DOCUMENTO: 16/10/68. Dal diario di Marshall E. Bowen.

Los Angeles,

16 ottobre 1968

Finalmente ho assaggiato il sangue di Scotty Bennett. Una vendetta attesa da lungo tempo per il pestaggio che ho subito da lui nell’aprile del ’66, un anno prima di arruolarmi nella polizia di Los Angeles. Me l’ero andata a cercare, avevo sbolognato parecchie banconote macchiate d’inchiostro provenienti dalla rapina, così come oggi mi sono andato a cercare il pestaggio di Scotty e poi quello dei suoi colleghi su richiesta dell’agente speciale Dwight C. Holly. In entrambe le occasioni ho assunto il duplice ruolo di vittima e provocatore. Due fatti, a distanza di due anni e mezzo l’uno dall’altro. Quello determinante della rapina con omicidi, verificatasi quattro anni e otto mesi fa. Due scontri che hanno un solo motivo all’origine: voglio risolvere da solo il caso della rapina e tenermi il resto dei soldi e degli smeraldi.

Non ho mai parlato ad anima viva delle mie intenzioni e ho volutamente rimandato l’impegno di tenere un diario. Aspettavo il momento in cui le mie indagini avrebbero preso la direzione giusta. Quel momento è arrivato. Avrei potuto descrivere la storia delle mie infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra per conto di Clyde Duber, quando ho imparato a recitare, dissimulare e barcamenarmi, abilità che mi hanno portato fino a questo punto, ma per fortuna non ho ceduto all’autocelebrazione. Mi è sempre piaciuto apparire come un nero sottovalutato, e ora sono un nero famoso in tutto il circondario, in un certo qual modo sovrastimato e oggetto di un’attenzione esagerata. Questa avventura la voglio descrivere e analizzare mentre la vivo; l’attuale combinazione di eventi è certamente l’unica storia che ho da raccontare.

Dai dodici ai sedici colleghi della polizia di Los Angeles mi hanno pestato selvaggiamente e sono stato ricoverato quattro giorni al Central Receiving Hospital. Il naso rotto, le ferite al viso e le orecchie deformate hanno migliorato il mio aspetto piacevole ma alquanto insignificante, e hanno accresciuto il prestigio che cominciavo a guadagnarmi come militante nero. Di questo devo ringraziare Mr Holly. Lui ha intuito il mio coraggio e la mia disponibilità a mettermi in gioco, e io lo ricambierò lavorando duramente e assolvendo in pieno ai miei doveri, pur perseguendo i miei scopi nell’ambito di questa operazione.

Giornali, radio e televisione locali hanno riportato la notizia della violenta rissa fra un poliziotto nero e uno bianco “in un ritrovo frequentato da agenti della polizia di Los Angeles”. Mr Holly è stato il regista occulto di questo evento mediatico. Il dipartimento di polizia di Los Angeles ha avviato un’inchiesta interna e – ovviamente – tutti i testimoni hanno mentito affermando che avevo molestato la barista e aggredito brutalmente il sergente Robert S. Bennett. Scotty ne è uscito con il naso rotto e una settimana di “congedo per motivi familiari”, io sono stato sottoposto a un procedimento disciplinare davanti a una commissione interdipartimentale, vale a dire un processo farsa. Mr Holly mi ha procurato un avvocato nero logorroico e roboante che ricordava Algonquin J. Calhoun, il celebre attore di “Amos ’n Andy”. L’avvocato ha snocciolato una sfilza di parole a sproposito e ha fatto ricorso ai più vieti argomenti razziali come nemmeno il peggior predicatore nero per corrispondenza mai salito su un pulpito in cerca di potere e soldi. Sono stato osannato come il “Gesù Nero”, Scotty Bennett stigmatizzato come il “Giuda Iscariota Bianco”. Naturalmente sono stato espulso con procedura sommaria dal dipartimento di polizia di Los Angeles. In seguito Mr Holly mi ha rivelato che l’avvocato era un pastore spretato con una sinecura di avvocato d’ufficio nella Visalia County. Una clamorosa collusione tra neri e bianchi: giudici e pubblici accusatori bianchi assoldano quest’uomo per assicurarsi la condanna dei clienti neri di cui vogliono sbarazzarsi.

