L’ispettore Luca Giatti stava guidando verso la questura. Di tanto in tanto si massaggiava la spalla destra, dove aveva ricevuto il colpo da Piotr Lusescu nel tentativo, riuscito, di placcaggio. Chissà cosa si credeva di fare mettendosi a correre verso di loro nel corridoio del quarto piano del Grattacielo. Intimidirli? Be’, forse con Claudio un po’ ci era riuscito: l’agente era rimasto impacciato con una mano sulla fondina della pistola, gridando «Fermo o sparo! Fermo o sparo!», mentre il rumeno correva loro incontro, ma in fin dei conti non aveva fatto proprio nulla (e di questo ne avrebbe dovuto parlare a tempo debito con il suo sottoposto). Agli occhi di Luca, l’intenzione del Lusescu era chiara: sfondare il muro degli sbirri e scappare giù per le scale, ma il ragazzo non aveva fatto i conti con quei due anni di rugby che Luca aveva praticato da giovane (esattamente dopo un anno di calcio, per poi passare a due anni di nuoto… per poi mollare tutto). Così, in una frazione di secondo, si era messo in posizione con le gambe ben larghe e, a testa bassa, aveva caricato a sua volta, affondando la spalla destra nello stomaco del Piotr, il quale dopo il forte impatto aveva liberato i polmoni in un singulto, volando letteralmente per un paio di metri all’indietro. A quel punto l’agente Vincenzi doveva essersi riscosso, perché se lo era visto sfilare di fianco e – imprecando – raggiungere il rumeno a terra per poi ammanettarlo.
Con il trambusto che avevano fatto, il bambino che avevano sentito piangere poco prima si era stranamente zittito (o forse erano stati i suoi genitori a riuscire nell’intento, curiosi di ascoltare ciò che accadeva fuori dalla porta), e tuttavia nessun’altra testa era comparsa nel corridoio.
E ora, nell’abitacolo dell’Alfa, Luca lanciava delle continue occhiate nello specchietto retrovisore. Con la radio, l’agente Vincenzi aveva già avvertito la questura dell’accaduto, del fermo dell’indagato e del loro arrivo.
«Io non ho ammazzato», disse il rumeno.
Luca guardò ancora la sua immagine riflessa. Il ragazzo sudava copiosamente e, oltre alla puzza di sudore che stava riempiendo l’auto, quando lo avevano caricato l’ispettore aveva avvertito anche l’alito rancido da super alcolici. Con il volto molto serio, guardava fuori dal finestrino.
«E come facevi ad avere il suo bancomat?» chiese Luca.
Nello stesso momento sentì gli occhi dell’agente Vincenzi su di sé. Lui continuò a guidare senza batter ciglio, ma poteva immaginare cosa frullasse nella testa del suo sottoposto: qualsiasi risposta il rumeno avesse dato loro su quell’auto sarebbe valsa quanto carta straccia in tribunale. E tuttavia anche Luca aveva un’idea che gli frullava in testa.
«Allora?» lo incalzò quasi subito, alzando gli occhi allo specchietto. «Ti sei comprato un bel paio di scarpe nuove con il suo bancomat, non è vero?»
«Regalo», rispose Piotr, lo sguardo ancora perso al di là del vetro.
Nell’incrocio che avevano appena superato, Luca avrebbe dovuto girare a destra per raggiungere la questura, ma aveva bisogno di un po’ più di tempo.
«Che vuol dire regalo?» intervenne l’agente Vincenzi. Evidentemente aveva capito le intenzioni del suo capo.
«Amico mi ha regalato carta», disse Piotr e con una spalla cercò di asciugarsi il sudore che gli era scivolato su una guancia. «Potete liberare mie mani? Tanto caldo qui dietro.»
«Siamo quasi arrivati», mentì Luca. «Che vuoi dire? La carta non l’hai presa da…»
«No, ti ho detto, amico mi ha fatto regalo, io non so nulla del vecchio», lo interruppe il rumeno.
«Noi non ti abbiamo parlato di un vecchio», disse Luca con molta calma.
Questa volta Piotr girò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore, l’espressione più corrucciata che sorpresa. «Tutti sanno del vecchio che non c’è più», si affrettò a dire. «Tutti i giornali parlano e televisione.»
«Sì, immagino il ragazzo che legge il quotidiano seduto al bar», commentò sottovoce l’agente Vincenzi, senza mascherare un certo sarcasmo.
