Los Angeles, 18/2/1969
Emma Goldman, Mosca, Archie Bell and the Drells. L’arteriosclerosi favoriva le stramberie.
La vecchia checca non ci stava più con la testa. Quanto poteva durare ancora? Quanti merdosi incarichi poteva ancora assegnare?
Le porcherie razziste istigano all’odio. King aveva un sogno. Hoover aveva la fregola per i fumetti.
Vignette e sonetti razzisti. “Un porcellino andò al mercato. Un porcellino rimase a casa. Un porcellino fu accoppato da una Pantera, dopo aver assaggiato la sua mazza.”
Dwight batté a tappeto tutte le tipografie. Aveva preso gli indirizzi dall’elenco telefonico. Era materiale stampato da un professionista, proveniente da una tipografia.
Pioveva. Ne aveva controllate sedici. Mostrava quella merda razzista e rovinava la giornata a tutti. Il distintivo e il nervosismo mettevano in agitazione. Impiegati vigliacchi facevano il segno della pace.
A Hoover quel segno piaceva. Lo definiva “l’impronta del Coniglio Americano”.
Dwight guidava verso nordest. Era in giro da cinque ore. Aveva setacciato il southside e Miracle Mile, adesso toccava a Hollywood.
Andò in una tipografia sulla Fountain e in una sulla Cahuenga. Tra l’una e l’altra tappa sintonizzò la radio sulle frequenze della polizia. Il segnale era disturbato. Una marcia per la pace in centro. Una dei raccoglitori di frutta a Boyle Heights. Torme di negri diretti a sud.
Ricevette un “No” e un “No, signore”. Si diresse a est. Si fermò a una tipografia sulla Vine e a una sulla Wilton. Un ragazzo con la faccia brufolosa ridacchiò quando gli mostrò le vignette. Una ragazza hippie rispose con un “Om”.
Altra tipografia sulla Vermont. Odore di marijuana e di incenso. Due giovani al bancone si agitavano e ridevano come scemi. Quando lo videro intuirono che era uno sbirro. La ragazza passò uno spinello al ragazzo, che ingoiò la cicca.
Dwight dispose sul banco le vignette razziste. «E allora?» fece il ragazzo. «Non è mica illegale.» La ragazza ridacchiò.
Esaminarono le vignette. Dwight le sparpagliò per fargliele vedere meglio. La ragazza fissò lo sguardo sul maschio ben dotato. Il ragazzo disse: «È un paese libero».
«L’avete stampato voi questo materiale?»
«Sì, certo. È un paese libero.»
La ragazza ridacchiò. «Be’, più o meno.»
«Chi ve l’ha commissionato? Che faccia avevano? Chi l’ha ritirato? Come hanno pagato e/o dove l’avete spedito?»
«Questa è censura» si lamentò la ragazza. «È un paese libero» ripeté il ragazzo.
Dwight si avvicinò alla porta d’ingresso, mise il catenaccio e tornò al bancone. La ragazza si morse il labbro. Dwight fletté le dita.
Il ragazzo si sgonfiò. «Hanno pagato in contanti e l’abbiamo spedito a un indirizzo di Eagle Rock. Era una donna, l’aspetto duro, sa, da dominatrice, una di quelle con cui non vorresti avere nulla a che fare.»
Dwight sorrise. «Sui quaranta, scura, capelli striati di grigio, con gli occhiali. Una cicatrice di arma da taglio sul braccio.»
I ragazzi lo fissarono a bocca spalancata. «Ditemi come si chiama» intimò Dwight.
«Joan» rispose la ragazza.
Era un quartiere collinoso e non troppo esclusivo. Qualche bello scorcio e vista su un’autostrada serpeggiante. Vi coesistevano pendolari bianchi e mangiafagioli. Adesivi sui paraurti con lo slogan WALLACE PRESIDENTE e automezzi di messicani con la carrozzeria ribassata.
L’indirizzo corrispondeva a un residence con i muri verniciati a chiazze. Qualche bifolco aveva scrostato lo stucco bianco per creare un effetto tie-dye. Otto appartamenti con buche delle lettere incassate nel muro. Le tre del pomeriggio: silenzio da siesta.
Dwight suonò alla porta. Uno squillo da svegliare i morti. Appoggiò l’orecchio vicino ai cardini, e percepì il vuoto della stanza. Aspettò trenta secondi, poi incuneò nello stipite accanto alla serratura la bietta che aveva in tasca. L’uscio cedette subito.
Troppo semplice, non era da Joan.
Entrò, chiuse la porta e tirò la catenella. Accese la luce al soffitto e l’appartamento gli apparve nella sua interezza. Un soggiorno-camera da letto, un cucinotto e un piccolo bagno. Un letto a parete aperto.
Un giaciglio per un fuggiasco, più che un covo. Un posto dove fermarsi il minimo indispensabile: un ricovero di fortuna per un ricercato.
Dwight fece qualche passo. Sapeva già cosa avrebbe trovato: cibi in scatola in cucina, un cesso con accessori da quattro soldi, vestiti che non le aveva mai visto indosso. Si riservò il comò per ultimo.
