Los Angeles, 17/4/1972

«Il cognome lo scelgo io. Ne ho in mente uno.»

«Lasciami indovinare.»

«Diciamo che rende omaggio a questi ultimi anni, e nello stesso tempo vuole discostarsene.»

Nel giardino sul retro c’era l’allevamento di alligatori di Ella. Le nuvole si addensavano, minacciando pioggia. Joan raccolse gli animali di peluche.

«Dovremmo trovare qualcuno che pubblichi le nostre opere postume» disse Karen. «Che ne pensi? I nostri dossier, i diari, i promemoria. Tutto quello che abbiamo raccolto.»

Joan alzò lo sguardo verso il pied-à-terre. «Lui sarebbe adatto. È uno che fa incetta di documenti.»

«Cosa ne farebbe?»

«Li esaminerebbe per cercare risposte. Vedrebbe cose che nessun altro ha visto e vi imporrebbe la sua logica. Se maturerà, ne comprenderà il significato.»

Le bambine scorrazzavano per casa. Joan sbirciò dalla finestra, Dina stava guardando i cartoni animati alla tivù. Ella si avvicinò di soppiatto, staccò la spina e si mise a ridere.

«Dwight mi manca» disse Karen.

«Il mio corpo sta cambiando» disse Joan.

Cominciò a piovere. Si levò un vento forte. Joan fermò la pila di documenti con le pistole da depistaggio e alcuni soprammobili di Dwight. Era contenta che tirasse vento. Al ragazzo piaceva vedere i suoi capelli scompigliati.

C’erano i pro e i contro. Il vento creava un’atmosfera, ma le raffiche spegnevano le candele.

Era lì con lei ma pensava ad altro. Aveva gli occhi aperti. Joan li baciò e glieli tenne chiusi, mentre gli carezzava una vena che pulsava sul collo. Lui gemeva in un modo a lei sconosciuto. Sembrava un bambino. Così riusciva a trattenere le lacrime. Nascondeva il viso fra i suoi capelli, in modo che lei non vedesse.

Ci volle un po’. La mente aveva vagato chissà dove, le sue mani la toccavano con distacco. Era stato in disparte e adesso le venne accanto. Si era perso dietro immagini e pensieri, ed era tornato da lei. Le mise un ginocchio tra le gambe e le baciò le ascelle. Si stese su di lei. Joan rotolò sul fianco e s’inginocchiò sopra di lui. Aveva gli occhi da pazzo; lei glieli coprì. Lui le baciò i palmi delle mani e s’infilò le dita in bocca.

“Dimmi cos’hai fatto.”

“Non posso.”

“Hai pensato all’isola?”

“Sì, anche.”

“Ho saputo che Esteban Sánchez è stato ucciso.”

“Sì, è vero.”

“Sei stato complice della sua morte?”

“Sì.”

“Tieni fede alla purezza dei tuoi intenti. Ci saranno comunque delle vittime, ma sempre meno se agirai con coraggio.”

“C’è dell’altro.”

“Parlamene.”

“Non voglio.”

“Sei stato complice?”

“Sì.”

“Hai agito con coraggio?”

“Sì.”

“Ti sei reso conto che dovevi agire, perché nessun altro l’avrebbe fatto?”

“Sì.”

“E questo non ti dà conforto?”

“No.”

“Potevi scegliere di agire o di non agire. Hai preso la decisione giusta.”

“Come farò a sapere quando avrò agito nel modo sbagliato?”

“In quel caso la conseguenza sarà una catastrofe irreversibile.”

“E cosa dovrò fare, allora?”

“Dovrai mostrarti ancora più risoluto e cercare di essere più forte e avveduto quando agirai di nuovo.”

“C’è qualcosa che mi tormenta.”

“Parlamene.”

“Non posso.”

“Come vuoi.”

“Perché hai rimaneggiato il mio fascicolo?”

“Non voglio dirtelo.”

“Non credo che potrò più sentirmi al sicuro. Ho sempre cercato qualcosa che forse non esiste.”

“Sei sempre stato così.”

“Esiste un modo per liberarsi di tutto questo?”

“Non per noi. Possiamo fuggire, ma siamo destinati a tornare sempre indietro.”