INTRODUZIONE

«Ogni tanto eravamo completamente seppelliti dalla neve, imperversava una tempesta infernale, per giorni interi [...] non arrivavano i giornali neanche a dieci verste da lì, a Voznesenskoe, e per lunghe sere io misuravo e misuravo il mio studio e volevo disperatamente i giornali»...1 Senza giornali, si era tagliati fuori dal mondo nella «condotta delle bufere di neve», dove Michail Bulgakov, laureatosi in medicina a pieni voti, era stato mandato, come ufficiale medico, nel ‘16; senza giornali non arrivavano neppure gli echi della guerra.

All’ospedale di Nikol’skoe, nel governatorato di Smolensk, rimasto quasi totalmente privo di medicine e vuoto di personale medico, il futuro scrittore matura l’esperienza forse più sconvolgente della sua vita. Unico medico, deve affrontare casi clinici e chirurgici di ogni genere, possedendo solo un bagaglio teorico raccolto sui banchi universitari e una breve esperienza pratica maturata a Saratov, dove era stato sorpreso dalla guerra due anni prima e dove s’era occupato dei primi feriti come volontario della crocerossa. Di ritorno da Saratov, durante un breve periodo trascorso a Kiev, aveva fra l’altro vissuto il primo violento choc, di cui rimbalzeranno gli echi in tutta la sua opera. Un amico, spasimante respinto della sorella, un certo Boris Bogdanov, lo aveva mandato a chiamare e si era sparato un colpo di pistola sotto i suoi occhi. La descrizione, attonita e distaccata, di questa morte la ritroviamo in Morfina. E il colpo di pistola, reale o sognato, echeggerà per tutta l’opera dello scrittore russo fra le cui righe vedremo spesso balenare, inquietante, una Browning.

A Nikol’skoe dunque era stato mandato d’autorità: aveva passato «nella neve d’inverno», un anno durissimo, carico di ansie e di paure, oppresso dalla responsabilità della vita altrui, durante il quale esercitò fino allo spasimo la propria volontà e un tenace controllo sul sistema nervoso sottoposto a durissime prove. Un’angoscia attutita solo dall’immensa fatica senza sosta e da un sonno costantemente arretrato. 15613 malati avrebbe visitato in quell’ospedale rurale, a quanto si legge nelle biografie del futuro scrittore, una media cioè di cinquanta al giorno o poco meno, senza contare gli interventi chirurgici.

Gli Appunti di un giovane medico, percorsi da spasimi di angoscia e da guizzi di umorismo, narrano alcuni episodi drammatici vissuti dall’autore in quell’angolo sperduto di mondo, a contatto con un’umanità primitiva e superstiziosa che sembra dilatare il suo senso di isolamento. Essi costituiscono fra l’altro, e testimoniano, il passaggio dall’attività medica di Michail Afanas’evič, alla attività di scrittore. Anzi, ne sono il punto di congiunzione. Perché sicuramente gli «appunti» su quella sconvolgente esperienza del dottor Bulgakov che egli descrive nei dettagli con una lucidità scientifica da manuale medico e nello stesso tempo con una scrittura sapiente da antologia letteraria furono raccolti (nella loro prima versione andata perduta) se non a Nikol’skoe stesso, a Vjaz’ma, l’anno successivo, dove condizioni di vita e di lavoro più umane lasciavano lo spazio al piacere segreto dello scrivere.

«Fu un grandissimo sollievo [...] Non portavo più addosso la fatale responsabilità di tutto quanto potesse accadere al mondo. Non ero colpevole dell’ernia strozzata, e non trasalivo quando arrivava una slitta a portare una donna con una presentazione trasversale del feto, e non mi riguardavano le pleuriti purulente che richiedevano un intervento chirurgico»2 dice il dottor Bomgard, protagonista, anzi «narratore» di Morfina, esprimendo chiaramente lo stato d’animo del suo autore.

Nel nuovo ospedale infatti il dottor Bulgakov divideva ogni responsabilità con il primario e con altri due medici: aveva deposto il bisturi, e dirigeva il reparto di malattie veneree. Una specialità che continuerà a esercitare anche l’anno successivo quando rientrato a Kiev aprirà uno studio privato nella casa paterna al n. 13 di Alekseevskij spusk: quella casa sicuramente familiare a chi abbia letto la Guardia bianca. L’interesse per la sifilide e la disperata volontà di debellarla gli nascono nella sperduta condotta di Nikol’skoe dove il male dilaga fra lo stupore inconsapevole della gente: di ciò si narra nell’Eruzione stellata.

