Los Angeles, 9/1/1971

Chez Marsh: la casa di un uomo colto e non militante.

Forzò la serratura con i grimaldelli al tungsteno. Indossava occhiali a infrarossi per vedere al buio. Luci spente per desaturare le immagini.

Baldwin Hills. Una villetta a un piano sulla Stocker. Borghesia nera. Arredamento tubolare, un design da ficheeeeeetti.

Dwight gironzolava per la casa. Erano le 21.49. Marsh era stato invitato a pronunciare un discorso importante. Piaceva ai pezzi grossi del partito repubblicano: era uno che si era fatto da sé. L’aveva chiamato il governatore Reagan in persona.

Era la prima volta che entrava nell’appartamento. Diamo un’occhiata.

Dwight fece delle fotografie. La sua Minox scattava immagini luminose senza flash. Nel pied-à-terre c’era una camera oscura, Joan avrebbe potuto sviluppare le foto.

Riproduzioni di Rauschenberg e Rothko in cornici di acciaio satinato. Un’atmosfera austera. Un grembo materno in metallo.

Batté sulle pareti. Controllò scaffali e cassetti. C’erano libri d’arte, documenti fiscali e fogli bianchi. Marsh aveva la mania della carta. Lo immaginava. Joan lo definiva un “diarista clandestino”.

Dwight entrò nella camera da letto: anche lì quello stile tubolare. Marsh amava il metallo satinato. Un arredamento funzionale e spartano. Vi si avvertiva un odore maschile, ma nessun profumo femminile. Quell’uomo era un esempio di raffinata ostinazione.

Marsh era l’ennesimo individuo che uccideva un personaggio pubblico per protesta contro la società. Quella casa era il suo covo di psicopatico. Un luogo freddo e fin troppo ordinato. Da lì cominciava un viaggio nell’orrore.

Dwight esaminò i cassetti del comodino. Esaminò la rubrica degli indirizzi e fotografò ogni pagina. Gli uomini erano segnati solo con il nome. C’erano i numeri del Klondike, del 4-Star, del Tradesman, dello Spike. Ormai Marsh si sentiva al sicuro. L’appartamento dove viveva da infiltrato era da Actors Studio. Lì invece c’erano un mucchio di riferimenti alla sua omosessualità.

Bisognava trovare i posti dove sistemare il materiale compromettente. Marsh era un finocchio con una spiccata predilezione per l’austerità. Quell’appartamento lo rispecchiava. Miniamone l’immagine.

Qui piazziamo bustine di fiammiferi prese in locali per froci. Lì mettiamo foto con scene di sodomia. Schizziamo di sperma le lenzuola il giorno prima dell’omicidio. Nascondiamo peni finti sporchi di merda nel bagno.

La casa sarebbe stata sottoposta a indagini accurate. Le apparenze dovevano sgretolarsi lentamente, come lentamente doveva crescere l’orrore.

Dwight batté ancora sulle pareti. Nessun rumore sordo, non c’erano nascondigli segreti. Posti dove sistemare il materiale compromettente. Libri sovversivi e pornografia politica. Joan aveva avuto un’intuizione: tiene un diario, trovalo, alla vigilia dell’omicidio lo sostituiremo con il nostro.

Una macchina da scrivere elettrica Underwood, con accanto risme di carta.

Dwight infilò un foglio e batté tutte le lettere, i numeri e i simboli. A prima vista sembravano perfetti. Scattò una foto alla tastiera e ai martelletti. Potevano esserci dei tasti difettosi, in quel caso avrebbero dovuto individuarli e riprodurli. La Scientifica avrebbe esaminato la macchina da scrivere. Dovevano creare una situazione accuratamente verosimile.

Batté di nuovo sulle pareti. Nessun suono particolare. Quella era solo una prima perquisizione. Ancora non si fidava del suo udito.

Nascondigli. La Scientifica avrebbe messo a soqquadro la casa. Una volta morto, Marsh doveva essere sputtanato. Era un tipo estremamente ingegnoso e pieno di risorse. L’appartamento doveva brulicare di prove scottanti.

Piazza dei documenti qui. Piazzane altri là. Un facsimile della sua vita. Lui accumula documenti per Hoover. Il suo mestiere è quello di cercare posti dove piazzare documenti.

