Las Vegas, 14/3/1970
Wayne collegava una casella all’altra. Il grafico sulla parete era pura Optical Art. Caselle e frecce con strane angolazioni.
Caselle e frecce. Da Reginald a Joan all’haitiano delle erbe.
Caselle con diagrammi e copie in carta carbone di documenti della polizia di Los Angeles e dell’ufficio dello sceriffo della Los Angeles County. Gliele mandava il suo contatto nella polizia di Vegas. Poco probabile che saltasse fuori qualcosa. Verbali, schede di interrogatori. Gli sbirri di Los Angeles strapazzavano abitualmente ragazzi neri. Magari c’era anche il nome di Reginald Hazzard.
Wayne guardò l’orologio: aveva al massimo un’ora. Le valigie erano pronte, con i soldi della scrematura per Celia. Aveva prenotato un volo notturno per la Repubblica Dominicana.
Frecce e caselle. Da “Libri della biblioteca” a “Libertà su cauzione”. Una nuova casella: “Leander James Jackson/ATN/Tonton Macoute”.
La porta del corridoio si aprì. Sentì Mary Beth nel salotto. Un tintinnio di chiavi, le buste poggiate su una poltrona. Sbuffò come fosse seccata.
Lui fissava il grafico. Chiuse la valigetta e vi attaccò la catenella delle manette. Evidenziò la casella di “Leander James Jackson”.
«Voglio che tu la smetta con tutto questo.»
Wayne si voltò. Mary Beth guardava la valigetta.
«Non voglio che trovi mio figlio. Lui non vuole essere trovato. Se è vivo, ha preso questa decisione di sua spontanea volontà, e io non intendo umiliarlo costringendolo a tornare.»
Wayne infilò le mani in tasca. Gli occhi gli lacrimavano per l’effetto residuo delle erbe.
Mary Beth gli si avvicinò. «Qualunque cosa tu abbia fatto in passato, ti perdono. Qualunque cosa tu stia facendo, ti perdono. Ti perdono per non avere fiducia in me, perché non vuoi essere perdonato; vuoi solo creare altri intrighi e situazioni pericolose e continuare a punirti.»
Wayne sferrò un sinistro contro il muro. La modanatura si scheggiò, le nocche presero a sanguinare, il vetrino dell’orologio andò in frantumi.
«A chi hai fatto del male? Che cosa hai fatto?» gli chiese Mary Beth.
Andò a piedi al covo. Santo Domingo appariva diversa. Era partito all’improvviso, senza avvertire Ivar Smith né i Ragazzi. Voleva verificare di persona.
Era come trovarsi davanti a uno schermo panoramico in stereofonia. Di solito girava in limousine. Si riposava la vista e i rumori gli giungevano attutiti. Questa era la merdosa realtà. Le fogne che tracimavano, il frastuono assordante, gli sbirri appostati che piombavano sulle loro vittime.
Era un’afosa sera d’inverno. Wayne indossava una giacca sportiva che copriva la catenella delle manette. Aveva un indirizzo di Borojol. Era una zona piena di night e alberghetti. Ambulanti haitiani vendevano gelati al kleren.
Wayne trovò l’indirizzo: una costruzione rosa a forma di cubo arretrata rispetto alla strada principale. La mano libera gli doleva per il pugno sferrato al muro. Bussò alla porta con la manetta. Celia aprì.
Indossava un grembiule insanguinato. Dietro di lei c’erano un mucchio di brande e di supporti per flebo. Quattro ragazzi e due ragazze avevano punti di sutura alla testa. Ferite da manganello chiodato: Wayne si accorse che sanguinavano.
Vide il dottore che aveva conosciuto l’anno prima. Due infermiere stavano cambiando le padelle. Un ragazzo aveva un moncone al posto del piede. Una ragazza aveva uno zigomo sfregiato da un proiettile. Una finestra sul retro affacciava su un vicolo. Fuori, Wayne scorse Joan che fumava. Dei bisturi le fuoriuscivano dagli stivali.
Celia indicò la valigetta. Wayne l’aprì. Gli pulsava la mano. Celia guardò i soldi.
«Quanto?»
«Centoquarantotto.»
«Ho parlato con Sam. Mi ha detto che Balaguer ha autorizzato la costruzione di altri quattro casinò. Dovranno bruciare o inondare dei villaggi haitiani prima di cominciare i lavori.»
Wayne chiuse gli occhi. I sensi si riacutizzarono. Nella stanza aleggiava puzzo di carne in decomposizione.
Riaprì gli occhi. Celia richiuse la valigetta e la fece scivolare sotto una barella. Un ragazzo gridò qualcosa in spagnolo. Una ragazza si lamentava in creolo. Joan si voltò e lo vide. Wayne si fece largo tra le barelle e le si avvicinò.
Aveva i capelli legati e gli occhiali sghembi sul viso. Le sue mani erano piccole e ruvide.
«Ha portato una donazione?»
