Il Grattacielo di Ferrara era un luogo misterioso. Molti ferraresi lo consideravano il Bronx della città, o come le favelas di Rio de Janeiro. Un luogo dove la prostituzione, lo spaccio e la violenza erano all’ordine del giorno. Un piccolo quartiere a sé stante, da cui era meglio tenersi alla larga.
L’ispettore Luca Giatti sapeva che non era esattamente così, come del resto tutte le forze dell’ordine della città. Tuttavia era difficile far cambiare idea alle persone, specialmente quando era così radicata nella mente della collettività. E poi, non era certo compito suo.
Come l’idea, anche il nome era fuorviante, in quanto i grattacieli in realtà erano due. Due torri identiche alte circa ottanta metri, che sorgevano a ridosso della stazione ferroviaria, i cui colori predominanti erano il grigio delle strutture alternato al marrone dei balconi, il quale andava così a disegnare delle lunghe strisce verticali, intervallate di tanto in tanto dal bianco di numerose parabole. Le torri, costruite sul finire degli anni Cinquanta, nei loro venti piani di appartamenti avrebbero dovuto ospitare i figli di quella Ferrara bene che vivevano nel ricco centro storico della città, che le torri stesse dominavano dalla loro esclusiva altezza. In realtà, negli anni successivi si erano trasformate in un porto franco dell’ondata migratoria, prima dal sud Italia, per poi passare al Nord Africa, al Medio Oriente e all’Europa dell’Est.
Mentre Luca fermava l’Alfa nel grande parcheggio davanti al Grattacielo – già occupato da decine e decine di auto – rifletteva come a tutt’oggi nella cosiddetta “vergogna” di Ferrara vivessero almeno ventidue etnie diverse, anche se sapeva che in passato si era arrivati a sfiorare le trentacinque. Un mondo a sé stante, dove la convivenza era difficoltosa, e il confine con la legalità più sottile che in altri luoghi. Tuttavia, per quanto alle orecchie della cittadinanza potesse suonare strano, nel Grattacielo l’indice di criminalità, dallo spaccio alla violenza, era molto più basso rispetto ad altri punti caldi.
L’agente Claudio Vincenzi, seduto al suo fianco, stranamente sembrava condividere il pensiero cittadino. «Questo posto non mi è mai piaciuto», disse infatti.
Come non era la prima volta che si recavano lì, così non era la prima volta che Luca sentiva quella frase. Spense l’auto e si girò verso il collega. «Ti è mai successo niente qui?» lo pungolò.
«No, certo, ma in divisa, così…» Gesticolò con le mani davanti a sé. «… è come girare a Napoli su uno scooter in due indossando il casco.»
«Ti ricordo che non siamo noi i cattivi.»
«No, certo, ma… ha capito cosa voglio dire.»
«Se pensi di essere un bersaglio perché indossi la divisa», lo interruppe Luca, «non ti devi preoccupare. Anche se fossi venuto in borghese non sarebbe cambiato nulla, perché loro ti conoscono.» Nel sottolineare quella parola, abbozzò un leggero sorriso.
L’agente Vincenzi distolse lo sguardo. «Vabbe’ va…» disse poi. «Facciamo il nostro lavoro.»
La paura è quella cosa che ti aiuta a mantenerti in vita, pensò Luca, anche se non ricordava dove avesse sentito o letto quella frase.
Senza aggiungere altro scesero dall’auto.
In quella tiepida giornata primaverile, il profumo dell’erba appena tagliata del parco che circondava per tre quarti il Grattacielo contrastava con il fetore di alcuni bidoni che la nettezza urbana non aveva ancora svuotato. Incredibilmente, seppur così a ridosso della stazione ferroviaria, sembrava che quel luogo venisse tenuto come capolinea dell’itinerario che i netturbini seguivano ogni giorno.
Mentre si avvicinavano al blocco abitativo che univa le due torri – alto due piani nella parte frontale e otto nella parte posteriore – un paio di cinesi sfilarono indifferenti di fianco a loro.
«Hanno sempre l’aria di essere i padroni del mondo», commentò l’agente Vincenzi.
Luca non disse nulla, ma un lieve sorriso gli increspò le labbra, perché anche lui aveva avuto la stessa sensazione.
Mentre attraversavano il grande parcheggio un paio di donne salirono sulle rispettive auto e sfilarono via, non senza aver lanciato poco prima uno sguardo interrogativo nella loro direzione. A ridosso delle entrate delle torri, stavano ciondolando tre giovani senegalesi; parlavano nella loro lingua, ma senza perdere di vista i due poliziotti.
«Dobbiamo entrare nella torre B», gli ricordò l’agente Vincenzi, anche se Luca lo sapeva bene. Tuttavia non lo riprese, in quanto era convinto che Claudio avesse dato aria alla bocca solo per non rimanere in silenzio.
«Certo», gli rispose, e poi aggiunse: «Adesso occhi bene aperti. Chi ci doveva vedere ci ha sicuramente già visti.»
L’agente espirò rumorosamente dal naso, ma Luca fece finta di nulla.
Svoltarono quindi leggermente a destra, verso l’entrata della torre B. La conversazione incomprensibile dei tre ragazzi senegalesi si fece più nitida alle orecchie di Luca, e ora riuscì a cogliere alcune parole in francese e altre in inglese. Il senso generale però gli rimase sconosciuto.
Uno dei tre gli rivolse direttamente la parola: «Qui no problemi, capo.»