A quel punto sono assurto a oracolo del pregiudizio razziale, imparavo a memoria i discorsi sapientemente articolati che Holly scriveva per me – critiche fulminanti al razzismo delle istituzioni e alla loro mentalità autoritaria –, pieni di indignazione, rigore sociale e rabbia sacrosanta, ideati da uno sbirro avvocato bianco con radici nel Ku Klux Klan. Mr Holly me li leggeva da cima a fondo ben prima che io li pronunciassi. Rimanevo stupito e quasi rapito. Mr Holly è un uomo aitante e piacente, un eccellente oratore. Avevo la perturbante sensazione che credesse davvero alle parole che aveva scritto e che stava declamando.

Mr Holly è un uomo molto difficile da decifrare. Comprende il pregiudizio razziale eppure usa normalmente il termine “muso nero”.

Sono stato invitato a un ricevimento per la raccolta di fondi per il senatore Hubert H. Humphrey in una villa di Beverly Hills. Mr Holly mi ha detto di andare, e così ho fatto. Sono stato al centro dell’attenzione finché non sono arrivate alcune stelle del cinema che mi hanno eclissato. Natalie Wood ha fatto un sacco di moine quando ha visto le ferite che avevo in faccia e mi ha allungato un bigliettino con il suo numero di telefono; Harry Belafonte mi ha stretto la mano; parecchi progressisti si sono messi a frignare per la recente scomparsa del senatore Kennedy e di Martin Luther King. Gli ospiti si rivolgevano a me perché esprimessi la mia indignazione politica. Non sapevo cosa dire, perché ormai ho bisogno dei copioni che mi fornisce Mr Holly se voglio apparire opportunamente arrabbiato. Presto sarò un convertito alla militanza nera splendidamente apostatizzato, perché il figlio di un affiliato del Klan alimenterà la mia rabbia con le sue intuizioni radicali, suscitandomi degli interrogativi sulla loro origine e una continua meraviglia di fronte a quell’uomo.

Mr Holly mi ha dato ottomila dollari in contanti prelevati dai fondi dell’FBI e mi ha detto di spingermi più a sud nel “Congo”. Dovrei mettermi a bazzicare locali frequentati da negri, dove si riuniscono i miei “fratelli”, per vedere su che genere di “attivismo nero” riesco a carpire informazioni.

Mr Holly mi definisce un “cercagrane”, e credo che sia piuttosto diffidente nei miei confronti. Adesso mi piacerebbe indulgere nella mia “inclinazione”, ma non posso. Forse Mr Holly mi fa pedinare. Dovrò rinunciare ai miei piaceri fino a quando non mi sentirò più sicuro del mio ruolo.

La mia vita è radicalmente cambiata. Mia madre è morta, mio padre è vecchio e vive a Chicago. Non ho veri amici e la relazione con Mr Holly si basa su un’utilità reciproca. Scotty Bennett è diventato un nemico impavido e implacabile. Sono convinto di sapere più cose su Scotty di quante lui ne sappia su di me. Ho letto i rapporti ufficiali ritoccati sui diciotto rapinatori cha ha ucciso in servizio. Erano tutti neri. La loro è stata un’esecuzione sommaria, in virtù del tacito assenso della polizia di Los Angeles secondo cui i rapinatori devono morire. Il poliziotto che è in me assolve questo reato; esiste una quantità di dati empirici secondo i quali la maggior parte dei rapinatori uccidono persone innocenti e vanno bloccati prima. È la maniera inquietante con cui Scotty seleziona i rapinatori “maschi negri” a renderlo così unico. Le vittime di altri poliziotti che danno una caccia spietata ai rapinatori sono “equamente distribuite” fra bianchi e messicani. Non è il caso del nostro Scotty. Oh, no.