Era rientrato da un mese. Hoover gli aveva concesso un aumento di stipendio. L’archivio tracimava di spazzatura scandalistica. La maggior parte si riferiva a personaggi di Los Angeles. Marsh era nato lì. Dopo la sua morte, ogni fascicolo degli uffici di Los Angeles sarebbe stato passato al setaccio per verificare se il suo nome vi fosse menzionato.

Dwight aveva scorso i fascicoli cercando i punti dove inserire informazioni. Si trattava di una fase preliminare dell’operazione. Bisogna nascondere fogli ingialliti dal tempo, a riprova di un incipiente squilibrio nella visione politica e di una patologia omosessuale latente. La fissazione per i dossier dell’FBI inchioda Marshall Bowen. Vengono accuratamente spulciati anche fascicoli poco attinenti. Hoover riceve un’incriminazione postuma. La compilazione dei dossier è una tediosa prassi all’insegna del perbenismo e una forma di scatologia ufficialmente sanzionata. L’opinione pubblica è combattuta fra esecrazione e morbosità. L’agente speciale D.C. Holly spiegherà il significato di tutto ciò.

Trascorreva ore nell’archivio. Jack Leahy lo trovava strano. Lui trovava strano Jack. Quell’uomo faceva sempre battute sulla salute della vecchia checca. Ma, contrariamente a quanto credeva lui, Hoover si manteneva lucido.

Dossier:

Joan non approvava il raid nell’archivio della Pennsylvania. Secondo lei, in quel modo sarebbe saltata fuori troppo presto la mania dei fascicoli. Era convinta che lui stesse sfruttando Karen. Una pacifista quacchera si stava trasformando nella complice di un assassinio.

Avevano finito per non discuterne più. La questione aleggiava tra loro, irrisolta.

Dwight rovistò negli armadi a muro del corridoio. Vide le divise stirate di Marsh e il cinturone di una pistola arrotolato su un ripiano.

Trova degli attori. Vestine uno da poliziotto. Prendi una macchina di pattuglia. Allestisci uno scenario tipo Griffith Park. C’è un falso Marsh in uniforme. Si guarda alle spalle. Un uomo in manette, fermato perché sospetto, gli sta facendo un pompino. Marsh lo costringe puntandogli una pistola alla testa.

Invecchia la fotografia. Infilala in un’uniforme logora. Un ninnolo dimenticato.

Procurati delle amfetamine. Nascondile dietro la biancheria intima. Marsh presta servizio strafatto e si diverte ad abbordare maschi.

Dwight uscì dalla porta sul retro. Dalla casa di Marsh si godeva uno splendido panorama. Era proprio un bel posto. Marsh aveva ventisei anni. Gli rimaneva al massimo un anno di vita.

In camera servirono un pranzo a base di bistecca alla newyorkese e un bordeaux troppo corposo. Dwight beveva meno, Joan ci dava dentro. Adesso era lui a dormire più di lei.

Mangiarono in vestaglia. Grosse gocce di pioggia tamburellavano sui vetri. Bruciarono un pezzo di legno sintetico nel camino.

«Non sono d’accordo con l’irruzione. È troppo presto» disse Joan.

«Ti preoccupa la concomitanza.»

«Sì, è così.»

«Su questo non possiamo intervenire.»

«Devono essere loro a trovarsi contemporaneamente nello stesso posto.»

Dwight si stravaccò sulla poltrona. «Nella stessa città, ma dobbiamo decidere in anticipo dove appostarci. Dovrebbe essere a Los Angeles. Le ultime sei volte che è stato qui si è fermato al Beverly Wilshire. Chiede sempre una suite con vista a nord. Dall’altra parte della strada ci sono sette edifici a due o tre piani. Un paio sono di uffici, con i cartelli di AFFITTASI. Gli altri sono boutique e ristoranti. Hanno magazzini ai piani superiori, di fronte all’albergo.»

Joan si accese una sigaretta. «Continua. Dimmi cos’hai in mente.»

«Sto pensando che dovremmo trovare un giovane di colore, grosso modo dell’età di Marsh, che gli somigli parecchio. Possiamo affittare un ufficio e arredarlo. È lì che va a scoparsi i ragazzi, a drogarsi e a nascondere le armi. Trafugherò delle provette per la raccolta del seme da un ospedale. Le riempiremo gradualmente. Marsh ha un crollo. Fa sempre più spesso ricorso alle droghe. Dirò al killer di fargli una siringa di coca dopo averlo ucciso. Gli mostrerò come iniettare sostanze tossiche nel fegato in modo da farlo apparire un tossicodipendente di vecchia data.»

