Il Mostro apre e chiude la mano destra con cui ha sparato, facendo scricchiolare la pelle nera del guanto. Non ha dei crampi, non sente male. Avverte solo un indolenzimento, come se avesse sollevato dei pesi per un numero eccessivo di ore. O forse crede che sia indolenzita, perché in quel lungo momento appena trascorso in realtà la sua mano si è trasformata nella mano di Dio, e tramite essa ha purificato il mondo da un’altra presenza del Maligno. E quale essere umano può sostenere il peso di Dio? Per un attimo crede anche di avvertire un lieve profumo di incenso sotto a quello più pungente della polvere da sparo.
«Grazie, Signore, per avermi dato la forza. La Tua volontà si è compiuta ancora», dice il Mostro segnandosi con la destra mentre con la sinistra regge la Beretta. «Sorga Dio, i suoi nemici si disperdano», comincia a recitare. «E fuggano davanti a Lui quelli che lo odiano. Come si disperde il fumo, Tu li disperdi, come fonde la cera di fronte al fuoco, periscano gli empi davanti a Dio.»
Ripone la pistola a terra, lontano dal corpo e dalla pozza di sangue che si sta allargando vicino alla testa della sua ultima purificazione.
Congiunge le mani davanti a sé. «Dio del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, il cui regno non avrà fine, umilmente Ti supplico di voler liberare questo corpo da ogni tirannia, laccio, inganno e infestazione degli spiriti infernali, e di mantenerlo sempre incolume. Per Cristo nostro Signore. Amen.»
Con il pollice della mano destra segna una piccola croce sulla fronte del bambino. Alcuni schizzi di sangue sono andati a macchiare la cresta bionda lievemente scomposta. Gli occhi sono chiusi e una parte del Mostro è grata di questo. In un’altra occasione, per tutto il tempo delle sue preghiere, gli occhi di un’altra purificazione – dietro ai quali il Maligno lo aveva sbeffeggiato fino a un momento prima – lo avevano osservato come se in essi risiedesse ancora la vita. E solo grazie alla forza che – ne era sicuro – Dio gli aveva dato in quel momento, era riuscito a portare a termine la sua missione.
In ginocchio accanto a quel corpo che andava raffreddandosi, prega per la sua anima. «Ora, Signore, ricordatevi di me e guardatemi. Non punitemi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri.»
E poi prega per sé, per congiungersi a Lui, nella speranza che questa volta abbia davvero sconfitto il Maligno.
«Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen.»
Si segna ancora. Quindi fa un profondo respiro, raccoglie la Beretta e si alza in piedi. Avverte un lieve capogiro, ma di sicuro è dovuto solo alla stanchezza e alla forte tensione del momento. Si guarda attorno. Le ombre si stanno allungando. È tardi, è quasi sera. La luce del sole entra di traverso dalla porta e dalle finestre aperte di quella casa abbandonata che ha nascosto lui e il Maligno da occhi indiscreti.
Questa volta forse è davvero finita, pensa il Mostro guardando il bambino immobile steso a terra. La pelle del viso è diventata bianca, gli occhi sembrano essersi già infossati, così come le guance.
Era solo un bambino, gli dice una vocina dalla stanza segreta dentro la sua testa.
Non era solo un bambino, si risponde con poca convinzione.
Poi guarda la Beretta che stringe tra le dita. Con le mani coperte dai guanti neri non ne avverte il freddo contatto. Se la porta davanti al viso, la gira da una parte e dall’altra. Poi se la punta in faccia. Il foro nero della canna sembra invitarlo.
Un lungo brivido gli attraversa la schiena.
«Forse adesso posso…» comincia a dire, ma un movimento alla sua destra gli blocca le parole in gola. Si gira in quella direzione, puntando l’arma con entrambe le mani in un angolo della stanza. I muri sono scrostati, alcuni calcinacci giacciono a terra alla rinfusa. Non si alza un filo di polvere.
Il Mostro compie un giro su se stesso, lentamente, ma non c’è nessuno. Poi, proprio mentre sta riportando l’attenzione sul bambino, qualcosa sembra scivolare fuori dall’ingresso davanti a lui.