Lo scorso 5 agosto, due agenti della polizia universitaria hanno avuto uno scontro a fuoco con quattro Pantere Nere. I poliziotti sono sopravvissuti, le Pantere no. Due giorni dopo, il capo Reddin ha mandato Scotty al quartier generale delle Pantere con pizza, birra e mezzo chilo di marijuana confiscata. A detta di tutti, Scotty si è comportato in maniera cortese. Le Pantere lo hanno accolto con apprensione e sono apparse sconcertate dai suoi doni. Scotty ha consigliato loro di non sparare più ai poliziotti di Los Angeles, altrimenti ci sarebbero state rappresaglie immediate e brutali. Per ogni agente a cui avrebbero sparato, anche solo ferendolo, la polizia avrebbe ammazzato sei Pantere Nere.

A quel punto Scotty se n’è andato. Non aveva accettato domande e non si era fermato a mangiare un pezzo di pizza o a bere una birra.

L’ammirazione e l’odio che provo per Scotty Bennett più o meno si equivalgono. Era lì il 24 febbraio 1964. Non immagina che c’ero anch’io.

Avevo diciannove anni. Mi ero diplomato alla Dorsey High School due anni prima e vivevo con i miei genitori fra l’Ottantaquattresima e la Budlong. La prima cosa che notai fu il cielo. C’erano degli strani prismi colorati e puzzo di gas nell’aria. Ero sul tetto di casa e vidi colonne di macchine della polizia che si avvicinavano. Il rumore delle sirene era quasi assordante. Vidi un furgone blindato e un camioncino del latte coinvolti in un incidente, e a terra sagome scure da cui si sprigionava del fumo. Vidi un uomo molto alto con un vestito di tweed e un cravattino accostare e osservare la scena.

Mio padre mi fece rientrare in casa. Una trentina di poliziotti isolò la strada con del nastro. Nel quartiere si sparsero presto delle voci: i rapinatori morti erano bianchi; i rapinatori morti erano neri; i cadaveri erano carbonizzati e irriconoscibili e non era possibile risalire alla razza. Il fatto che non ci fosse il veicolo dei rapinatori indicava che almeno uno era scappato.

Furono in due a scappare. Lo so per certo. Forse anche Scotty Bennett lo sa. Non ne ho le prove. È solo una sensazione.

La polizia venne sguinzagliata in forze. Scotty rastrellava “sospetti” sul posto con indiscriminata violenza e li portava alla stazione sulla Settantasettesima. La cittadinanza locale era indignata. Lo ero anch’io. Scorrazzavo per i vicoli dietro casa, un ragazzo in cerca di avventure, che desiderava avvicinarsi alla storia. Fu allora che vidi il secondo uomo.

Si nascondeva dietro una fila di bidoni dell’immondizia. Era giovane, sui vent’anni, ed era nero. Aveva il volto ustionato da qualche sostanza chimica, ma delle bende supplementari, una maschera sulla bocca e un giubbotto antiproiettile gli avevano salvato la vita. Lo portai da un anziano medico che abitava lì vicino; era in stato di shock e si rifiutava di parlare della rapina e degli omicidi. Il dottore gli curò le ustioni, gli somministrò della morfina e lo lasciò riposare. Scotty andava avanti nelle indagini come un rullo compressore. I “sospetti” trattenuti e rilasciati tornavano a casa pieni di lividi e pisciavano sangue. Il medico decise di non denunciare il ferito. Gli aveva salvato la vita e ora non poteva permettere che subisse violenze fisiche che avrebbero potuto condurlo alla morte.