La libera professione del resto sarà interrotta durante l’anno e mezzo trascorso nella sua città (’18-’19) da continue chiamate alle armi, come ufficiale medico. A quanto incredibilmente si legge nella domanda d’assunzione al Bol’šoj Teatr, compilata vent’anni dopo, egli fu richiamato da tutti i «poteri» che di volta in volta avevano occupato Kiev.3 E come si sa Kiev dalla rivoluzione di febbraio alla conclusione della guerra civile fu occupata dai Bianchi, dai Rossi, poi dai Tedeschi che insediarono un governatore ucraino, il quale fu cacciato dai nazionalisti di Petljura, a loro volta respinti dai Rossi che cedettero il potere ai Bianchi per poi riprenderlo definitivamente. Ma Bulgakov scriverà nelle Memorie che ben quattordici erano stati i rivolgimenti politici nella sua città, dieci dei quali li aveva vissuti in prima persona. In queste condizioni si capisce bene perché egli abbia deciso di abbandonare la professione medica per dedicarsi alla letteratura. Vocazione a parte, doveva sembrargli, il mestiere dello scrittore, meno compromettente, in quegli anni così turbinosi, meno esposto alle interferenze del potere politico, qualunque esso fosse. Il caso del medico obbligato a prestare servizio per gli odiosi, sanguinari «petljuriani», che disseminavano di cadaveri le vie della città è descritto nell’ultimo racconto, Io ho ucciso. Così, dopo l’ultima precettazione, durante il viaggio verso il nord del Caucaso, dove il giovane medico fu inviato dai Bianchi, egli concepì probabilmente il proposito di diventare scrittore e scrisse il suo primo racconto, di cui non è rimasta traccia. È un episodio narrato da tutti i biografi e la citazione è d’obbligo: «Una notte, in un sordo autunno del 1919, viaggiando su un treno sconquassato, alla luce di una candela infilata in una bottiglia, ho scritto il mio primo racconto. Nella città in cui mi trascinava il treno lo portai alla redazione di un giornale [...] All’inizio del ‘20 abbandonai titolo e professione medica e mi misi a scrivere».4

Così, nei due anni di permanenza al Caucaso, da medico della Guardia bianca, Michail Afanas’evič si trasforma, col passaggio del potere ai Bolscevichi, in narratore, drammaturgo e animatore di attività culturali per le masse del nuovo paese dei soviet. Quando nel ‘21, a trent’anni, si trasferisce definitivamente a Mosca la metamorfosi è compiuta e del dottor Bulgakov, chirurgo e specialista di malattie veneree, non si sarebbe trovata più alcuna traccia se nel ‘25 non fosse comparso sulla rivista medica «Medicinskij rabotnik», uno di questi racconti «medici» seguito poi dagli altri.

Essi sono, come s’è detto, la trasposizione letteraria di quella durissima prova iniziatica cui è stato sottoposto il giovane Miša all’ospedale rurale, determinante per la sua formazione umana e scientifica, ma anche per la sua formazione artistica. A Nikol’skoe egli ha sperimentato l’assoluto controllo della propria emotività che gli permetteva di manovrare gli strumenti chirurgici con gesti pacati e sicuri nelle situazioni più sconvolgenti; lo stesso dominio dell’emozione e del sentimento egli sembra esercitare quando usa la penna da grande dissezionatore del fatto da rappresentare, da grande anatomista del dettaglio.

