Los Angeles, 6/8/1968
L’ufficio che fungeva da copertura era ammobiliato: tre stanze con tappezzeria Naugahyde e ciniglia logora. L’aria condizionata funzionava. C’era un divano letto. Un posto spazioso. Dwight pensò che avrebbe potuto anche viverci.
Silver Lake. Un appartamento uso ufficio tra il Sunset e la Mohawk, a spese del Bureau. Al piano terra una scuola per parrucchieri, un bar per finocchi e una libreria porno.
Karen abitava un chilometro e mezzo a nordovest da lì. Era il luogo ideale per una sveltina all’ora di pranzo. Denominò l’attività “Cove Enterprises”. Appropriatamente neutro. Richiamava l’appartamento di Karen tra la Baxter e la Cove.
Dwight vi si trasferì. Sistemò i vestiti nell’armadio e piazzò una piastra per cucinare e una macchina per il caffè. Fece installare due linee telefoniche normali e una con un dispositivo per cifrare la comunicazione. Scaricò le sue apparecchiature da investigatore. Chiuse in cassaforte una scatola piena di pistole da lasciare sulla scena del crimine come depistaggio.
Cazzo, era stanco morto. Aveva preso un volo notturno da Washington e aveva viaggiato su una poltroncina striminzita, con le gambe appiccicate al petto. Aveva bevuto un drink e ingollato una pillola dormendo solo un’ora, densa di incubi.
Hoover aveva concesso l’autorizzazione a un bonifico telegrafico: sessantamila dollari accreditati su una banca del centro. Era il budget per sei mesi. Spese di manutenzione, compensi per gli informatori, varie ed eventuali. L’OPERAZIONE CATTIIIIVO FRATELLO era partita.
Dwight chiuse le finestre e l’appartamento si trasformò in un igloo. Aaaah, Los Angeles in agosto: rovente, non ti lasciava tregua. Le tre finestre davano tutte a nord. Locali che vendevano tacos, cholos, smog in CinemaScope.
Hoover lo tiranneggiava. La vecchia checca si era fissata di brutto. Dicerie in stereofonia: la Grapevine e Wayne Junior. Aveva detto a Hoover che erano controllati: una menzogna bella e buona, per guadagnare tempo. L’ATF stava addosso alla Grapevine, e lui aveva spedito Fred Otash a Saint Louis a prendere informazioni. Il caso Wayne Junior poteva scoppiare da un momento all’altro. Wayne si rifiutava di mollare l’indirizzario di Wayne Senior. Idem per il dottor Fred Hiltz.
Wayne affermava di non aver niente a che fare con la storia delle pubblicazioni razziste. Il dottor Fred pretendeva troppi soldi. La sera prima, Dwight aveva fatto un colpo di telefono all’agente responsabile dell’ufficio di Los Angeles. Jack Leahy era stato caustico su Hoover, in maniera quasi sconsiderata. Aveva chiamato la vecchia checca “Amfetamina Annie”, dalla canzone dei Canned Heat. Dwight aveva ridacchiato e gli aveva riferito della loro ultima conversazione telefonica. Hoover era infuriato, faceva l’offeso e l’altezzoso. Ormai perdeva colpi. Nominava gli uomini del commando di Memphis solo per dire “LO SO”.
Dwight si stava innervosendo. L’igloo era troppo freddo.
Facciamo un salto a Negropoli.
Una serie di cartelli pubblicitari di liquori al malto segnavano il confine. Seguivano altri di sigarette al mentolo. Birra Schlitz, Colt .45, sigarette Nigport e Kool. Consumismo dei negri. Orgoglio afro. Musi neri disinvolti con fattezze da bianco e capigliature negroidi.