Alza lo sguardo e per una frazione di secondo gli sembra di scorgere l’ombra di una coda biforcuta sgusciare fuori dalla casa diroccata.
No, non è vero che crede di averla vista, lui l’ha vista, ne è certo.
Questo vuol dire che… pensa, sentendo un nodo aggrovigliargli lo stomaco.
Scavalca il cadavere e in tre lunghe falcate è già fuori dalla casa, la pistola spianata in cerca di un bersaglio. Ci sono diversi alberi che circondano la costruzione, le cui ombre si allungano verso di lui. Il sole è ancora più basso nel cielo.
«Questo vuol dire che non è ancora finita», dice in un sussurro, concludendo il pensiero che ha avuto pochi secondi prima.
Continua a guardarsi attorno, nella speranza di cogliere qualche movimento.
Non vede nessuno, ma si sente osservato. Si alza una lieve brezza che fa muovere le foglie… ed eccola, confusa con quel fruscio – ma non può sbagliarsi – una risata.
Una sottile risata di scherno.
Il Maligno, l’Ombra tra le ombre, si sta prendendo gioco di lui.
La porta della stanza segreta dentro la sua testa si è spalancata.
Hai spezzato un’altra vita! urla una voce talmente forte dentro di lui che crede provenga dalla casa abbandonata dietro di sé. Si gira con uno scatto, osservando l’ingresso privo di uscio che sembra una bocca spalancata; così come le finestre al pari di occhi che lo guardano, che lo accusano.
Hai spezzato un’altra vita! ripete ancora la voce e questa volta il Mostro lascia cadere sull’erba la pistola e si porta le mani a tapparsi le orecchie. Ma non serve.
Hai spezzato un’altra vita! urla per la terza volta quella voce interiore.
Il vento aumenta di intensità, il mormorio dei rami e delle foglie è ancora più forte.
Il Mostro si inginocchia a terra, mentre sente attorno a lui il mondo che comincia a girare.
Hai spezzato un’altra vita, così come hai spezzato quella di Mattia!
«No, non sono stato io!» grida a sua volta con voce rotta. «È stato…»
Ma tu non hai fatto nulla per evitarlo, continua la voce e poi tace, ma ormai non serve aggiungere altro. Nel vortice che ora è diventata la realtà, si affollano i ricordi dolorosi che premono per mostrarsi. Lui cerca di opporsi, prova a far schioccare la lingua sul palato, ma non ci riesce, perché una bile acida gli è salita dallo stomaco impastandogli la bocca. Una forte nausea lo assale.
Si sdraia completamente sull’erba, lasciandosi sommergere dal dolore del passato.
* * *
Si trova nella cappella dell’ospedale di Rovigo. Ci sono diverse panche di legno, ma lui si è seduto in una delle ultime sedie in fondo. Ha una mano stretta attorno al crocefisso appeso al collo, l’altra chiusa a pugno abbandonata in grembo, la testa reclinata in basso. E prega. Prega come non ha mai fatto in vita sua. Ormai non sa quante volte ha chiesto a Dio di prendere la sua vita e non quella di Mattia, se è proprio questo ciò che deve accadere.
Eppure ancora non ci crede, perché Mattia è forte e i dottori in quel grande ospedale sono bravi.
Stringe con forza le mani e si concentra ancora di più.
L’aria di quel luogo è fresca, eppure ha le ascelle sudate. Di tanto in tanto alcune persone sfilano attorno a lui, entrando o uscendo dalla cappella, e portano alle sue narici i loro profumi, buoni o cattivi che siano, assieme comunque a quello più forte dell’incenso. Forse il giovane e grasso prete che a volte vede girare per il reparto a distribuire estreme unzioni ha celebrato da poco una funzione. Una parte di lui ne è convinta, ma un’altra, molto più piccola, no. Quest’ultima crede che quello sia il profumo di Dio; quella piccola parte di sé racchiude la speranza che Dio gli sia accanto e che lo stia ascoltando.
