Era pomeriggio inoltrato quando le brutte notizie per l’ispettore Luca Giatti cominciarono ad accavallarsi una sull’altra.
Si trovava nel suo ufficio, seduto alla scrivania. Mentre con gli occhi osservava i rapporti sui ritrovamenti dei bambini, di tutti quei bambini, con la mente era perso ancora nella conversazione che aveva avuto con i coniugi Massarenti: lui certamente con la scimmia del gioco aggrappata sulle spalle e lei con un problema di alcol da risolvere. In ogni caso avevano due bambini bellissimi che ora erano scomparsi. Luca si rigirava le loro fotografie tra le mani. Fotografie che erano anche a bordo di numerose volanti in giro per Ferrara.
Di sicuro non erano due genitori affidabili e, anche se la memoria di suo padre continuava a ripetergli che lui non era lì per giudicare, Luca sapeva che in fondo non poteva farne a meno. Tutto il suo lavoro era in buona parte basato sul giudizio che si faceva di chi gli stava davanti, a volte anche nel modo più veloce possibile, perché da ciò poteva dipendere la sua stessa vita.
Ma sapeva a cosa si stava riferendo suo padre in realtà. Carlo Giatti parlava di giudizio morale, una questione molto delicata e da tenere bene a mente nel suo lavoro.
Ecco, ci risiamo, rifletté Luca. Penso a mio padre come se fosse ancora qui con me.
Lo sai che in un certo senso non ti abbandona mai.
Ripose le foto dei piccoli Andrea e Nicola Massarenti da una parte e riprese a sfogliare i fascicoli che aveva davanti, allontanando quei pensieri.
Le vittime erano tutti maschi, tra i cinque e i sette anni. Tutti uccisi con un colpo alla testa, una calibro .22, molto probabilmente una Beretta. Sembravano essere delle vere e proprie esecuzioni.
Luca tirò fuori da un cassetto il blocco per gli appunti, su cui aveva annotato i nomi e i luoghi di ritrovamento, e lo appoggiò sopra i fascicoli.
Filippo Di Biase, sei anni, la prima vittima del Mostro, o perlomeno, Luca sperava che non ce ne fossero altre ancora da ritrovare. Il corpo del piccolo Filippo era stato rinvenuto in una discarica, ma non era scomposto, come se fosse stato gettato in fretta e furia sui rifiuti, ma sdraiato supino, con le braccia stese lungo i fianchi. Soltanto la testa era girata su un lato, a coprire il foro di entrata del proiettile che gli aveva tolto la vita. Ciò stava a indicare una certa “pietà” nella dinamica dell’omicidio, oppure – come era stato suggerito da Minardi, lo psicologo criminale che collaborava al caso – se la testa del bambino era stata reclinata così di proposito, suggeriva una certa vergogna nella testa dell’omicida, forse un barlume di senso di colpa che voleva andare a nascondere in parte ciò che aveva fatto.
Luca trovava che le supposizioni di Minardi a volte fossero troppo complicate, quasi a voler a tutti i costi trovare una risposta dove gli elementi per valutare erano ancora troppo scarsi.
Marcello Greco, cinque anni, ritrovato in un canale di irrigazione. Il corpo era semi-sommerso dall’acqua, ma anche su di esso non erano state trovate tracce di violenza. I rilievi fatti sulle pareti di cemento del canale non avevano evidenziato alcuna impronta lasciata dal Mostro. In quel caso la testa del bambino, però, era stata lasciata dritta come del resto tutto il corpo.
«Non ha più vergogna», era stata l’immediata affermazione di Minardi quando gli era stato comunicato quel dettaglio. Luca lo aveva osservato per alcuni secondi, gli occhialini tondi del dottore in bilico sulla punta del naso. Lo psicologo lo aveva osservato a sua volta, aggiustandosi in modo molto teatrale quegli stessi occhiali, per la cui forma da molti era stato soprannominato il Freud della Bassa.
Erano rimasti in silenzio per alcuni secondi, poi Luca aveva lasciato perdere, sapendo che non sarebbe servito a nulla discutere con lui.
Francesco Girolami, sette anni. Dopo l’esame autoptico, il bambino era risultato essere la terza vittima del Mostro, anche se il corpo era stato ritrovato sulle rive del Po alcuni giorni dopo quella che sarebbe poi risultata la quarta vittima. Il piccolo Francesco era stato gettato nel grande fiume, non si poteva sapere esattamente dove, e le forti correnti lo avevano trascinato fin quasi alla foce. Era stato ritrovato infatti tra i rami di un albero crollato in acqua nei pressi di Taglio di Po. Quando ne aveva discusso con l’agente Vincenzi, questi aveva detto che forse era stata madre natura stessa a voler fare ritrovare il corpo del bambino, come se soffrisse insieme a tutti loro per quello scempio. E Luca, vedendo il suo sottoposto così emotivamente scosso, non se l’era sentita di smentirlo.