Joan emise un anello di fumo. «Hai doti sorprendenti, compagno.»

Dwight le prese le mani. «Sei preoccupata per Celia.»

«Non mi va di parlarne. Ha sempre saputo quali rischi correva.»

«Potrei fare qualche telefonata.»

«Non voglio.»

Dwight sorrise. «Quando ho scoperto il legame fra te e Tommy Narduno, ho pensato che mi avresti dato la caccia.»

Joan sorrise. «L’idea mi era balenata. Tommy era convinto di poter smascherare i tuoi maneggi alla Grapevine e far scoppiare un finimondo sui mezzi d’informazione. È sempre stato ingenuo. In fondo era un giornalista che si occupava di scandali. La notte che l’avete ucciso aveva addosso una cimice.»

Dwight ebbe un tremito. Joan indicò il vino, lui scosse la testa.

«Cos’è che ti ha convinto a desistere?»

«È stata Karen. Mi ha fatto capire che eri pronto. A un certo punto, citando Goethe, ha usato la frase “la caduta verso l’alto”.»

Dwight aprì una finestra. Chicchi di grandine lo colpirono in volto.

«E a proposito di quell’affare tra Jomo e Marsh: che ragionamento hai fatto?»

Una raffica di vento scosse i vetri. Joan girò la poltrona e lasciò che la pioggia la bagnasse.

«Ho valutato i tuoi scopi e i miei, coincidenti e in conflitto allo stesso tempo. Sapevo che la tua talpa doveva essere Marsh. Da quella scelta azzardata, ambiziosa e autodistruttiva è emersa la tua condizione patologica. Frequentando Marsh ho scoperto che era un individuo debole e profondamente egoista. Avvicinava gli uomini quando credeva che non lo stessi guardando, un vero faux pas per un attore, segno di terribile incertezza e narcisismo. Così ho chiamato Scotty Bennett e gli ho rivelato le sue tendenze. Poi l’ho richiamato e ho negoziato il tradimento di Jomo Clarkson da parte di Marsh. Era una strategia duplice: volevo mettere in pericolo Marsh e costringerlo a entrare nell’ATN. Consideravo Jomo un individuo malvagio, ed ero certa che Scotty non avrebbe resistito alla tentazione di ammazzarlo.»

Il vento sollevò la tovaglia e fece rovesciare il bordeaux. Dwight fece alzare Joan dalla poltrona.

Puckett, Mississippi. Sei parcheggi per roulotte e nove kamping del Klan.

Bob Relyea gestiva la Kaverna dei Sommi Kavalieri. Faceva favori agli sbirri del posto e soffiate all’ATF. Vendeva funghi allucinogeni e opuscoli razzisti. Rapinava stazioni di servizio. Bob aveva fatto parte della Skuadra della Tiger. Aveva spacciato eroina a Saigon e lavorato con Wayne Tedrow. Aveva ammazzato Martin Luther King.

Era una giornata kalma e kiara. Il kamping konsisteva in kasupole con il tetto ondulato e un kanile. Nel poligono di tiro c’erano quattro kazzoni. I bersagli erano dei manichini da centro commerciale. Indossavano maschere con le fattezze di Eldridge Cleaver.

Bob vide arrivare la macchina. Dwight frenò e si fermò davanti al kamping. Bob si avvicinò lentamente.

Dwight aprì lo sportello del passeggero e il vano portaoggetti. Ne cadde una mazzetta di banconote da cento. Bob la prese e se la infilò sotto la tunica.

«Questo solo per parlare?»

«Esatto.»

«Non dirmelo. Se ammazzo qualcuno ce ne saranno molti di più.»

«Esatto» ripeté Dwight.

«Uau, ragazzi.»

Dwight si accese una sigaretta. «Ne avrai cinquantamila. Devi eliminare il bersaglio e subito dopo il capro espiatorio. Per te è una passeggiata, questa parte non mi preoccupa. Il difficile è farli incontrare. Se necessario rapirò il capro espiatorio e lo porterò sul posto, ma preferirei evitare.»

Bob si mise un dito nel naso. «Il bersaglio è un pezzo grosso?»

Dwight gli strizzò l’occhio. Bob disse: «La cosa farà scalpore».

«È quello che voglio. Dietro c’è un piano.»

«Chi è il bersaglio?»

Dwight rise. «Quando lo vedrai lo riconoscerai.»