Dwight si diresse a sud. L’auto da federale attirava sguardi spaventati e risa di scherno. Faceva caldo. Lo smog ristagnava in basso. In giro c’era un mucchio di cattiiiivi fratelli. Gente che cazzeggiava e giocava a dadi nei parcheggi. Un sacco di tipi con la retina in testa. Un sacco di tipi con cappelli dalla tesa striminzita e la cupola piatta sui capelli cotonati. Un sacco di retate della polizia per le strade.
Arrivò alla sede delle Pantere. Fuori c’era un enorme murales: due gatti neri che sventravano un grosso maiale rosa sanguinante. Il maiale portava una targhetta con su scritto OPPRESSORE FASCISTA. Sullo sfondo era raffigurata L’ultima cena. Huey Newton impersonava Gesù, Eldridge Cleaver e Bobby Seale i suoi discepoli prediletti. Gli altri apostoli indossavano magliette con la scritta “Huey libero”.
La sede degli US era chiusa. Le guardie all’ingresso portavano occhiali scuri e berretti neri. Accanto a loro c’era uno stereo sistemato sul marciapiede, da cui fuoriusciva un borbottio. Dei bongo battevano il ritmo. Dwight sentì: “Spruzza di insetticida l’insetto bianco”.
Basta. Dwight si diresse a ovest. L’Alleanza della Tribù Nera aveva sede tra la Quarantatreesima e la Vernon. In cima alla porta d’ingresso erano raffigurati pugni neri, pistole e sbirri bianchi con le fattezze di maiali e cazzi minuscoli. Il Fronte di Liberazione Mau-Mau: quattro isolati a sud. Arte murale cannibale: sbirri bianchi urlanti immersi in pentole fumanti con tizi neri che condivano e mescolavano.
Basta. Era il presidente Mao che incontra Minstrel Mike, unito a Ramar of the Jungle. Dwight tagliò a ovest, oltrepassò la Peoples’ Bank of South Los Angeles e si ricordò degli appunti nel suo dossier: probabilmente vi si riciclava denaro sporco.
Karen teneva un corso all’University of Southern California dove era ospite. Ci andò spinto da un’intuizione, e arrivò proprio nel momento in cui l’aula dove lei faceva lezione si stava svuotando. Gli studenti avevano i capelli lunghi e scarmigliati. Videro il suo abito grigio e la pistola alla cintura e fecero: “Ehi”. L’aula era grande. Karen indugiava sulla pedana. Dwight vi montò, producendo delle onde sonore. Karen alzò lo sguardo e sorrise.
Si baciarono lì sopra. Qualche studente li vide e fece: “Ah”. Karen alzò una diapositiva verso la luce. Dwight la guardò: era una foto di Hoover, all’incirca del ’52.
«Non dirmi che fai di nuovo lezione sulle liste nere.»
«Non dirmi che erano giustificate.»
«E tu non dirmi che non ho aiutato certi tuoi compagni comunisti a riavere il loro lavoro.»
«E tu non dirmi che non ti ho restituito il favore.»
Dwight sorrise. «Come-Si-Chiama è in città?»
«Sì.»
«Quando parte?»
«Domani mattina.»
«Allora, domani sera?»
«Sì, perfetto.»
Si sedettero sulla pedana, le gambe ciondolanti. Erano alti, i piedi strusciavano sul pavimento. Karen prese una sigaretta e l’accese.
«Una al giorno, giusto?»
«Sì, e solo quando stiamo insieme.»
«Non so se crederti.»
«E va bene. Ogni tanto, dopo colazione.»
Dwight le toccò il ventre. «Si vede di più.»
Karen si tastò. «La chiamerò Eleonora.»
«E se è un maschietto?»
«Allora si chiamerà Come-Si-Chiama o Dwight.»
«E sei sicura che non sia mio?»
«Tesoro, non è stata un’immacolata concezione, e tu non eri da quelle parti.»
Dwight tirò su le gambe e si stese sulla pedana. Fece uno sbadiglio, e per un attimo ebbe un capogiro.
«Come dormi?» s’informò Karen.
«Una schifezza.»