Sono racconti tesi, asciutti, drammatici, percorsi da una vena sottile di ironia, dove i fatti più che narrati sono descritti con distacco scientifico dal protagonistanarratore, fedele proiezione dell’autore. Così fedele che si è spesso tentati di prendere per vere, intendo per autenticamente biografiche, le vicende narrate. E in qualche misura lo sono. La bambina giunta in ospedale quasi cianotica per la difterite e operata di tracheotomia, la donna dal parto difficile salvata per miracolo, la fidanzata sbalzata fuori della slitta in una caduta mortale, la donna contagiata dal marito sifilitico e altri pazienti protagonisti di questi racconti sono stati autentici «casi» del dottor Bulgakov, secondo la testimonianza della moglie d’allora, Tat’jana Lappa. E il fatto, narrato dal dottor Bomgard in Morfina, del medico che avendo assunto «i divini cristalli» per placare un violento dolore era diventato tossicodipendente fino alla autodistruzione e al suicidio corrisponde in gran parte (se si esclude il suicidio che tuttavia era una tentazione ricorrente ad ogni crisi d’astinenza) a quanto era accaduto a Michail Afanas’evič. La vicenda fu rivelata solo trentacinque anni dopo la morte dello scrittore dalla Lappa, in un’intervista concessa a Marietta Čudakova: nell’estate del ‘17, operando una bambina affetta da difterite (l’operazione è magistralmente descritta in Gola d’acciaio) egli s’infetta e deve usare un siero antidifterico che gli produce uno spaventoso esantema con dolori e pruriti insopportabili. Per vincere quel terribile male egli comincia a iniettarsi piccole dosi di morfina che a poco a poco aumenta, fino a perderne il controllo. La sua spaventosa esperienza di morfinomane e la sua estenuante lotta interiore sono registrate nei minimi dettagli nel racconto, con l’esattezza e il distacco di uno scienziato che compia un esperimento su se stesso. Il diario del dottor Poljakov pubblicato dal dottor Bomgard (lo scrittore s’è sdoppiato nei due personaggi) descrive ogni sensazione fisica e psichica del malato dopo l’assunzione della droga e nei momenti di astinenza. È un racconto struggente: non fa propriamente parte del ciclo degli Appunti che contempla solo i primi sette racconti, dai quali si discosta nella struttura. Il narratore non è più lo stesso protagonista che descrive in prima persona le proprie esperienze di medico nella condotta rurale, ma è un testimone che narra del suicidio di un collega distrutto dalla droga e ne pubblica il diario. È la stessa tecnica della metanarrazione che ritroveremo nel penultimo romanzo di Bulgakov, Le memorie di un defunto, ovvero Il romanzo teatrale. La psicologia del drogato, con punte di euforia e crolli di depressione, con la fiducia iniziale nella propria capacità di controllo e i cedimenti fino all’inesorabile discesa nell’inferno, la perdita di identità e di dignità, la degradazione fino alla tragedia finale, fanno di questa «confessione di un drogato» un’opera straziante e attualissima, ma anche uno strumento prezioso di penetrazione e di comprensione della dannata «infermità».

Nella realtà Bulgakov, tornato a Kiev, (durante quell’anno e mezzo di relativa libera professione cui s’è accennato sopra), prima della partenza per il Caucaso, riuscirà a liberarsi dal «diavolo» con l’aiuto della giovane moglie.

Tutta l’opera bulgakoviana, si sa, è intrecciata di elementi autobiografici, ma questi racconti «medici», narrano quasi sempre, come s’è visto, fatti reali. Naturalmente la verità dei fatti non ha niente a che vedere con la verità poetica. Anzi avviene spesso che la verità dei fatti, sulla pagina, risulti come falsata, come inautentica, se la parola scritta viene meno alla propria «funzione poetica». Ma qui, malgrado le concrete, spesso cruente descrizioni di ciò che avviene nella sala operatoria, non si hanno mai sgradevoli cadute nel naturalismo; il distacco, l’ironia, le digressioni del narratore che spezzano e distanziano l’azione freddamente rappresentata, la simbologia degli oggetti, dei colori e dei fenomeni atmosferici fanno di questi racconti dei piccoli capolavori di tecnica narrativa, anche se appaiono così diversi, nella scrittura, dall’opera successiva di Bulgakov, tanto che stenteresti a riconoscere, nel loro autore, l’autore del Maestro e Margherita.