Jeans scoloriti, stivali, abiti estivi che lasciavano le braccia scoperte.
Toccò ogni cosa. Si era introdotto nell’appartamento di Karen una dozzina di volte, ma non aveva mai toccato i suoi effetti personali.
Si sedette sul letto. Alla spalliera erano appoggiati due cuscini. Aveva ripreso a piovere. Dal tetto colava acqua a un metro da lui. Scostò i cuscini. Come volevasi dimostrare: sotto c’erano una Magnum e un diario.
La pistola aveva degli elastici intorno al calcio. Sopra non rimangono impronte e aiutano a tenere ferma l’arma quando si prende la mira. Il diario aveva una copertina di pelle nera ed era leggerissimo. Ciò significava che era quasi intonso.
Lo aprì. Una polaroid scivolò via. Ritraeva lui che dormiva. L’aveva scattata nella loro camera allo Statler. Lui era rannicchiato dalla parte di Joan.
Posò la foto, con mano tremante. Afferrò la sponda del letto per far passare il tremito. Strappò la pagina. Era scritta a mano, in maiuscolo, con la grafia nervosa di Joan Rosen Klein.
SIAMO DECISI A RAGGIUNGERE GLI STESSI RISULTATI E SIAMO GUIDATI DA UN FINE PRESSOCHÉ IDENTICO. L’INTENTO COMUNE È QUELLO DI GENERARE UN CAOS GESTIBILE. DWIGHT È IMPEGNATO A RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI A BREVE TERMINE DELL’FBI. IO VOGLIO CREARE L’ILLUSIONE CHE L’OPERAZIONE SIA ARRIVATA ALLA SUA CONCLUSIONE LOGICA E IDEALE. DWIGHT È CONVINTO CHE TALE CONCLUSIONE PORTERÀ ALLO SBARAGLIO IL MOVIMENTO NAZIONALISTA NERO. IO INVECE CREDO CHE IL MOVIMENTO NAZIONALISTA NERO VERRÀ SOLO MOMENTANEAMENTE SCREDITATO. DWIGHT AVRÀ SVOLTO IL SUO LAVORO E PORTATO A TERMINE L’INCARICO CON UN RISULTATO IN APPARENZA PERFETTO. IL RIFIUTO DI QUELLA CONCLUSIONE FITTIZIA DARÀ LUOGO A UN CONTINUO E SEMPRE CRESCENTE LIVELLO DI INCREDULITÀ, DI ESECRAZIONE MORALE E DI CENSURA NON UFFICIALE, CHE NEL TEMPO PORTERÀ A UNO STATO DI EMANCIPAZIONE ORA INIMMAGINABILE. L’FBI VUOLE CHE L’ATN E L’FLMM SPACCINO EROINA. SONO CONVINTI IN QUESTO MODO DI FAR APPARIRE IL NAZIONALISMO NERO COME UN MOVIMENTO INTRINSECAMENTE CRIMINALE E DI DIMOSTRARE CHE NELLA GRAN PARTE DELLA GENTE DI COLORE LA DEPRAVAZIONE È INNATA. L’OBIETTIVO A BREVE TERMINE DELL’FBI È PLACARE LA PLEBAGLIA NERA, QUELLO A LUNGO TERMINE È LA PERPETUAZIONE DELL’ASSERVIMENTO RAZZIALE. IO VOGLIO CHE L’ATN E L’FLMM SPACCINO EROINA. SONO DISPOSTA A RISCHIARE CHE SI DETERMINI NEL BREVE PERIODO UNA SITUAZIONE SORDIDA, NELL’ARDENTE SPERANZA CHE IL PROLUNGATO STATO DI CORRUZIONE PROVOCATO DALL’EROINA DIA LUOGO CON IL TEMPO A UNA DECISA ESPRESSIONE DELL’IDENTITÀ RAZZIALE E DA ULTIMO ALLA SCOPERTA DELLA POLITICA E ALLA RIVOLTA. IN QUESTO SENSO, AL CONTRARIO DI DWIGHT, IN CIÒ VEDO ONORE, SPERANZA E BELLEZZA. I NOSTRI OBIETTIVI SONO A UN TEMPO CONTRARI E PERFETTAMENTE SINCRONI. DIVERGIAMO E SIAMO CONGIUNTI IN EGUAL MISURA. LA NOSTRA È UN’UNIONE FEDELE E MALE ASSORTITA. HO INTRAPRESO UN PERCORSO DECISIVO INSIEME A UN PROVOCATORE RAZZISTA CHE MI HA DATO QUALCOSA DI INSONDABILMENTE PREZIOSO. ANTEPORRÒ SEMPRE I MIEI OBIETTIVI AI SUOI, PUR CONSAPEVOLE DI NON POTER PREVEDERE GLI SVILUPPI SPECIFICI DEL NOSTRO VIAGGIO.
Una folata di vento entrò dalla finestra, facendo volare via la pagina. La parola “compagno” gli rombava nella testa.