Era una giornata di inizio giugno. Eppure alle 11:30 del mattino il sole picchiava forte come se fosse pieno luglio. Appena scesi dall’auto, Luca si ritrovò a detergersi la fronte con un fazzoletto.
«Forse dovremmo aspettare i rinforzi, ispetto’», affermò l’agente Vincenzi, affiancandolo.
Avevano lasciato Piotr ammanettato sull’Alfa. Per il momento non avevano più bisogno di lui. Aveva dato loro le indicazioni per raggiungere quella strada sterrata alla periferia di Ferrara. Seguendola, erano arrivati a quella che sembrava una vecchia stalla abbandonata che sorgeva ora proprio di fronte a loro. Due grandi e vecchi pioppi proiettavano un’ombra sinistra sul grande portone spalancato della costruzione. Tutt’attorno, ettari ed ettari di frumento che proprio in quei giorni si stava tingendo dell’oro delle spighe in maturazione.
«Non ce n’è il tempo», rispose Luca, avanzando su un terreno cosparso di sassi e piccoli mattoni sbriciolati. Una lieve brezza gli portò alle narici il profumo di terra e polvere. Era già passata una settimana da quando il signor Manfredi era scomparso e, se già da allora lo avevano abbandonato lì dentro, sapeva bene che non ci sarebbe stato più nulla da fare. Eppure una parte di sé rimaneva aggrappata a una piccola speranza.
A pochi metri dal portone della stalla, spirò un’altra folata di vento sul suo viso – questa volta più forte – che gli asciugò il sudore sulla fronte e, cosa ben peggiore, gli portò al naso le prime avvisaglie di un fetore ben riconoscibile. Luca avvertì una stretta allo stomaco. Scattò in avanti, superando gli ultimi metri quasi di corsa. Quando varcò l’antro semibuio, sentì dietro di sé l’agente Vincenzi che si affannava per raggiungerlo.
La prima cosa che vide fu una vecchia Volvo scura parcheggiata in una rientranza ad angolo della struttura, impossibile quindi da vedere dall’esterno. Venne quindi assalito dall’odore dolciastro e pungente della decomposizione che, seppur in uno spazio così ampio e ben areato, ristagnava con forza. Luca si portò una mano a coprire naso e bocca e raggiunse la vettura. Proprio davanti a essa, era rannicchiato a terra un corpo immobile, in posizione fetale. Luca ne poteva vedere la schiena, le mani legate con delle fascette nere di plastica. Indossava un pigiama azzurro di cotone. Avanzò ancora, fino a portarsi a ridosso del corpo, ma tenendosi tuttavia a un buon metro di distanza per non inquinare troppo la scena del delitto. Vi girò attorno e, cercando di trattenere il più possibile il respiro, si accovacciò. Gli occhi privi di vita del signor Manfredi erano spalancati. La bocca chiusa dal nastro da imballaggi. Alcune tumefazioni scure risaltavano sul viso cereo.
Luca allungò lo sguardo ai piedi scalzi e sporchi del cadavere, e poi più indietro, dove risaltava una strisciata sul terreno cosparso di alcune manciate di paglia.
«Lo hanno quasi ammazzato di botte», disse Luca alzandosi in piedi. «E poi lo hanno lasciato qui. Da solo. A morire.»
Scandì quelle ultime parole con molta lentezza. L’agente Vincenzi, a un paio di metri di distanza, era immobile davanti a lui, in silenzio; un fazzoletto premuto sul viso.
Luca si sentì attraversare da sentimenti contrastanti. Non poté che ripensare a suo padre, agli ultimi istanti della sua vita, nei quali, seppur terribili, non aveva dovuto sopportare un dolore e un’umiliazione del genere. E tutto questo per cosa? Qualche centinaio d’euro e un paio di scarpe nuove? E uno dei responsabili era ora seduto sulla loro auto, ed era solo un ragazzino.