Chissà se negli Appunti del 1917, o nella loro variante del 1921, pure andata distrutta, compariva la figura della moglie di Michail Afanas’evič che aveva condiviso con lui l’esperienza dell’ospedale rurale? O se si faceva cenno ai proprietari terrieri del vicino villaggio e ai loro ospiti con cui, secondo i Diari, Miša e Tat’jana avevano pure saltuari rapporti? Qui non compare niente e nessuno (salvo i tre infermieri) che interferisca nella vita del medico e nel suo rapporto con il paziente, perché qualunque particolare esterno, per vero e umano che sia, spezzerebbe la tensione del racconto e ridurrebbe l’intensità della vicenda che sta soprattutto nella metafisica solitudine del protagonista. E a esprimere poeticamente la solitudine del giovane medico, cioè a renderla «vera» così come certamente l’aveva vissuta interiormente Bulgakov nonostante la moglie e i conoscenti, contribuiscono le descrizioni del paesaggio reso muto o invisibile dalla neve o dalla fitta cortina di nebbia incollata ai vetri o dai rovesci di pioggia autunnale. La v’juga, la tempesta di neve, è un’immagine carica di simbologie presente in tutta l’opera bulgakoviana, anzi, in tutta la letteratura russa da Puškin, ad Aksakov, a Tolstoj, a Blok. Esiste anche un interessante saggio di Viktor Šklovskij sulla funzione della v’juga nella letteratura dell’Ottocento. Chi potrebbe dimenticare la tormenta descritta da Puškin nella Figlia del capitano, che cancella ogni direzione seppellendo quasi la slitta che porta Grinëv al forte, così carica di presagi? Anche nel racconto dal titolo, appunto, V’juga, la neve seppellisce ogni traccia e il cocchiere non riesce a trovare la direzione giusta per riportare a casa il medico. Egli s’era recato al villaggio vicino per soccorrere una giovane donna in fin di vita che non riesce a salvare.

Questo racconto fu il primo a essere pubblicato sulla rivista medica di cui s’è parlato, sebbene cronologicamente sia successivo ad altri, proprio per la simbologia della tormenta che, secondo Efim Etkind5 avrebbe offerto un alibi all’autore: quello di dare inizio alla pubblicazione di un ciclo di racconti con una allusione alla rivoluzione. A me pare, qui, di più immediata lettura la tormenta come bufera interiore. L’oppressione dell’anima da cui il medico tenta di liberarsi con la sua fuga dal quel luogo, sembra invece dilatarsi come lo sconfinato biancore che improvvisamente tutto ricopre senza lasciare uno spiraglio fra terra e cielo, fino a sommergere anche il lettore.

Il senso della solitudine, dell’isolamento del protagonista è rafforzato anche da un altro elemento che non troverebbe riscontro nella realtà: dalla muta presenza di Leopol’d Leopol’dovič che, dopo dodici anni di gloriosa attività medica, aveva lasciato ovunque un’impronta di sé, per aumentare il malessere del protagonista. «Avevo avuto il tempo di fare il giro dell’ospedale e con assolutissima evidenza mi ero persuaso che disponeva di un ricchissimo strumentario. Anzi, con altrettanta chiarezza ero stato costretto a riconoscere (fra me e me, naturalmente), che l’uso di moltissimi di quegli strumenti che scintillavano verginalmente mi era del tutto ignoto. Non solo non li avevo mai tenuti in mano, ma, lo confesso francamente, non li avevo addirittura mai visti.»6 Uno strumentario meraviglioso: tutto merito naturalmente di Leopol’d Leopol’dovič. «[...] Poi scendemmo in farmacia [...]. Nelle due stanze un po’ buie si sentiva un intenso odore di erbe, e negli scaffali c’era tutto quel che si poteva desiderare. Persino dei medicinali stranieri brevettati: e forse è il caso di aggiungere che io non li avevo mai sentiti nominare?»7 Ancora merito di Leopol’d Leopol’dovič.

Bulgakov, invece, come abbiamo detto all’inizio, avrebbe trovato un ospedale poco attrezzato e quasi privo di medicinali, secondo le affermazioni di Tat’jana Lappa.