Alza lo sguardo, forse proprio in cerca di Lui, ma i suoi occhi vengono riempiti solo dai colori accesi del dipinto che rappresenta un crocefisso stilizzato appeso alla parete dietro l’altare, e dalle statuine di legno del presepio allestito davanti a quest’ultimo sopra a un piccolo banco di legno.
Eppure, si chiede, Natale è già passato, portando con sé regali pieni di lacrime invece che di gioia.
Per Giuseppe Pozzati la cognizione del tempo non ha più molto senso. Non ricorda nemmeno quando è stata l’ultima volta che ha mangiato. È dimagrito, si sente affaticato. Tuttavia non è nulla in confronto a ciò che sta patendo Mattia di là, in quella stanza, che seppur piena di colori, tra giochi e disegni, all’interno aleggia un’aria di sconfitta e amarezza.
Ormai non c’è quasi più nessuno attorno a lui, forse perché nelle stanze del reparto le OSS hanno finito di fare le “pulizie dei corpi” e quindi i parenti possono tornare dai loro cari. Ecco, il tempo per Giuseppe in quel luogo sembra essere scandito solo da questi momenti o dalle visite dei dottori.
I dottori…
«Leucemia pediatrica», gli avevano detto senza mezzi termini. Ecco cosa era diventato suo figlio. «Un caso nemmeno troppo raro», era infatti quanto aveva aggiunto un altro medico.
Marta, di fianco a lui, era scoppiata a piangere, mentre lui era rimasto impassibile, non aveva nemmeno abbracciato sua moglie.
Forse è lì che è cominciato il distacco tra loro, riflette adesso Giuseppe. Invece di unirsi ancora di più per aiutare loro figlio in quel momento così terribile, non facevano altro che evitarsi sempre di più.
Un giovane uomo seduto in prima fila davanti a lui tira forte su con il naso.
Giuseppe si alza in piedi e lo osserva di sfuggita, mentre si avvia per uscire dalla cappella. Ormai ne vede tanti come quello sconosciuto, che sembra essere poco più di un ragazzo. È facile immaginare il dolore che lo affligge. È il dolore di tutti, lì. Un dolore a cui non si sa dare un’adeguata risposta o giustificazione, perché l’unica cosa che rimane sembra essere sempre e solo la rassegnazione.
Ma Giuseppe Pozzati non vuole rassegnarsi, non può farlo. Ha chiesto a Dio di aiutarlo, di prendere la sua vita al posto di quella di Mattia, e Lui non può tirarsi indietro.
Se le risposte che cercano non sono in quell’ospedale, lui e Marta devono portare il loro bambino da un’altra parte, da altri specialisti. Ne ha già parlato con sua moglie e lei sembrava d’accordo, ma in quell’occasione non potevano spostare Mattia, perché era in una fase troppo delicata.
Adesso però sta un po’ meglio. L’ultimo ciclo di chemioterapia è finito già da qualche giorno e lui si sta leggermente riprendendo. Forse questo è proprio il momento di cogliere la palla al balzo e portarlo lontano da lì, per andare… dove?
Non importa dove, ma deve essere il più lontano possibile da lì. Adesso.
Più in fretta che può si fa il segno della croce ed esce dalla cappella. Attraversa alcuni corridoi ed entra nel reparto di oncologia pediatrica. Incrocia alcuni genitori che ha imparato a conoscere e con cui ha condiviso un po’ del suo dolore. Gli odori di disinfettante, di detergente e di cibo gli riempiono la testa, insieme a lamenti e pianti.
La terza porta sulla sinistra, letto 119. L’uscio è socchiuso. Si guarda attorno un attimo: Marta non c’è. Socchiude la porta, fa un passo all’interno e ciò che vede lo lascia senza parole.