Girò una pagina.
La quarta vittima, ma ritrovata dopo la seconda, era Denis Lucchi, sei anni. Anche lui abbandonato in un canale di irrigazione. La maglietta che indossava in parte era strappata, anche se non era dovuto a una violenza del Mostro, ma probabilmente solo ad alcuni animali. Quasi del tutto sommerso nell’acqua melmosa, un contadino di passaggio lo aveva scambiato per un animale morto. Avvicinatosi aveva invece riconosciuto un piccolo braccio bianco appoggiato alla parete in cemento, quasi in un ultimo disperato tentativo di mettersi in salvo. Anche in quel caso la morte era già sopraggiunta per un colpo di proiettile alla testa.
E appena due giorni prima era stata la volta di Giovanni Lombardi, anche lui di sei anni, trovato però in una stalla. Il corpo ben composto nel momento della morte come il primo e il secondo bambino. Il Mostro sceglieva sempre dei luoghi isolati, lontano da orecchie indiscrete. Ed era svelto a rapire le sue vittime: non avevano ancora ricevuto nessuna segnalazione rilevante fino a quel momento. Le famiglie delle vittime abitavano tutte in vie periferiche della città, poco trafficate.
Eppure qualcuno deve pur aver notato qualcosa di strano, pensò Luca.
Erano in attesa delle registrazioni di una telecamera posizionata nella via dove risiedevano i coniugi Massarenti. Altre telecamere erano già state passate al setaccio: una nella via dove abitava Francesco Girolami e l’altra nella via di Denis Lucchi, ma in tutti e due casi non avevano registrato nulla di importante. Si trovavano lontane dalle case delle vittime, puntate sugli ingressi dei locali che dovevano video-sorvegliare.
Fu in quel momento che il suo smartphone appoggiato sulla scrivania cominciò a vibrare e qualcuno a bussare alla porta.
Luca lanciò un’occhiata al display: era Claudia.
Strano che mi chiami a quest’ora. Deve essere davvero importante.
La sua immaginazione corse subito a Matteo, a qualcosa di brutto che poteva essergli capitato.
Raccolse il cellulare e sfiorò con un dito lo schermo per attivare la comunicazione. La porta dell’ufficio si spalancò e un agente Vincenzi tutto trafelato fece il suo ingresso.
«Ispetto’…» cominciò, ma Luca lo zittì alzando il dito indice.
«Dimmi, Claudia, cos’è successo?» chiese, osservando al contempo l’agente Vincenzi per fargli capire che quella telefonata era importante.
Sua moglie era agitata, aveva quasi il fiatone. «Luca, è successa una cosa terribile.»
«È accaduto qualcosa a Matteo?» domandò, drizzando la schiena e avvertendo una certa agitazione anche nella propria voce.
«No, sta’ tranquillo. Però si tratta di Stefano, il figlio di Federica.»
Luca pensò immediatamente al peggio. «Matteo è lì che ti sta ascoltando?»
«No, sta giocando in camera sua. C’è Buc con lui. Poco fa mi ha telefonato Federica: era disperata, perché Stefano è sparito e crede che qualcuno lo abbia rapito. Ha chiamato me per dirlo a te, ma le ho detto comunque di chiamare la polizia, di chiamare i carabinieri, di chiamare tutti quanti. Luca, ci siamo viste appena stamattina all’uscita dall’asilo. Io non so… io spero che…» Claudia parlava sempre più velocemente e ora stava cominciando a singhiozzare.
Luca la interruppe. «Claudia, Claudia, ascoltami. Stai calma. Adesso vado subito da lei, hai fatto bene a telefonarmi. Tu rimani con Matteo e cerca di non fargli capire niente. D’accordo?»
«Va… va bene. Dio, speriamo non si tratti del…»
«Non pensarlo nemmeno.» Si alzò in piedi. Ma come faceva a non pensare lui stesso al Mostro? «Adesso devo andare. Ti dico qualcosa più tardi, va bene?»
«Sì. Ciao.»
«Ciao.» In quelle ultime due parole aveva avvertito tutto lo sconforto e la paura che stava provando sua moglie in quel momento.
