Los Angeles, 20/6/1968

Appostamento:

Il parcheggio della Hertz, 9.56. Vista l’ora tarda, ci si affrettava a restituire le macchine. La Comet del ’66: consegna prevista entro quattro minuti, dopodiché scatta la penale.

Crutch sedeva nella sua GTO. Indossava un cravattino scozzese e sfoggiava una pettinatura alla Scotty Bennett. Quel giorno aveva comprato il cravattino e si era tagliato i capelli a spazzola, per festeggiare il suo caso e l’accordo con il dottor Fred, e per celebrare la sfacchinata della sera prima.

Aveva con sé la Rolleiflex con lo zoom e in tasca la copia delle chiavi di Arnie Moffett. Il cravattino faceva a pugni con la polo. Il taglio dei capelli stonava con la moda del momento, i giovani a Los Angeles portavano i capelli lunghi. Fanculo: lui e Scotty erano all’avanguardia.

Faceva caldo. Accese l’aria condizionata e orientò il getto sulle palle. Aveva parlato con Buzz un’ora prima. Cattive notizie: ancora nessuna traccia su quel numero riservato. Prendi nota: non parlare a Buzz o a Clyde dell’accordo con il dottor Fred. Scatta la foto a Hughes e poi dai loro una fetta della torta.

Arrivarono alcune macchine: Buick, Ford, Dodge Dart. Ne scesero delle persone che si trascinarono nell’ufficio per consegnare le chiavi. Conto alla rovescia: 9.57, 9.58, 9.59. Puntuale al secondo: ecco la Comet targata ADF212.

Veniva dal Sunset, direzione est. Dal cofano fuoriusciva del vapore, forse era il radiatore.

Scesero due donne. Crutch puntò lo zoom e scattò dei primi piani.

Gretchen Farr/Celia Reyes: alta e con l’incarnato latino. Doveva essere lei. Era bianca, con un non so che tra l’ispanico e l’italiano. Indossava una camicetta marrone chiaro e jeans scampanati. Era uno schianto, con un fisico statuario. Sui trentadue. Surclassata dalla sua compagna.

Una decina d’anni di più. Lei sì che aveva tutti i non so che. Più minuta, con un’andatura ciondolante e dinoccolata. Pallida, con gli occhiali. Capelli scuri striati di grigio. Braccia nude e una cicatrice da arma da taglio: Phil Irwin l’aveva notata.

Entrarono nell’ufficio. Crutch scattò altre foto in rapida successione: sei mentre entravano e sei mentre uscivano.

Montarono su una Fairline del ’63. Crutch fece un primissimo piano. Tracce di fango rendevano illeggibile la targa. Perché cambiano macchina? Sembrano professioniste.

L’auto si allontanò sul Sunset in direzione ovest. Crutch la seguì. Teneva il volante con una mano. Faceva sorpassi. Cambiò corsia e lasciò che un taxi s’interponesse tra loro. L’auto tagliò a nord sulla Berendo, a ovest sulla Franklin, a nord sulla Cheremoya. Crutch prese la curva troppo stretta e fece una doppietta troppo veloce. Il motore si spense. La Fairlane si dileguò in direzione nord.

Tentò di rimettere in moto, diede troppo gas e il carburatore s’ingolfò. Calma, adesso, non rovinare tutto. Aspettò un minuto intero. Controllò gli indirizzi sulle chiavi di Arnie. La casa che Gretchen Farr aveva preso in affitto si trovava a un chilometro e mezzo sulla collina. In un raggio di ottocento metri c’erano altri tre alloggi per festini, quello di Gretchie era uno dei quattro.

Calma, adesso. Riconnettiti. Gira la chiave piaaaaano.

Provò. Il motore si accese. Si diresse a Beachwood Canyon, sbirciando dal finestrino. Scorse un sacco di televisori accesi, un festino a base di marijuana, una figlia dei fiori che ballava da sola il wah-watusi.

Strade che s’inerpicavano serpeggianti su per il canyon. Il primo indirizzo: Gladeview 2250. Eccolo: un villino in stile Craftsman.

Buio. Luci spente, nessuna traccia della Fairlane del ’63. Va’ a vedere le altre case: se sono venute fin qui ci sarà una ragione.