* * *
La sorpresa di quel ricordo lo fa tornare in sé. È ancora sdraiato sull’erba, anche se si è girato. Ha lo sguardo puntato a un cielo stellato, a un cielo colmo di stelle: quanto tempo è che non guarda un cielo così? Il secondo pensiero, questa volta lucido, che gli balza alla mente è che deve immediatamente allontanarsi da lì. Non sa da quanto ha perso i sensi, ma non può rischiare che qualcuno lo scopra, perché la sua missione non è ancora finita. Il Maligno si è preso un’altra volta gioco di lui.
Si mette a sedere, attende qualche secondo e poi si alza in piedi. Ora le ombre degli alberi non ci sono proprio più; esiste solo un unico grande manto scuro che ricopre sia lui che la casa abbandonata. La luce di una pallida luna illumina in parte ciò che lo circonda. Lancia uno sguardo a terra e quasi fatica a scorgere la Beretta. Poi la raccoglie e se la infila in una tasca. Deve ritenersi fortunato, perché l’erba su cui era sdraiato riprenderà presto la sua forma originaria e del contorno del suo corpo non rimarrà nessuna traccia.
La sua mente fa una strana associazione: pensa alle tracce di sangue che il corpo di Cristo ha lasciato sulla sacra Sindone nel momento della resurrezione. Il Mostro si fa subito il segno della croce, chiedendo perdono per la blasfemia di essersi paragonato anche solo per un secondo a nostro Signore Gesù Cristo.
Non è questo quello che Lui ti voleva dire, gli suggerisce una vocina.
No, è vero, che stupido che è. Alza lo sguardo verso l’antro scuro della casa abbandonata. Il sangue del bambino: ecco ciò che Lui voleva dirgli. Nella foga di uscire da quelle quattro mura diroccate per inseguire il Maligno, potrebbe averlo pestato, lasciando innumerevoli impronte. Con molta cautela si avvicina all’ingresso buio e guarda all’interno. Intravede appena una forma indistinta sdraiata a terra, ma è impossibile scorgere tracce vermiglie.
Potrebbe lasciar perdere e andarsene via, ma non può. Deve essere sicuro e proteggere la missione. Torna indietro e si dirige verso la sua auto. Deve muoversi, perché più rimane lì e più rischia di essere scoperto. La macchina è parcheggiata accanto a uno dei grandi alberi, sulla strada ghiaiata che lo ha portato fin lì. Se un’altra vettura dovesse avvicinarsi ora, il Mostro ne vedrebbe anche le luci oltre a sentirne il rumore.
Questo vale anche per gli altri, però, gli fa notare la vocina.
Ancora più in fretta raggiunge la sua auto e apre la portiera sinistra. La luce dell’abitacolo si accende e lui socchiude gli occhi, cominciando a rovistare nel cruscotto. E poi la trova: una torcia elettrica tascabile. Preme il pulsante nella parte inferiore e un fascio di luce bianca va a illuminare il volante.
Esce e, senza nemmeno richiudere la portiera, torna velocemente sui suoi passi. Ora il suo cammino è illuminato e può muoversi ancora più velocemente, senza paura di mettere un piede in fallo. Le ombre si spostano davanti a lui, come un mare nero le cui acque si dividono al suo passaggio richiudendosi alle sue spalle. I suoi passi sono accompagnati anche dal frinire di alcuni grilli, forse i primi della stagione, perché non li aveva ancora sentiti. Il Mostro rischiara la bocca nera e spalancata della casa abbandonata e vi si infila dentro senza esitare. Dapprima la luce della piccola torcia gli mostra i jeans impolverati, poi la maglietta blu e infine il viso bianco che sorride con gli occhi chiusi. Il viso di Mattia!
Il Mostro emette un breve verso strozzato per la sorpresa, sente le budella che gli si attorcigliano. La luce della torcia trema nelle sue mani. Indietreggia di un paio di passi.
Mio Dio, no, cosa ho fatto, pensa subito, andando a toccare con la mano destra la Beretta. I guanti di pelle gli impediscono di avvertire il contatto gelido dell’arma, anche se non è per questo che adesso la sta estraendo dalla tasca e la solleva davanti a sé.
«Io, io non ho fatto questo», sussurra alla stanza vuota.
