La mano di Luca scivola sulla superficie ruvida del muretto di cemento. Ne osserva il colore scuro, punteggiato da quelli che sembrano dei sassolini chiari incastonati casualmente come piccole pietre preziose.
«Ora guarda sotto il bordo», gli dice una voce da dietro.
Lui si gira, e suo padre è lì in piedi che gli sorride. Si aspetterebbe di avvertire un tuffo al cuore nel rivederlo, ma non è così, perché in quel sogno Luca sa che suo padre è vivo.
La consapevolezza di essere in un mondo onirico gli fa temere per un attimo che tutto si dissolva subito, ma questa volta non accade. Poco più alto di lui, i capelli ormai tutti bianchi e sempre sorridente, Carlo Giatti gli sta indicando qualcosa. Luca non vuole girarsi, perché non vuole perderlo di vista. Allora allunga una mano sotto il bordo. Avverte la stessa ruvidezza di prima, e poi qualcosa di morbido che quasi gli solletica le dita. Ora non può evitare di girarsi, perché la sua curiosità
(di bambino)
ha la meglio su di lui.
«Adesso cerca di staccarlo piano piano.»
Solo in quel momento Luca si rende conto di essere tornato bambino, perché i suoi occhi riescono a guardare appena al di sopra del basso muretto che lo separa dalle sponde del Po. Con la punta delle dita sta cercando di staccare dei grossi pezzi di muschio verde, con cui lui e suo padre andranno ad allestire il presepe.
Ma se io sono un bambino, perché mio papà è così vecchio? pensa mentre già si vede sotto l’albero di Natale a scartare i regali.
Però il pensiero del Natale invece di infonderli felicità gli mette tristezza, e non capisce perché.
«Ecco, mettilo qui dentro», gli dice suo padre, porgendogli un secchiello giallo di plastica
(lo stesso con cui giocava al mare)
(lo stesso in cui metteva i vermi per andare a pescare)
da cui sporge qualcosa di bianco.
Luca si ritrova tra le mani un grosso pezzo di muschio dalla forma allungata e stretta. Si gira con molta attenzione per cercare di non romperlo, ma suo papà non c’è più e il secchiello giallo è a terra. Si aspetta che al suo interno vi siano degli altri pezzi di muschio, ma quando si sporge per guardare meglio si rende conto che c’è solo quella cosa bianca. Si tratta di una busta. Tra le mani non stringe più nulla, allora le allunga davanti a sé, e ciò che vede non sono più le piccole dita di un bambino ma quelle di un adulto, del suo essere adulto.
Piangerai quando leggerai quella lettera, gli dice una vocina, ma lui non l’ascolta perché crede che si tratti ancora di quel bambino che era.
Non appena tocca la busta non si trova più all’aria aperta, vicino alla sponda del Po, ma nello studio di casa sua. Su un lato della grande libreria è allestito l’albero di Natale con tutte le lucine intermittenti che illuminano di svariati colori la lettera che stringe tra le mani.
Adesso ricorda cosa c’è scritto, ne ha la consapevolezza. Se non fosse già seduto, le sue gambe non lo avrebbero retto, facendolo stramazzare a terra.
Con una mano si tocca il viso, e, oltre alla peluria ispida della barba, avverte le lacrime che gli scorrono sulle guance.
«Tutto accade per una ragione», gli dice suo padre.
«Non è vero», si sente rispondere subito con voce rotta. Luca alza lo sguardo e Carlo è fermo in piedi sulla soglia della stanza. Indossa pantaloni e maglione beige sopra una camicia bianca.
Sorride. «Dovevo andare a comprare delle scarpe nuove, ma tua madre mi ha detto che quelle che ho vanno bene.»
«Papà, la mamma non c’è più», gli risponde sconfortato Luca.
Carlo sembra non udirlo. Ora ha lo sguardo perso nel vuoto, smarrito. «Poi mi ha detto un’altra cosa, ma non la ricordo… forse dovevo andare in bagno?»