Gli Appunti di un giovane medico, pensati fin dall’inizio della sua attività di medico rurale, nel ‘16, e cominciati nel ‘17 segnano, come si diceva, il lungo passaggio dalle fatiche di quell’attività al lavoro letterario; e certamente furono scritti sotto l’influenza di Appunti di un medico di V.V. Veresaev (1901) che avevano avuto a suo tempo un grande successo, da cui riprendono perfino il titolo. Michail Afanas’evič continua a lavorare ai suoi Appunti a Kiev fra il ‘18 e il ‘19 fino al momento in cui viene inviato al Caucaso. Lo testimonia una lettera scritta ai familiari: «Sulla mia scrivania sono rimasti due manoscritti per me molto importanti: Schizzi di un medico rurale e Infermità».8 Un altro riferimento è contenuto in una lettera alla madre del ‘21 da Mosca, dove era giunto da poco. «La notte scrivo Appunti di un medico rurale. Può uscirne una cosa solida. Rielaboro Infermità...».9 Si tratta di un romanzo su un drogato, che diventerà nell’ultima variante il racconto Morfina.

Il ciclo di cui, come s’è detto, fanno parte i primi sette racconti, dei nove che pubblichiamo, occupa cronologicamente un anno esatto: il 1917. Due rivoluzioni, ma qui non se ne coglie l’ombra. L’intelligent tuffato nel «mondo delle tenebre», la sua solitudine nella cupa sonnolenza della provincia, il rapporto del medico col popolo sono un aspetto tipico di quella realtà estenuata della Russia al suo tramonto, descritta da Anton Pavlovič Čechov, e non solo nei suoi numerosi racconti «medici», da cui sembrerebbero discendere i bulgakoviani Appunti. Il medico e il malato, protagonisti fissi, ritornano con caratteri ben diversi e sotto infiniti aspetti in tante altre opere di Bulgakov fino all’ultima apparizione sotto i panni dell’ammiccante Stravinskij e dell’allucinato Bezdomnyj del Maestro e Margherita.

La solitudine, le incertezze, le angosce, i successi del protagonista sono espressi senza un filo di retorica né di compiacimento, con la tecnica della continua contrapposizione fra il monologo interiore che esprime quegli stati d’animo, e l’azione lucida che li ignora. E anche con la tecnica della continua contrapposizione fra angoscia e ironia. Al contrasto dei toni corrisponde spesso, nella poetica bulgakoviana, un’altra contrapposizione, quella delle immagini. La bellezza di certi volti femminili e l’orrore delle mutilazioni o della morte che incombe, come nell’Asciugamano col galletto, il bellissimo volto della fanciulla agonizzante che nasconde sotto la veste inzuppata di sangue la gamba stritolata dal frantoio, «brandelli insanguinati, muscoli rossi maciullati, e ovunque sporgevano appuntite le bianche ossa schiacciate»;10 o la dolcezza della giovane donna che partorisce sulla riva del fiume perché il suocero le ha negato i cavalli (L’occhio scomparso); o la grazia sublime della fidanzata, sbalzata dalla slitta per lo scarto dei cavalli, che si scolpisce nel marmo azzurrino della morte (La tormenta).

Protagonista degli Appunti è la buia provincia dove regna l’ignoranza e la superstizione: l’inserimento di zollette di zucchero nella vagina della partoriente per attirare il bambino e facilitarne la nascita; un intruglio di capelli da ingurgitare prima del parto; i senapismi per la laringite; dosi di medicine prescritte per lunghi periodi ingurgitate tutte insieme per fare più in fretta a guarire; il contagio della sifilide, per l’ignoranza senza sospetto. Come Čechov, Bulgakov ritrae il mondo così com’è, senza cercarne le cause e senza indicarne i rimedi. Non c’è alcuna protesta sociale, ma solo la costatazione di tragiche circostanze; solo la rappresentazione di un mondo immerso nelle tenebre cui si contrappone la luce della ragione, della cultura e della scienza.

L’ordine con il quale pubblichiamo questi racconti rispetta la successione cronologica dei fatti che cominciano con l’arrivo, nell’Asciugamano col galletto, del medico, intirizzito e stravolto dal viaggio, alla sua condotta rurale, esattamente il 16 settembre del 1917. Il ciclo degli Appunti di un giovane medico è completato dai due racconti conclusivi, Morfina e Io ho ucciso, pure disposti in successione cronologica, dove i fatti non riguardano il protagonista che è il narratore degli Appunti, ma Poljakov che, come sappiamo, diventa un morfinomane, e il dottor Jašvin, che interpreta un desiderio inconscio dell’autore e scarica la sua Browning contro il crudele comandante di Petljura.