Poi, con mano ancora più tremante, illumina di nuovo la testa del bambino, e non è più il viso sorridente di Mattia, ma quello privo di espressione – forse quasi sereno – della sua ultima purificazione. E tuttavia quella visione ha scoperchiato ulteriormente un vaso di ricordi che difficilmente lo avrebbero abbandonato nelle prossime ore.
Con mano di nuovo ferma osserva il sangue scuro accanto al corpo e non vede impronte. Solleva quindi un piede e poi l’altro per sicurezza, ma anche sotto alle suole non c’è nessuna traccia di sangue. Punta di nuovo per l’ultima volta il fascio luminoso verso il bambino, ma non è cambiato nulla. Quindi gira su se stesso e si avvia verso l’auto.
Fa schioccare la lingua sul palato, una, due volte. Ma non funziona. I ricordi non lo abbandonano, al pari delle ombre che si richiudono dietro di lui.
Una volta raggiunta la vettura, chiude in modo distratto la portiera rimasta aperta e sale al posto di guida. Mentre mette in moto e si allontana da lì, si rivede in ospedale…
* * *
… davanti a quella porta che spalanca lentamente. Mattia è steso sul letto, il cranio lucido, gli occhi chiusi, il colorito spento ma un sorriso sul volto. Di fianco a lui è seduta Marta che gli tiene una mano, gli occhi umidi di pianto. I lunghi capelli castani di sua moglie sono in parte scompigliati. Ma ciò che lo sorprende è che dall’altra parte del letto c’è un altro bambino, con il busto leggermente inclinato in avanti. Sembra stia osservando suo figlio. Giuseppe fa un passo avanti, e il piccolo sconosciuto gira la testa verso di lui, mostrando due grandi occhi completamente neri, simili alle orbite vuote di un teschio. È un piccolo mostro e in quel momento allarga la bocca in un sorriso malefico. Giuseppe sente aggrovigliarsi le budella, una forte nausea a salirgli in gola. Guarda Marta, ma lei sembra non accorgersi di nulla. Giuseppe apre la bocca per chiederle cosa ci faccia quell’essere lì con loro, ma poi si gira e, ancor più inorridito, scopre che l’essere ora si trova a cavalcioni su Mattia, con la testa reclinata a pochi centimetri da quella del figlio, e una lunga coda nera che si agita nell’aria.
Sta facendo qualcosa di terribile a Mattia!
Poi Marta si gira verso di lui e, senza cambiare l’espressione triste e quasi indifferente che ha sul volto, gli dice: «Si è addormentato.»
Poi torna a rivolgere l’attenzione al figlio, accarezzandogli un braccio sottile, da cui parte un tubicino collegato a una flebo che gocciola molto lentamente.
La stretta che Giuseppe ha sentito allo stomaco si scioglie in un’onda di calore che gli fa tremare le gambe.
Ora non c’è nessun piccolo mostro appollaiato sopra Mattia.
Non più, perlomeno.
Sbattendo gli occhi per schiarirsi le idee, attraversa lo spazio che lo separa dalla sua famiglia e si accomoda sulla sedia già accostata sull’altro lato del letto di Mattia. Sfiora delicatamente il braccio privo di tubicini del bambino, osservando con disgusto gli ematomi blu lasciati dai precedenti cateteri. Si ferma sulla piccola mano, stringendola appena, perché non vuole svegliarlo.
«Dobbiamo…» comincia, ma un nodo gli stringe la gola. Ultimamente si sente sempre più in difficoltà a parlare con Marta. Deglutisce. «Dobbiamo portarlo via di qua», riesce a dire. A maggior ragione, pensa, dopo quello che ha appena visto.
O che credi di aver appena visto.
Marta solleva lo sguardo su di lui. «Ma cosa stai dicendo?» Ha un’espressione sorpresa, quasi si fosse accorta solo adesso che lui è lì.
«Dobbiamo portarlo via di qua», ripete. «Dobbiamo portarlo da altri dottori.»
Gli occhi verdi di Marta si spalancano un po’ di più, ancora più sorpresi. «Ma cosa stai dicendo?» ripete. «Ne abbiamo già parlato, e non possiamo spostarlo.» Il tono di voce è quasi accondiscendente.