Vicino ai piedi di suo padre si sta allargando una pozzanghera di urina, e poco più indietro quella che sembra una strisciata di feci. Eppure indossa ancora i pantaloni.
Luca avverte la lettera fremere tra le sue mani, come se fosse animata. Abbassa lo sguardo e la carta non è più sottile, ha acquistato spessore, pulsa, si sta gonfiando al centro. È diventata calda, anzi, quasi scotta. Luca la lascia andare, ma quella strana cosa non cade a terra, rimane sospesa a mezz’aria. E continua a crescere. E non è più bianca, ma rosa. Il rosa diventa più scuro. È quasi rosso. Alle narici gli arriva la puzza di urina e di disinfettante. Cerca di distogliere lo sguardo da quella cosa, perché quella cosa è… quella cosa è…
Ma quella cosa non gli dà il tempo di pensare all’orribile parola che la identifica, perché esplode con un rumore secco, producendo migliaia di piccoli pezzettini di carta bianca che gli volano davanti agli occhi come coriandoli. Con una manata li scaccia via, rendendosi conto di non trovarsi più nel suo studio, ma nel corridoio di un ospedale.
In fondo ci sono tre dottori che stanno discutendo, mostrandosi l’un l’altro dei documenti.
Anche se non vorrebbe, Luca si avvicina, e loro alzano lo sguardo verso di lui.
Aprono la bocca per sentenziare in coro il male che sta divorando suo padre.
«Stanno morendo uno dopo l’altro», dicono.
Luca non capisce a chi o cosa si riferiscano. Avrebbero dovuto dire un’altra cosa, perché Luca sa che ogni volta che li vede dicono quella cosa. Delle ombre compaiono tra lui e i dottori, e allora capisce. Sono cinque piccole ombre, che assumono i contorni sfocati di altrettanti bambini. Cominciano a crescere, crescere, crescere. Ora sono talmente grandi da riempire quello spazio fino al soffitto.
Devo salvarli, pensa. Anche se sa già che non può fare più nulla, corre verso di loro. Ma proprio in quel momento si afflosciano, disintegrandosi in un’immensa nuvola di polvere bianca. Luca vi finisce dentro e viene investito dal freddo e dal profumo di incenso. Non vede che bianco, ma è solo un attimo, perché sbuca quasi subito dall’altra parte.
E questa volta il cuore gli si ferma veramente in gola, perché non si trova più in un corridoio d’ospedale, ma in una fredda camera ardente e davanti a lui c’è Matteo, in piedi di fianco a una bara aperta.
«Che ci fai qui?» gli chiede con il fiatone. «Dovresti essere a casa con la mamma.»
«Sono venuto a trovare il nonno», gli risponde il bambino con la sua voce squillante.
Luca fa un passo avanti e guarda nella cassa, dove suo padre Carlo sembra stia dormendo serenamente. Non è vestito con l’elegante abito blu, ma con il maglione e i pantaloni beige di poco prima. Le mani sono incrociate sulla pancia e stringono un crocefisso di ferro.
Luca torna a guardare il figlio, che gli sta sorridendo.
«No, tu non dovresti essere qui», gli dice ancora Luca. «E poi… e poi tu hai sei anni e quando il nonno è morto ne avevi quattro.»
Matteo continua a sorridere senza dire nulla. Sostiene lo sguardo del padre per qualche secondo, poi il sorriso svanisce e il labbro inferiore comincia a tremolare.
«Non te la prendere con il bambino», gli dice Carlo dalla bara.
Anche in questo caso Luca non prova nessuna sorpresa. Si gira verso suo padre. L’unica sorpresa che prova è che…
«… Matteo non dovrebbe stare qui», ripete anche a lui.
Carlo è ancora immobile nella cassa, ma ha gli occhi aperti. «Tu sei solo un ispettore di polizia.»
«Lo so», gli risponde subito, anche se sa già dove suo padre vuole andare a parare. Allo stesso tempo avverte che qualcosa è cambiato: sente che suo figlio Matteo non è più lì, e questo gli toglie un peso dal cuore, ma allo stesso tempo c’è un’altra persona. Si gira, e Piotr Lusescu è lì accanto alla bara. Lo guarda con aria di strafottenza.