«Brutti sogni?»
«Già.»
«Ti va di confessare qualche terribile misfatto commesso con la benedizione del Bureau?»
«Non adesso.»
Karen gettò la sigaretta e gli si stese accanto. Lui le carezzò i capelli. Si mise a contare le macchioline nere nei suoi occhi.
«Ce n’è qualcuna nuova?»
«No.»
«Gli occhi cambiano con l’età. È una cosa normalissima, non c’è da agitarsi.»
«Io mi agito per tutto.»
Karen gli carezzò i capelli. «Non volevo criticarti. Era solo un’osservazione.»
Dwight le si avvicinò. Le teste si toccarono. Sentì odore di shampoo alle mandorle.
«Trovami quell’informatore. Una donna. Gestirò lei e il mio infiltrato, li terrò separati.»
«Ci penserò.»
«Potresti fare qualcosa di buono. In quei gruppi non abbiamo infiltrati, questo significa che hanno campo libero e possono essere pericolosi.»
Karen gli si accostò ancora di più. «Do ut des?»
«Certo.»
«La prossima settimana qui ci sarà una manifestazione.»
«Contro la guerra?»
«Sì.»
«Ho capito. Vuoi che chiami la squadra di sorveglianza fotografica.»
«Lo farai?»
«Certo. Chiamerò Jack Leahy.»
Karen rotolò sulla schiena e si girò verso di lui. Dwight le toccò la pancia. Gli parve di sentire Eleonora che scalciava.
«Mi ami?» chiese.
«Ci penserò» rispose Karen.
Erano seduti nello studio. Dwight insisteva. Lì non c’erano opere d’arte che inneggiavano alla violenza. Le altre stanze della Villa dell’Odio lo innervosivano.
«Cento testoni» disse il dottor Fred. «Più un piccolo favore, e potrà esaminare da cima a fondo tutti gli elenchi in mio possesso.»
Dwight sbadigliò. «Che favore?»
«Mi aiuti a trovare una donna. Mi ha alleggerito di quattordicimila dollari e se l’è filata.»
Dwight alzò le spalle. «Si rivolga a Clyde Duber. Ci penserà lui.»
«Già fatto. Mi ha mandato un ragazzino, un idiota. Adesso è a Miami, ma secondo me non vale un cazzo. Andiamo, Dwight. I soldi e un piccolo favore.»
Dwight scosse il capo. «Diecimila e mezzo chilo di cocaina che mi trovo tra le mani, roba eccellente. Se la spasserà, finché non ci rimarrà secco.»
Squillò il telefono. Il dottor Fred alzò il ricevitore, borbottò qualcosa e rimase in ascolto. Dwight sentì delle interferenze. Sembrava una chiamata del Bureau.
Il dottor Fred annuì. Dwight afferrò il telefono. L’interferenza si trasformò in una voce nasale da zotico, che disse: «Dwight, sono Buddy Fritsch. Mi trovo in un vero casino, è meglio che vieni».
Arrivò al McCarran in idrovolante, poi prese un taxi per andare al dipartimento di polizia di Las Vegas. Buddy era rintanato nel suo ufficio. Era mezzo sbronzo. Misurava la stanza a grandi passi. Nel portacenere c’erano tre sigarette accese.
Dwight chiuse la porta a chiave. Buddy lo vide e si fermò.
«Un uomo della procura generale vuole spremermi. Ha un’impronta di Janice, e sta tirando i dadi. Certo, mi ha offerto dei soldi, ma non riesco a vedere altra via d’uscita se non far costituire Wayne e...»
Dwight lo afferrò per il bavero, lo scaraventò sulla scrivania e gli gettò addosso uno schedario. Strappò il condizionatore dalla parete, glielo sbatté sulla schiena e gli sferrò tre calci nelle palle.
«Trovami un tossico a cui appioppare l’omicidio di Wayne Senior, e fallo subito.»