L’abitazione più vicina era sei isolati a sudovest. Crutch vi si diresse e parcheggiò lungo il marciapiede senza spegnere il motore. Cazzo: niente, niente Fairlane. Partì sparato verso un’altra casa, quattro isolati a sud. Eccola, un villino con i muri intonacati. Una luce accesa a una finestra e la macchina nel vialetto.

Parcheggiò accanto al marciapiede e si avvicinò. La finestra sul davanti aveva le tende tirate, da cui filtrava una luce opaca. Intravide alcune figure muoversi. Imboccò il vialetto e le seguì con lo sguardo verso il retro della casa. Le finestre sulla parte laterale erano prive di tende e aperte per far circolare l’aria. Si accovacciò sotto il davanzale e seguì con gli occhi le ombre.

Gli arrivavano voci attutite. Un minestrone di parole: “Tommy”, “Grapevine”, “infiltrato”. Le ombre raggiunsero l’ultima finestra. Apparvero le due donne. Si guardarono. Si abbracciarono e si baciarono.

Crutch sbarrò gli occhi. Non può essere... e invece sì. Un fermo immagine bruciante.

Gretchen/Celia infilò la mano sotto la camicetta della donna con la cicatrice, che si sciolse i capelli e li scosse. La luce della finestra faceva risplendere le ciocche grigie.

Tornarono verso il corridoio. Ridivennero delle ombre. Crutch sbatté le palpebre e andò da una finestra all’altra, accovacciato. Scorgeva delle sagome confuse, ma non loro in carne e ossa.

Risalì in macchina e aspettò. Non riusciva a inquadrare la situazione. Il respiro e il battito andavano continuamente in tilt.

Uscirono dopo mezz’ora. Caricarono una valigia nel bagagliaio della Fairlane. Il chiarore lunare gli permise di cogliere dei dettagli. Gretchen/Celia aveva un’espressione sognante. La donna con la cicatrice non aveva più il rossetto, a furia di baci.

Montarono in macchina e partirono. Era tardi. Non poteva mimetizzarsi nel traffico, non poteva seguirle. Rimase seduto a guardare le luci che svanivano.

Non poteva fare niente.

Lo avevano piantato in asso.

Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire, così decise di darsi da fare. Sfilò davanti alle altre case, dove cominciavano i festini a base di birra. C’era un po’ di tutto: fichetti, studenti universitari e capelloni. Tornò al villino con i muri intonacati, forzò la serratura di un ingresso laterale ed entrò. Si sentiva spavaldo. Accese le luci. Fu subito attratto dalla camera da letto. Il letto era caldo. Toccò i cuscini e immaginò le due donne tra le lenzuola. Sul copriletto vide un capello grigio. Se lo premette sulla guancia e ce lo lasciò.

Qualcosa gli disse di andarsene. Uscì, salì in macchina e vagò per le strade. Rimase nel canyon. Girava pigramente intorno al villino intonacato. Il tempo si dissolse. I fari della macchina illuminarono una villa bianca in stile spagnolo. La porta d’ingresso aveva dei pannelli di legno su cui erano incisi strani segni. Qualcosa gli disse di dare un’occhiata.

Lo fece. Parcheggiò lungo il marciapiede e si avviò. Illuminò la porta con la pila tascabile ed esaminò i segni. Strano: motivi geometrici incisi in rosso scuro.

Linee verticali giù verso la veranda. Un uccello spezzato in due sullo zerbino.

Questo è il tuo posto. Potrebbe esserlo.

Qualcosa gli disse che la porta era aperta e che poteva entrare. Lo fece. Nel soggiorno era buio pesto e c’era puzza di muffa. I mobili erano avvolti in fodere di plastica. Si lasciò guidare da un odore misto di metallo e ferro e arrivò in cucina. Respirava a fatica. Le mani gli tremavano. La pila sobbalzava. La tenne ferma con entrambe le mani e vide.

Le viscere nel lavandino. Il braccio mozzo/senza mano/la pelle bruna/senza dubbio una donna. Il tatuaggio geometrico sul bicipite. La profonda scarnificazione che lo attraversava e lo solcava. Le pietre verdi frantumate e incastonate nelle ossa.