Luca cercò di non perdere il momento. «Piotr», lo chiamò all’attenzione senza considerare la battuta di Vincenzi. Il rumeno si era di nuovo girato verso il finestrino. «Un conto è andare in casa delle persone e rubare, un altro ammazzare i vecchietti.»
«Non c’è morto, non ho ammazzato nessuno», rispose il ragazzo senza girarsi.
«Lo sai cosa succede in carcere…»
«Non ho ammazzato nessuno», ripeté Piotr come un disco rotto.
«In carcere non ci sono donne, e i giovani come te diventano le donne di quegli uomini che sono lì da tanto tempo che…»
«Basta!» lo interruppe Piotr. «Ho detto che non c’è morto! Vecchio vivo quando siamo andati…» Il rumeno lasciò la frase incompiuta. Si era girato verso lo specchietto, gli occhi spalancati, e ora stava diventando tutto rosso.
Luca non perse quell’ulteriore aggancio. Vide con la coda dell’occhio che anche l’agente Vincenzi stava per intervenire, ma lui fu più veloce. «Bene, perfetto, non è morto. Da dov’è che siete andati via?»
Ma il rumeno si era chiuso in un muro di silenzio.
«Forza, Piotr!» lo incalzò l’ispettore. «Sai cosa succede se quell’uomo muore?»
«Dovrai starci molto tempo in carcere, ragazzo», intervenne l’agente Vincenzi. «Con le spalle ben attaccate al muro», aggiunse con un mezzo sorriso sotto al pizzetto.
«In quanti eravate?» chiese Luca, continuando a girare in tondo vicino al Castello Estense. «Due, tre, quattro? Lo avete riempito di botte? Che fine ha fatto la sua auto?»
Mentre continuava a tempestarlo di domande, Luca osservava il rumeno nello specchietto retrovisore agitarsi sempre più sul sedile, come se avesse delle spine nel sedere. Rivoli di sudore gli colavano copiosi dalle tempie e dalla fronte.
«È stato Costantin!» sbottò alla fine Piotr, puntando gli occhi infiammati di rabbia nello specchietto. «È stato Costantin a dare pugni! Io avevo legato il vecchio e basta!»
«Bene, lo avete picchiato, lo avete legato, lo avete caricato sulla sua macchina e dove lo avete portato?» Luca attese qualche secondo. «Lo avete gettato in un canale?» aggiunse, anche se sapeva che era improbabile, in quanto le ricerche attorno all’abitazione del Manfredi nei numerosi canali di irrigazione avevano dato esito negativo.
Un’altra sbirciata nello specchietto retrovisore confermò a Luca che stava per fare breccia nella coscienza del rumeno. Una lacrima gli stava scendendo sul viso assieme al sudore.
Decise quindi di addolcire la voce. «Piotr, se non hai picchiato il signor Manfredi, la tua posizione è molto diversa da quella del tuo amico Costantin.»
«Costantin no amico mio… e anche Rafael no amico mio!»
Ecco che spunta il terzo, pensò Luca. E l’amicizia va a farsi fottere.
«Io avevo detto di non picchiare, ma quando andati via vecchio era ancora vivo», continuò il rumeno. Ora sembrava un fiume in piena. «Io volevo solo soldi, no fare male.»
Adesso Piotr stava proprio piangendo come un bambino. Luca non sapeva se stesse dicendo tutta la verità. Sicuramente voleva prendere le distanze in qualche modo dagli altri.
Con la coda dell’occhio vide una maschera di rabbia disegnarsi sul volto dell’agente Vincenzi, e poteva ben immaginare il motivo. Soprattutto perché in quel momento aveva pensato alla debolezza degli ultimi giorni di vita di suo padre e anche se il Manfredi non era un malato terminale, era comunque una persona anziana, debole, che non aveva fatto nulla per meritare un trattamento del genere. Tuttavia il ragazzo ora era dalla loro parte e non poteva cedere a quei sentimentalismi.
«Portaci dal signor Manfredi, Piotr, e vedrai che il giudice capirà le tue buone intenzioni.»
Il viso del ragazzo nello specchietto era proprio quello di un ragazzino smarrito e terrorizzato, e se una parte di lui avrebbe voluto prenderlo a schiaffoni, un’altra non poteva che rimanerne rattristata.
«Andiamo in via Comacchio», balbettò Piotr. «C’è una casa… una stala… abbandonata…»
Luca pigiò sul pedale dell’acceleratore, lanciando al contempo un’occhiata inequivocabile a Vincenzi, il quale prese la radio e comunicò la loro nuova destinazione e di tenersi pronti a far intervenire un’ambulanza.