L’uomo lasciò l’abitazione del dottore dopo due giorni di cure, senza mai rivelare la propria identità, e gli consegnò ventimila dollari in banconote macchiate d’inchiostro. Il medico depositò la somma alla Peoples’ Bank of South Los Angeles e incaricò il direttore, Lionel Thornton, di devolverla in beneficenza a favore della comunità, a patto che le donazioni potessero essere effettuate in piena sicurezza, senza danno per i beneficiari. Thornton escogitò qualche sistema per cancellare in parte le macchie d’inchiostro; i biglietti ricomparivano di tanto in tanto nel southside di Los Angeles. Scotty Bennett era alla continua ricerca di quel denaro. Con la sua tipica, pervicace ostinazione, fermava e metteva sotto torchio le persone che, ignare, cambiavano le banconote. Il caso rimase insoluto. Non si è mai scoperto a che razza appartenessero il capo della banda e i suoi complici rimasti uccisi. Scotty sviluppò un’ossessione per quel caso, e così io.

Il medico morì nel ’65. Le banconote macchiate d’inchiostro continuarono a circolare nel southside di Los Angeles. Io riuscii a procurarmi un lavoro da addetto alle pulizie presso la Peoples’ Bank, ma non ricavai alcuna notizia utile e mi licenziai. Scotty Bennett mi affascinava. Volevo mettere alla prova il mio coraggio facendomi arrestare da lui per vedere se avrebbe rivelato qualche informazione tra le violenze di un interrogatorio non ufficiale. Avevo sgraffignato dalla banca un mucchio di banconote da venti macchiate d’inchiostro e cominciai a sbolognarle. Scotty mi scovò in quattro e quattr’otto.

La stanza degli interrogatori era tre metri per tre e aveva le pareti insonorizzate in modo che le urla si riducessero a un rumore sordo. Protestai la mia innocenza. Quando non mi pestava, Scotty era cordiale. Si servì di un elenco telefonico e di una manichetta di gomma; mi allentò dei denti e mi massacrò i reni. Io proclamavo stoicamente la mia innocenza. Scotty non rivelò alcuna informazione riservata sul caso. Io non volevo gridare. Dopo un paio d’ore, potei fare la telefonata di prammatica. Chiamai un amico, che chiamò il suo amico Clyde Duber; Clyde fece a sua volta delle telefonate e mi tirò fuori.

A Clyde piacevo. Aveva una fissazione per “il Caso”. Un hobby e nient’altro, per lui. Per me e Scotty è una ricerca logorante.

Entrai a far parte del gruppo di giovani investigatori privati di Clyde e cominciai a infiltrarmi in gruppi di sinistra per conto dei suoi clienti di destra, gente piena di grana e di paranoia. Divenni un buon attore, che sapeva rispondere in modo sfuggente, dissimulare, spiare e riportare informazioni. Imparai a improvvisare, a estrapolare e a trarre spunto dai canovacci scritti da Clyde. Non ho mai avuto un ruolo impegnativo come quello che Dwight Holly ha creato per me, e non ho mai avuto un autore di copioni brillante quanto Mr Holly.

Nel ’67 mi arruolai nella polizia di Los Angeles. Scotty cercò invano di far respingere la mia domanda. “Il Caso” è rimasto insoluto. Io sono sempre determinato a risolverlo. Sono convinto che la risposta si trovi nel southside di Los Angeles. Ho cominciato a credere a una leggenda che continua ad aleggiare nel ghetto: di quando in quando dei neri in difficoltà ricevono per posta da uno sconosciuto uno smeraldo di ingente valore.

Credo che Scotty sappia più cose sui fatti del 24/2/64 di tutti gli altri poliziotti di Los Angeles messi insieme. Credo che voglia per sé i soldi e quelle splendide pietre verdi. Considero l’OPERAZIONE CATTIIIIVO FRATELLO una manna dal cielo, malgrado gli intenti draconiani di Hoover. Ora posso contare su una perfetta copertura nel southside. La gente racconterà a un militante nero radicalmente riconvertito cose che non direbbe mai a uno sbirro. Devo essere molto coraggioso e altrettanto prudente, e tessere la mia tela intorno a Mr Holly con la massima cautela.