«Tu sei solo un ispettore di polizia», gli ripete suo padre. Ora si è addirittura messo a sedere. «Non sei la coscienza delle persone. Perciò, fai il tuo dovere!»
Il ragazzo rumeno si mette a ridere, prima sommessamente e poi sempre più forte, in modo sguaiato; si piega addirittura in due con le mani sullo stomaco.
La stanza comincia a vorticare attorno a Luca. Per un attimo vede che la bara adesso è vuota. Anche Piotr Lusescu non c’è più, ma la sua risata continua a riecheggiargli nelle orecchie. Mentre Luca avverte un senso di nausea afferrargli lo stomaco, nella camera ardente compaiono le cinque piccole ombre che girano in tondo con lui. Poi la stanza si blocca di colpo, e dietro alla cassa dove poco prima c’era suo padre compare un’ombra più grande. Ha le fattezze sfocate di un uomo. Allunga quelle che sembrano delle lunghe braccia sopra alle piccole apparizioni fumose che gli stanno davanti. Poi soltanto una cosa diventa nitida alla sua vista: la sagoma di quel mostro regge in mano una pistola.
* * *
Luca si svegliò di colpo, spalancando gli occhi nel buio. Per alcuni secondi un forte senso di estraneità lo avvolse. Nelle orecchie gli risuonava la risata beffarda di Lusescu, e davanti agli occhi rivedeva ancora la pistola che reggeva non un mostro, ma il Mostro. Una Beretta calibro .22.
Chi sei? pensò. Perché uccidi i bambini? Cosa ti hanno fatto di male?
Le parole di suo padre gli tornarono immediatamente alla mente. Non sei la loro coscienza. Fai il tuo dovere!
Sì, papà, hai ragione, ma devo capire cosa frulla nella testa di quel pazzo per catturarlo!
Questo pensiero fu talmente potente nella sua mente che con una mano cominciò a stringere con forza le lenzuola.
Claudia, di fianco a lui, si agitò nel sonno. Luca fece un respiro profondo, cercando di tranquillizzarsi. Scostò con delicatezza la coperta da sé e si drizzò a sedere, mettendo i piedi fuori dal letto. Attese qualche secondo. La camera non era del tutto al buio. Le luci dei lampioni in strada disegnavano i contorni del comò e della porta. Si alzò in piedi, sentendo il sudore raffreddargli la pelle intorno al collo. A tentoni e con molta circospezione si diresse nella cameretta di Matteo. Anche lì una lieve luminescenza filtrava attraverso gli scuri della finestra non completamente chiusi. Nella penombra risaltava il pelo bianco di Buc, che al suo ingresso alzò la testa. Luca si inginocchiò accanto al cane, gli accarezzò il muso e in quella posizione si mise a osservare suo figlio.
Matteo era girato su un fianco, proprio verso di lui. Non riusciva a vedere bene i suoi lineamenti, ma soltanto che era coperto e che stava dormendo con la bocca spalancata.
Fu in quel momento che gli venne per la prima volta un pensiero che non lo avrebbe più abbandonato.
Cosa saresti in grado di fare se succedesse qualcosa a Matteo?
Sono un ispettore di polizia, si rispose. Anzi, forse era suo padre che continuava a ripeterglielo nella mente. Già, suo padre. Ripensò ad alcuni frammenti dello strano sogno che aveva fatto, a come tutto si era mescolato nella sua testa. Rivide lo sguardo smarrito di Carlo… strizzò con forza gli occhi e cercò di allontanare quei pensieri.
Si avvicinò a Matteo e lo baciò su una guancia. Il piccolo richiuse soltanto la bocca e continuò a dormire serenamente.
Luca accarezzò ancora una volta il cane, si alzò in piedi e, mentre usciva dalla stanza, gli tornò in mente un altro pensiero.
Cosa c’è di più prezioso di un figlio?