Silver Hill, 5/4/1970-4/12/1970
Il letto, il prato. Gli edifici bianchi, il sonno artificiale.
Era stato costretto a ricoverarsi in clinica. Allora vi aveva passato trenta giorni; adesso otto mesi. Tra la prima e la seconda degenza erano trascorsi tredici anni di purgatorio. La prima volta c’era finito per caso. Era alcolizzato e si stava lasciando andare. I problemi da affrontare erano i sensi di colpa e l’astinenza. Stavolta i motivi del ricovero erano il suo comportamento avventato e il cinismo politico. Il tributo in termini di vite umane era incalcolabile. L’atteggiamento mentale che determinava le azioni condizionava l’identità cosciente.
Lui era lì. Lei nel posto in cui si era rifugiata dopo la sua scomparsa, chissà dove. Sapeva di essere sua complice. Già in altre occasioni la sua noncuranza aveva provocato il caos. Era andata via per trovare di nuovo la voglia di tornare.
Silver Hill era un incanto. Vi rimase tre stagioni. Vide lo splendore della primavera, l’ardore dell’estate e la neve.
Aveva spedito un telex a Hoover, con il quale spiegava che aveva bisogno di un lungo periodo di riposo, senza indicare il luogo in cui si trovava. Hoover sapeva che si sarebbe rintanato lì. Un mese dopo, arrivò un biglietto.
Si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno. Ho un nuovo incarico da affidarle, a Los Angeles. Comincerà a gennaio.
“Sovrintendente alle informazioni.” Un eufemismo per dire che avrebbe dovuto rovistare nel fango, raccogliere pettegolezzi e voci su scandali, alimentare l’archivio privato della vecchia checca.
Un lavoro a basso rischio. Un incarico senza pericolo di vita.
Los Angeles era Los Angeles. A nord del southside poteva sentirsi al sicuro. C’era Karen. Joan poteva ricomparire e rintracciarlo.
Era crollato a New Orleans. Aveva preso un aereo del Bureau ed era andato direttamente lì. I medici l’avevano visitato e l’avevano trovato fisicamente sano. L’avevano sottoposto a una dieta adeguata e gli avevano fatto riprendere peso. Gli avevano somministrato sedativi. Aveva dormito diciotto ore al giorno per sei settimane consecutive. Si svegliava in preda al terrore. Appena riapriva gli occhi vedeva i suoi cari scomparsi. Scoppiava in singhiozzi. Veniva colto da attacchi di panico e si scagliava contro il muro. Gli infermieri gli praticavano delle iniezioni, si riaddormentava e al risveglio ricominciava da capo.
La sua stanza aveva le pareti imbottite, e quando vi sbatteva contro non si faceva male. Voleva provare dolore. Era convinto che la sofferenza fisica avrebbe offuscato i volti dei morti.
Superò quella fase. I giorni passavano sempre uguali e lui continuava a migliorare. I medici diminuirono i sedativi. Evitava gli strizzacervelli e gli altri pazienti. Trascorreva il tempo con un gregge di capre. Vivevano in appositi recinti all’interno della struttura. Erano di conforto a chi soffriva.
Dava loro da mangiare e le coccolava. Ordinava per posta degli animali di peluche e li inviava alle figlie di Karen. Faceva finta che le bambine fossero sue e di non aver mai procurato dolore a nessuno nella sua vita. Quei pensieri lo annientavano. Perdeva il controllo e scoppiava a piangere, nel timore di non poter più riprendere un’esistenza normale.
I suoi morti lo andavano a trovare. Se ne stava seduto immobile con loro. Passava settimane ad ascoltarli e a parlare. Si rifugiava in una dimensione in cui potevano coesistere.
Andavano e venivano. Cominciò a capire cosa volevano e cosa doveva loro. Gli restituivano la ragione, ma erano sempre pronti a riprendersela.
Karen gli spediva lettere piene di preghiere quacchere sulla pace. Le bambine gli mandavano bigliettini di ringraziamento per gli animali di peluche. Karen gli inviò una fotografia che le ritraeva tutte e tre. Sul retro erano scarabocchiati l’indirizzo e il numero di telefono. Dina vi aveva scritto sopra: “Se quest’uomo non si trova, per favore trovatelo”.
Teneva sempre con sé la foto. Passava ore con le capre. Rifletteva su tutto e cominciava a capire.
Un’operazione dettagliata. Un piano multicontestuale. Uno scenario esplicativo. Di’ chiaramente come stavano le cose allora e come stanno adesso.
La follia razziale di Hoover. La guerra dell’FBI al movimento per i diritti civili. Il suo disastroso faux pas con le organizzazioni dei militanti neri.
Un’impresa titanica per rendere pubblica la verità. Un atto d’accusa assolutamente circostanziato. Un trattato sulla mentalità collusiva. JFK, RFK e MLK sono morti. Ora vi dico come.
Un importante documento sociale, con gli uomini chiave ben evidenziati. Marsh Bowen, ipocrita omosessuale e spietato agente provocatore. Mafiosi con abietti legami nel ghetto. Sicari che ruotano intorno a Hoover. Il ruolo dell’agente speciale Dwight C. Holly: quello di confessare.
Un avvenimento di enorme portata quanto a rigore morale. Un’idea grandiosa nata dalla mania di Hoover per i dossier. L’epica di una documentazione perversa, banalizzata dallo sconcertante carico della sua futilità. Un testo così profondo da sfidare ogni lettura semplicistica e da ispirare studi controversi per tutti i fottuti anni a venire.
Il quadro era chiaro nella sua mente. Non scrisse nulla. Riposava e accarezzava le capre.
Per il giorno del Ringraziamento, Karen gli mandò una torta di pesche. La divise con le sue bestiole. Era preoccupato per la loro sorte. Ne parlò a un responsabile della clinica.
«Nessuno farà mai loro del male, Mr Holly» lo rassicurò l’uomo. «Continueranno a vivere in questo luogo. Sono qui per le persone come lei.»
Riposava. Dormiva. Sognava Wayne, erano sogni tranquilli. Modificò e perfezionò la sua idea. Ne avrebbe parlato presto con lei. Sapeva che era impossibile rintracciarla. Sentiva che sarebbe stata lei a trovarlo, a Los Angeles.
Si sbagliava. Accadde all’improvviso. Lei lo sorprese mentre era con le capre.
Udì un rumore di passi. Si voltò e la vide. Aveva un’espressione feroce come non mai, da mozzare il fiato. La sua figura era imponente.
«Salve, compagna.» Tirò fuori la bandierina rossa.
«Che dobbiamo fare?»
«Ora te lo spiego.»