Se disprezza così la vita adesso, pensò, che razza di uomo sarà a quarant’anni?
Tu sei solo un ispettore di polizia, lo redarguì la voce di suo padre. Non la coscienza delle persone. Fai il tuo dovere!
E quando era stato che suo padre gli aveva detto una cosa del genere?
In lontananza, la sirena dell’ambulanza sembrò emergere dal nulla, aumentando presto di intensità.
Luca si portò una mano alla fronte con l’intenzione di farsi il segno della croce, ma desistette. Distese invece le dita, passando i polpastrelli sulla pelle per togliere alcune goccioline di sudore.
Si rialzò quindi in piedi. «Qui non c’è più nulla da fare», disse riscuotendosi. Non sapeva se l’agente avesse notato il suo strano atteggiamento, ma non gliene importava. «Forza, Claudio. Torna dall’indagato mentre io aspetto i sanitari qui dentro.»
L’agente Vincenzi rimase qualche secondo lì impalato. Sembrava che volesse dirgli qualcosa, ma poi girò sui tacchi e uscì dalla stalla.
Luca lo guardò andarsene: sì, forse aveva visto quella sua incertezza. Forse un giorno gliene avrebbe parlato… o forse no. In fondo, cosa sarebbe importato a Claudio del suo atteggiamento profondamente cristiano di un tempo, esauritosi per quanto era accaduto a suo padre?
Farsi il segno della croce di fronte alla morte era diventato un gesto automatico. Ma sapeva bene che la fede non era questo. Era qualcosa che andava coltivato, giorno per giorno, anche se talvolta – o forse troppo spesso – non c’erano frutti da raccogliere, ma solo erbacce da estirpare.
Come un monito, i suoi occhi furono rapiti da un crocefisso appeso in alto, sopra l’ingresso della stalla.
Sentì mille domande del passato affollargli la mente, ma le scacciò via. Ora aveva un compito da svolgere.
Si girò e indietreggiò senza dare le spalle al cadavere. Si avvicinò alla Volvo. Senza toccare nulla cominciò a osservarla. I finestrini anteriori erano entrambi abbassati quasi del tutto. C’erano alcune rigature nel paraurti e una piccola ammaccatura nella portiera posteriore destra. Ma tutti quei segni poteva averli procurati lo stesso Manfredi. Vicino alla serratura del bagagliaio c’erano delle evidenti tracce di sangue. Non mancava nulla ed era tutto estremamente chiaro. Uno dei rumeni aveva già confessato (sarebbe bastato formalizzare il tutto davanti al PM o con un interrogatorio delegato), e presto quel ragazzo, Piotr, li avrebbe condotti anche dagli altri due… e allora perché aveva la sensazione che non fosse finita lì?
La sirena dell’ambulanza si spense davanti al portone della stalla. Luca, d’istinto, si allontanò ancora di più dall’auto, anche se già sapeva che gli avrebbero tirato le orecchie per aver in parte contaminato la scena del delitto. Ecco, forse era solo per quella semplice ragione che l’agente Vincenzi lo aveva guardato in modo strano, tenendosi a debita distanza, ma a causa del rispetto che provava per lui – o forse solo per soggezione nei suoi confronti – non si era azzardato a riprenderlo.
Lanciò un’ultima occhiata al corpo di Manfredi. Gli sarebbe piaciuto pensare che adesso le sue spoglie terrene avrebbero avuto la giusta sepoltura, ma non era così. In realtà avrebbero dovuto passare ancora sotto i ferri dell’autopsia, attendere gli esiti di numerosi esami e poi finalmente sarebbero state riconsegnate agli affetti dei suoi cari.
Mentre le prime voci dei sanitari si rincorrevano nella stalla, Luca si rammaricò di non essere riuscito a fare di più per quell’uomo. Un anziano, che per pochi spiccioli era stato pestato a sangue, caricato come un sacco di stracci nel baule della sua auto, per poi morire nella solitudine.