Negli Appunti di un giovane medico, si diceva, non c’è alcun accenno ai grandi eventi storici. Eppure il giovane medico arriva, nella finzione, all’ospedale di Mur’e il 17 settembre del 1917, il 29 settembre opera la ragazzina di tracheotomia, il 17 dicembre accade il fatto del mugnaio e del chinino: ma nessuno dei personaggi, né lui, né i contadini, s’accorgono della rivoluzione. Ciò, secondo i biografi, darebbe un’idea della estraneità ai fatti politici e sociali, agli eventi collettivi, di questo inguaribile cultore della privacy, di questo irriducibile individualista nato fuori tempo. Non va tuttavia dimenticato che le date dei racconti del ciclo sono posticipate e che essi si riferiscono in realtà a fatti occorsi all’autore un anno prima. In Morfina, invece, dove la data corrisponde alla realtà, già nel secondo capoverso si legge: «... fui felice nel 1917, in inverno. L’anno indimenticabile, impetuoso delle bufere di neve!».11 Ma anche fuor di metafora si trovano altri riferimenti alla bufera della rivoluzione: «... all’edicola vendevano i giornali di Mosca [...] che riportavano notizie sbalorditive…».12 «Dunque alla fine di maggio mi separerò dalla mia brillante città e tornerò a Mosca. E se la rivoluzione mi rapirà sulla sua ala può darsi che mi tocchi viaggiare ancora un po’...».13 Ecco, gli echi di quel turbinoso anno 1917 si colgono in Morfina, mentre nel racconto Io ho ucciso affiora il clima di follia e di sgomento che la guerra civile aveva scatenato sulla città di Kiev, nel 1918.

Michail Afanas’evič è un cronista troppo attento per ignorare i fatti storici che condizionano sempre i destini dei singoli!

A parte l’interesse biografico di questi racconti che racchiudono un arco di tre anni della vita dell’autore, essi incantano il lettore per la distaccata, ma stupefatta descrizione dei fatti frugati in ogni piega: la descrizione, per esempio, del dente estratto a un soldato «con un mostruoso oggetto attaccato», o dell’incredibile parto di una donna, simile piuttosto a un animale, nei cespugli in riva al fiumicello «mentre la bufera fischiava come una strega, ululava, sputava, sghignazzava», o della «palla molle simile a materia cerebrale» al posto dell’occhio, producono una forte impressione sul lettore perché i dettagli son descritti con la precisione e il candore di chi sembra scoprirli per la prima volta comunicando la stessa sensazione di «straordinario» nel lettore.

In Morfina questo senso di «straordinario», di «sorprendente» è garantito dalla visione euforica della realtà circostante, e dunque inconsueta, alterata dalla droga. Al lettore arrivano i suoni celesti come li percepisce il morfinomane e non i noti e rozzi suoni dell’armonica. «Io so che questo è il diavolo che si mescola col mio sangue...» E naturalmente al lettore arrivano anche gli stridori infernali che sconvolgono il drogato nei periodi di astinenza.

Lo stupore contagioso del medico-narratore di fronte ai suoi personaggi e alle loro malattie equivale, in questi racconti realistici, allo stupore del cane Šarik che comunica al lettore la sua visione amara e inconsueta delle cose (Cuore di cane), o di Woland e del suo grottesco seguito (Il Maestro e Margherita) che prestano al lettore i loro sguardi attoniti e beffardi su Mosca e i suoi abitanti.

MILLI MARTINELLI

1 Sovetskie pisateli. Avtobiografii, III, Moskva, 1960, p. 63.

2 V. p. 149.

3 Il documento è pubblicato in: Problemy teatral’nogo nasledija M. Bulgakova, Leningrad, 1987, pp. 142-43.

4 L. Janovskaja, Tvorčeskij put’ Michaila Bulgakova, Moskva, 1983, p. 45.

5 «Atti del convegno M. Bulgakov», Milano, 1984.

6 V. pp. 44-45.

7 V. p. 46.

8 «Voprosy literatury», 7, 1973, p. 236.

9 Ivi, p. 252.

10 V. p. 51.

11 V. p. 147.

12 V. p. 148.

13 V. p. 150.