«Sì, ma non come quella dell’ultima volta.»
«Sono fiduciosa che ce ne sarà un’altra.»
«Sì, ci sarà.»
Joan si accese una sigaretta. Le unghie delle dita erano sporche di sangue rappreso.
«Crede davvero in quello che fa?»
«Mi dica cosa sa di me. E come l’ha saputo.»
«Non voglio dirglielo.»
Un colpo di pistola risuonò da qualche parte. Un uomo latrò come un cane. Joan disse: «Si faccia vedere la mano dal dottore».
Wayne scosse la testa. «L’ho cercata a Los Angeles.»
«Ah.»
«Non ero il solo.»
«Quando verrà il momento troverò l’uomo di cui parliamo.»
L’uomo cane latrò. Altri due uomini cane gli fecero eco. Una donna cagna abbaiò dalla direzione opposta.
«Ci sono cose che lei potrebbe dirmi.»
«Non ho intenzione di farlo.»
Il branco di cani latrò e scagliò delle bottiglie contro i muri. Il vetro andò in frantumi in stereofonia.
«Non ha risposto alla mia domanda.»
Wayne fletté le mani. «Ci sono persone che aspetti tutta la vita. Se ti dicono di andare in un posto, saresti uno stupido a non farlo.»
Joan mise una mano in tasca, Wayne notò che tremava. Tirò fuori una bandierina rossa attaccata a uno stecchino.
«Mi procuri un silenziatore per un revolver .357 Magnum» disse Wayne.
I cantieri di Santo Domingo sorgevano alle spalle della strada ed erano sorvegliati da un solo uomo. Le guardie lo conoscevano. Le squadre degli operai dormivano in tende a una trentina di metri. Le baracche con gli esplosivi per le demolizioni erano a ridosso dei puntoni delle fondazioni. Avevano pareti insonorizzate e senza piombo. Dinamite, C-4, nitroglicerina: tutti materiali altamente infiammabili.
Il terreno circostante era imbevuto di pioggia. I capocantieri comunicavano da un sito all’altro con telefoni a gettoni. Impregna un filo sintetico teso e rivestilo di plastica. Lascia sufficiente spazio per alimentare la fiamma. Manometti i telefoni, falli squillare e prega che scocchi la scintilla.
Per i cantieri fuori città sarebbe stato più complicato. Erano distanti un centinaio di chilometri, si sarebbe dovuto ricorrere alle bombe.
Wayne trovò un negozio di ricambi per auto aperto anche di notte. Comprò l’occorrente e due cuscini di materiale acrilico per i sedili. Da un ferramenta prese uno spesso tubo di plastica e tornò in albergo.
Strappò i cuscini e li inzuppò di benzina. Per tagliare a misura il tubo si affidò alla memoria. Lo sezionò in varie parti di lunghezza approssimativa e praticò dei fori per alimentare le fiamme. I telefoni a gettoni erano sistemati su montagnole di terra. Manometterli sarebbe stato un gioco da ragazzi, ma non era detto che i cavi prendessero fuoco.
Un ragazzo gli consegnò il silenziatore. Wayne lavorò tutta la notte. Trasformò la suite in un’officina. Chiamò la reception e prenotò un’auto a noleggio per la sera seguente. Si preparò delle dosi di erbe vudù e dormì tutto il giorno.
Fece sogni per lo più tranquilli. King sorridente che predicava.
Si alzò e mangiò un boccone. Caricò le attrezzature sulla Chevy a noleggio e si diresse al primo cantiere. La mano non gli faceva più male. Non sentiva i rumori intorno a sé né il piede sui pedali. Era perfettamente calmo.
Le 23.26.
Parcheggiò sulla strada. La guardia camminava fumando una sigaretta. La tenda che ospitava gli schiavi era al buio.
Wayne s’infilò un paio di cesoie nella cintura. La guardia si avvicinò al cancello, incuriosita dalla macchina. Wayne abbassò il finestrino e gridò «Hola». La guardia lo riconobbe e aprì il cancello.
Wayne scese e gli si avvicinò. La guardia lo salutò deferente: tu sei el jefe. Wayne indicò la luna. La guardia si voltò. Wayne gli puntò la Magnum alla testa e sparò un colpo.
Il silenziatore funzionò. Il proiettile a punta morbida trafisse il cranio e si espanse. La guardia cadde esanime senza uno schizzo di sangue.
Wayne andò alla macchina e prese il tubo. Tornò sui suoi passi e scavò un solco a mani nude. Prese le chiavi dalla cintura della guardia e aprì la baracca degli esplosivi. Svitò il pannello posteriore del telefono a gettoni, svolse i fili e li assicurò all’estremità del tubo.
Sedici minuti.
Srotolò il tubo, da un’estremità all’altra, e lo infilò nel solco, collegando il telefono alla baracca. Corse verso la tenda degli schiavi e accese il riflettore sistemato all’ingresso.