«Marta, adesso sta un po’ meglio. Dobbiamo approfittarne.»
Lei lo guarda per alcuni secondi con la bocca socchiusa, gli occhi che indagano i suoi come in cerca di qualcosa. «Lui…» Deglutisce a forza, il labbro inferiore che tremola. «… non sta meglio… sta per…»
Giuseppe alza una mano davanti a sé. Anche se non l’ha mai picchiata da quando sono sposati, ora vorrebbe schiaffeggiarla pur di impedirle di pronunciare quella parola.
Non serve, perché è proprio Mattia a interromperla, risvegliandosi. «Possiamo andare dai cavalieri?»
Sia lui che Marta si girano verso il bambino, che li guarda senza più sorridere, gli occhi gonfi di sonno… e di dolore.
Giuseppe si rende conto – o meglio, si ricorda solo in quel momento – che il suo bambino non sta affatto meglio. Si rende conto con sgomento che il miglioramento c’è stato, certo, ma sono ormai trascorsi tre giorni, prima dell’inizio del nuovo ciclo di chemioterapia.
«Papà, mamma, possiamo andare dai cavalieri?» ripete Mattia, stringendo un po’ la mano di Giuseppe. «Possiamo salire sul campanile? Ho voglia di mangiare lo zucchero filato.»
Per un attimo Marta guarda il marito con gli occhi smarriti e la bocca leggermente aperta, poi la chiude e prende in mano la situazione. Si gira verso Mattia e accarezzandogli la testa gli dice: «Non ti preoccupare, bambino mio, presto ti porteremo dai cavalieri, saliremo in cima al campanile e mangerai tutto lo zucchero filato che vorrai.»
Dal canto suo Giuseppe si sente inebetito, non riesce a spiccicare parola. L’impalcatura della realtà che crede di vivere in questo momento comincia a sgretolarsi davanti ai suoi occhi, mostrandosi per ciò che è in realtà: ricordi che ora si mescolano ad altri ricordi.
Infatti adesso di fronte a lui c’è solo Mattia, ma non è più steso su un letto d’ospedale, ma in una piccola bara bianca, circondato da innumerevoli fiori. Spaventato, Giuseppe si alza in piedi e indietreggia, ma più va lontano e più la bara si avvicina. Risuona nell’aria un coro melodioso, ma lui si inginocchia a terra, si tappa le orecchie e vorrebbe urlare, ma dalla sua bocca esce soltanto…
* * *
… un denso fiotto di vomito che va a sporcargli una parte della scarpa destra.
Il Mostro si rende conto di aver accostato appena in tempo sul ciglio della strada, di essere sceso e di essersi sorretto con una mano alla portiera. Gli risale un altro conato, ma riesce a ricacciarlo indietro. Sputa sull’erba alcuni succhi acidi che gli fanno pizzicare il naso e gli occhi. Si pulisce la bocca con un fazzoletto, quindi raddrizza la schiena e si guarda attorno. A parte i fari dell’auto, lo circonda il buio della notte. Non si trova in una via alla periferia di Ferrara in direzione del centro, verso il suo appartamento, ma già a diversi chilometri dalla città, come se la sua intenzione fosse stata quella di andare…
… di portare Mattia a vedere i cavalieri, gli giunge come da un abisso la vocina.
Stringe con forza lo sportello, avvertendo di nuovo lo stomaco in subbuglio. Ma non si lascia andare. Oltre alla portiera stringe anche la mascella, poi sale in macchina e compie una veloce inversione a U. Fa schioccare diverse volte la lingua sul palato e questa volta riesce ad allontanare tutto. Non ci sono più cavalieri, campanili o zucchero filato; cose e luoghi che lui e ciò che è stata la sua famiglia non sono mai più riusciti a raggiungere.
Ora per il Mostro c’è soltanto la sua missione volta a sconfiggere l’Ombra delle Ombre, il Maligno, Colui che si è portato via la cosa più importante della sua vita.