nei suoi occhi.

«Ma guarda un po’» disse e mi guardò in modo sinistro. «Adesso vedo che bel tipo mi hanno dato invece di un medico...»

 

Una delle pallottole devo avergliela sparata in bocca, perché ricordo che dondolava sullo sgabello e il sangue gli scorreva dalla bocca, poi di colpo gli spuntarono delle chiazze sul petto e sul ventre, poi i suoi occhi si spensero e divennero lattei da neri che erano, quindi egli crollò sul pavimento. Sparando, ricordo che temevo di sbagliare il conto e lasciar partire la settima, l’ultima. “Qui c’è la morte anche per me” pensavo, e la Browning mandava un odore molto piacevole di gas fumoso. Appena la porta cominciò a scricchiolare, mi lanciai fuori della finestra, dopo aver infranto i vetri a calci. E saltai fuori, la sorte mi fu benigna, in un cortile interno, corsi in una strada nera, passando accanto a cataste di legna. Mi avrebbero senz’altro preso, ma per caso incappai in una fossa fra due muri addossati l’uno all’altro e là, in quella buca, come in una grotta, restai seduto sui mattoni rotti per qualche ora. I cavalleggeri mi galopparono davanti, lo sentii. La viuzza conduceva al Dnepr, e a lungo trottarono lungo il fiume, cercandomi. Dalla fessura vedevo una sola stella, chissà perché penso che fosse Marte. Mi sembrò che deflagrasse. Era il primo proiettile che era scoppiato, coprendo la stella. E poi per tutta la notte a Slobodka tuonò e mitragliò, mentre io sedevo nella mia tana di mattoni e tacevo e pensavo al grado accademico e mi chiedevo se quella donna fosse morta sotto le bacchettate. E quando tutto si calmò, albeggiava appena e io uscii dalla buca, non resistendo più al supplizio: mi ero congelato i piedi. Slobodka era morta, tutto taceva, le stelle erano impallidite. E quando arrivai al ponte, era come se non ci fosse mai stato né il colonnello Leščenko, né il reggimento di cavalleria... Solo sterco sulla strada calpestata...

E percorsi da solo tutta la strada fino a Kiev e vi entrai che era già giorno fatto. Mi accolse una strana pattuglia, con dei colbacchi coi paraorecchie.

Mi fermarono, mi chiesero i documenti.

Dissi:

«Sono il medico Jašvin. Fuggo dagli uomini di Petljura. Dove sono?».

Mi dissero:

«Se ne sono andati stanotte. A Kiev c’è il comitato rivoluzionario».

E vidi che uno degli uomini della pattuglia mi fissava negli occhi, poi fece un gesto quasi compassionevole e disse:

«Vada a casa, dottore».

E io andai.

Dopo un breve silenzio chiesi a Jašvin:

«È morto? L’ha ucciso o soltanto ferito?».

Jašvin rispose, sorridendo col suo strano sorriso:

«Oh, stia tranquillo. Io ho ucciso. Creda alla mia esperienza di chirurgo».

1 Copricapi di forma conica. [N.d. T.]