Gli schiavi si agitarono. Erano incatenati alle brande. La maggior parte erano neri, alcuni con la carnagione chiara, quasi tutti haitiani. Lo fissarono. Videro la pistola alla cintura e s’inginocchiarono. Le catene ne impedivano i movimenti. Wayne prese le cesoie. Gli schiavi iniziarono a gridare. Wayne afferrò l’uomo più vicino e gli liberò i polsi.
L’uomo lo osservò stupefatto. Wayne fece un passo indietro. L’uomo si mise a saltare mostrando le mani. Gli altri guardarono Wayne e capirono.
Sollevarono le mani all’unisono; erano incatenati insieme. Wayne si avvicinò e li liberò, uno a uno. Lo circondarono e lo issarono in spalla. Mentre fuggivano, i loro volti gli si impressero nella mente.
Il secondo cantiere era a tre chilometri. Il cancello era aperto. La guardia russava in un sacco a pelo vicino al telefono a gettoni. Wayne gli sparò un colpo in testa e si caricò l’attrezzatura.
Il terreno era cedevole, fu facile scavare il solco. Il lavoro procedeva spedito, ci mise poco più di dieci minuti.
La tenda degli schiavi era di un tessuto semitrasparente simile a garza. Era inzuppata di pioggia e tratteneva il calore. I quattro riflettori accesi tutta la notte la rendevano a un forno.
Gli schiavi erano svegli. Le brande erano fradice di sudore e appoggiate direttamente a terra. Videro Wayne e rimasero immobili. Si levarono dei mormorii, quasi delle grida. Wayne passò tra le brande. Il primo schiavo ritrasse le mani. Wayne gli afferrò i polsi e recise le catene. Gli altri capirono la situazione e sollevarono i polsi.
Wayne li liberò uno a uno. Gli uomini si alzarono lentamente. Inciampavano e zoppicavano. Nessuno guardava Wayne. Un uomo fece una benedizione vudù. Altri due squarciarono la tenda e fuggirono.
Wayne li guardò. Corsero verso una piccola capanna e sfondarono la porta a calci e a spallate. I cardini cedettero. Afferrarono fucili e mitragliatori Sten.
L’Autopista correva dritta verso nord. Doveva osservare la scena. Dall’alto e fin dove arrivava la vista.
A Reparado s’imbatté in una stazione di servizio. Si vedevano le pendici delle alture e un declivio. Un solo telefono a gettoni. Un’ampia visuale notturna.
Non doveva fare interurbane. Niente operatore. Non era detto che funzionasse.
Wayne inserì due monete nella fessura e compose il numero del primo cantiere. Sedici squilli e non accadde nulla. Il diciassettesimo squillo riecheggiò diffondendo un chiarore rosato. Il diciottesimo produsse un sibilo nell’immenso cielo striato di rosso.
Inserì altre monete e compose il secondo numero. Al secondo squillo ci fu la deflagrazione. Le chiazze rossastre si fusero.
I cantieri in campagna lo preoccupavano. I telefoni e le baracche erano troppo lontani. Le tende degli schiavi erano piantate nell’acqua. Ci sarebbero state delle vittime.
Ormai il nano e la Banda dovevano già aver saputo. Presto quei cantieri sarebbero stati presidiati.
Wayne parcheggiò in un boschetto fuori Jarabacoa. Ingerì delle erbe e si sforzò di non pensare. I rami degli alberi sollevavano la macchina. Vedeva un’infinità di stelle. Con la punta delle dita muoveva le costellazioni. Udì dei rumori, che potevano essere spari o forse tamburi.
Dal cielo piovevano monete. Aprì la bocca e ne sentì il sapore. Udì il segnale della linea telefonica e il cielo si punteggiò di scintille. I colori lo cullavano, si sentiva al sicuro.
Fu il sole a risvegliarlo. Un bagliore che filtrava dal parabrezza lo illuminò. Gli occhi gli si annebbiarono. Vide delle fiamme e sentì puzza di fumo.
Mise in moto e si avviò, prendendo strade secondarie. Superò un camion dei pompieri e due auto della Policia Nacional. Le fiamme divampavano sopra una linea di alberi. Scorse il cantiere di Jarabacoa bruciare.
Voglio vedere meglio...
Fermò la macchina e montò in piedi sul tetto. Scorse due guardie del cantiere appese ai rami di un albero, linciate. Notò la scritta “14/6” sul blocco di una fondazione e dei mitra Sten abbandonati.
Voglio vedere...
Saltò su un ramo e si arrampicò in cima all’albero. Il mondo si espanse. Il fogliame gli mulinava intorno. Vide bambini dalla pelle chiara e uomini neri che correvano, armi in pugno.
Voglio...
Guardò verso sud. Il mondo si ri-espanse. Cominciò automaticamente a fare calcoli matematici e geometrici. Caddero delle monete. Nel punto in cui dovevano trovarsi gli altri cantieri il cielo esplose.