«Lo so, lo so», rispose subito l’ispettore senza fermarsi. Non conosceva quel ragazzo, anche se gli altri due li aveva già visti scorrazzare con altre piccole bande… non solo, perché ora che li aveva inquadrati meglio, gli balzò alla mente uno dei suoi primi arresti per spaccio. I due, infatti, dovevano essere molto più vecchi di quanto non sembrassero a una prima occhiata. E ora erano lì, non certo per raccontarsela. «Oggi abbiamo voglia di parlare con dei vostri amici rumeni…» aggiunse, lasciando appositamente la frase in sospeso.
«No, no, no, capo. Loro no nostri amici, loro…» e agitò le dita di una mano vicino al collo nel gesto inequivocabile di voler tagliare il discorso o qualcos’altro.
L’agente Vincenzi, allungando leggermente il passo forse per non entrare in quello scambio di battute, aveva già raggiunto la sfilza di campanelli dello stabile. Poi si girò verso l’ingresso. «Il portone è aperto, ispetto’.»
«Tanto meglio», disse Luca, affiancandolo e lasciando i senegalesi alle loro questioni. «Non dobbiamo nemmeno chiedere permesso», concluse e questa volta fu lui ad avanzare, spalancando il portone socchiuso ed entrando nella torre B del Grattacielo.
Immediatamente le sue narici furono aggredite da intensi odori speziati che sembravano quasi trasudare dai muri.
«Azz… ma che è? Siamo entrati in una cucina?» esclamò l’agente Vincenzi, portandosi due dita a chiudersi il naso.
«Sì», ammise Luca. «In una cucina cinese, indiana, africana e chissà che altro.» Anche lui aveva avuto il desiderio di portarsi due dita al naso, ma aveva desistito, avanzando deciso nell’androne e pigiando il tasto per chiamare l’ascensore. Poi cominciò a guardarsi in giro.
«Ma che sta cercando, ispetto’?» gli chiese Vincenzi raggiungendolo.
Luca si allungò verso la parete di sinistra e, sentendo gli occhi di Claudio su di sé, raccolse un posacenere cilindrico alto circa un metro. Tornò quindi davanti alle porte dell’ascensore. Quando queste si aprirono con un cigolio, l’agente fece per entrare.
«Aspetta», lo fermò Luca, posando il posacenere in mezzo alle porte. «Forza, non abbiamo molto tempo», continuò, indicando la tromba delle scale con un cenno del capo.
«Mi sembrava troppo bello per essere vero», commentò Vincenzi. «E se arriva qualcuno e sposta il posacenere?»
«Appunto», lo spronò Luca, passandogli davanti e cominciando a salire i gradini.
L’agente lo seguì di corsa senza aggiungere nulla. Alle loro spalle, sempre più attutito, giungeva il gemito delle porte dell’ascensore che si interrompeva con un lieve tonfo metallico, per poi ricominciare daccapo.
A ogni piano che raggiungevano, i profumi e gli odori di cibo si mescolavano tra loro, anche se in buona parte sembravano diminuire di intensità; o forse era il loro cervello che li stava attenuando per evitare un sovraccarico.
«Immagino la puzza che avranno la mia divisa e i suoi vestiti, ispetto’, quando usciremo di qui», disse Vincenzi con il fiato un po’ pesante.
«Fai finta di essere andato a pranzo al cinese», rispose Luca, sentendo anche lui nella voce l’affaticamento di quella lunga salita. «Adesso, però, silenzio.»
Erano giunti già al quarto piano quando alle loro orecchie giunse il pianto di un bambino, mescolato ad alcune urla in una lingua sconosciuta. Luca si fermò un attimo e, mentre osservava l’intonaco del muro dipinto di chiaro scrostato in più punti, ripensò a quante volte aveva cercato di consolare Matteo quando, ancora molto piccolo, piangeva disperato e lui e Claudia non sapevano cosa fare.
Gridare non è mai la soluzione, gli aveva detto una volta suo padre. E così stava cercando di fare lui con suo figlio.
«Tutto bene?» gli chiese Vincenzi.
Luca tornò subito presente. Si portò l’indice destro a sigillare le labbra, poi con la mano fece cenno a Vincenzi di proseguire. Abbandonato il pianerottolo, si infilarono nel corridoio dove, su entrambi i lati, si susseguivano le porte dei vari appartamenti. I suoi occhi furono subito catturati da vari ninnoli appesi agli stipiti che volevano comunicare le origini della famiglia che viveva dall’altra parte.
Una porta davanti a loro si spalancò e ne uscì un ragazzo dai capelli scuri, quasi rasati, e magro come un chiodo. Tutti e tre si guardarono per un tempo che sembrò infinito. L’iniziale stupore dipinto sul volto del ragazzo cambiò nella frazione di un secondo, e lui sorrise in modo esagerato, mostrando una bocca a cui mancava un incisivo e altri denti.
«Non ho problemi qui», disse il rumeno.
«Nessuno di voi ha problemi, oggi», fu la pronta risposta di Luca. «Tu sei Piotr Lusescu?»
Ci fu un attimo di esitazione, in cui Luca notò l’occhiata fugace ma inequivocabile del ragazzo verso la pistola d’ordinanza dell’agente Vincenzi.
«Non facciamo i furbi, eh?» intervenne Claudio, portandosi una mano alla fondina.
«Ehi, ehi, ehi, sono io, sì, okay?» Piotr rise, agitando le mani aperte davanti a sé. Poi, del tutto inaspettatamente, scattò in avanti come una molla, correndo verso di loro.