Chiuse la comunicazione e si mise in tasca lo smartphone. Quindi tornò ad alzare lo sguardo sull’agente Vincenzi, invitandolo a parlare, anche se sapeva benissimo cosa gli stava per dire.
«Ispetto’, è appena arrivata la denuncia di scomparsa di un altro bambino», cercò di dire in fretta, per poi aggiungere subito: «Tutto a posto a casa, ispetto’?»
«Sì, grazie, a casa mia non è successo nulla… il bambino scomparso è Stefano Bruni?»
L’agente Vincenzi corrugò la fronte. «Sì, ispetto’, come fa a saperlo?»
«Federica Bonfatti, la madre del bambino, è un’amica di mia moglie, e ha telefonato a Claudia per dirle di chiamare me.»
«Oh, Santo Cielo!» esclamò Vincenzi.
«Forza, andiamo», disse Luca girando attorno al tavolo e dirigendosi verso la porta. «Non dobbiamo perdere nemmeno un minuto», aggiunse, raccogliendo la giacca da una sedia.
In cuor suo era sollevato che non fosse successo nulla a Matteo, ma allo stesso tempo era turbato dal fatto che forse il Mostro aveva colpito ancora e che molto probabilmente le sue sporche mani si erano avvicinate alla sua famiglia.
* * *
Federica Bonfatti era una giovane donna che forse aveva imparato troppo presto a vivere da sola. Da sola con suo figlio Stefano. Suo marito, Giuliano Bruni, era morto in un incidente stradale quando il piccolo Stefano aveva appena venti mesi e lui trentacinque anni. La dinamica dell’incidente era la replica di un brutto film visto troppe volte: un ragazzino di appena vent’anni, ubriaco e strafatto di cocaina, aveva preso una curva a forte velocità, invadendo la corsia opposta. Giuliano doveva aver cercato di evitare l’impatto scartando immediatamente a destra, ma le due auto si erano toccate lo stesso. Giuliano era uscito di strada capottando diverse volte, mentre l’auto del ragazzino aveva girato su se stessa come una trottola sulla carreggiata, perdendo velocità per poi andare a fermarsi addosso al guardrail sul lato opposto della strada. Quando i sanitari erano giunti sul posto avvisati da alcuni passanti che si erano fermati per cercare di prestare i primi soccorsi, per Giuliano Bruni non c’era stato più nulla da fare, mentre per il ragazzino, il quale continuava a blaterare che doveva tornare subito a casa altrimenti il padre lo avrebbe linciato, se l’era cavata con alcuni tagli sulle braccia e sul viso a causa dei vetri scoppiati. Sequestro dell’auto e revoca della patente, e per il momento tutto si era risolto così, perché l’iter per il processo di omicidio stradale non era ancora finito. In quel caso, come in tanti altri, Luca sperava che la vera condanna arrivasse dalla coscienza del ragazzino, dal senso di colpa che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita.
Erano trascorsi più di tre anni da quella sera terribile e in quell’occasione non era toccato all’ispettore Luca Giatti informare la moglie della terribile perdita, perché lui non era in servizio. Cosa ben diversa da oggi.
Al suo arrivo aveva trovato una giovane donna dal cui viso sembravano essere stati strappati via di botto almeno dieci anni di vita. Era seduta sul divano chiaro nel soggiorno della villetta a schiera in cui viveva con il figlio, alla periferia ovest di Ferrara. I genitori di lei erano stati avvisati, ma erano anziani e abitavano lontano. Molto probabilmente non sarebbero giunti che il giorno dopo.
Federica aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto, i capelli neri tagliati corti tutti spettinati. Reggeva in una mano un fazzoletto e nell’altra una piccola cornice in cui era inserita una fotografia che ritraeva suo marito Giuliano che portava in braccio il piccolo Stefano di appena pochi mesi.
«Li ho persi entrambi», disse Federica, dondolandosi appena avanti e indietro.
Luca le si fece vicino, sedendosi a sua volta sulla poltrona. Sentimenti contrastanti gli si agitavano dentro. Nella casa aleggiava un buon profumo di pulito, ma accanto a lei avvertiva un lieve puzzo di sudore, qualcosa che non aveva mai sentito provenire da Federica, ma che aveva già incontrato in altre occasioni a contatto con persone colpite da sciagure simili: quello era l’odore dello sconforto e della paura. Luca vi si aggrappò, quasi fosse un monito a non lasciarsi andare alla paura che provava per il suo Matteo.
Anche Claudia è spesso da sola con Matteo, pensò. E se accadesse a loro?
Scacciò immediatamente quel pensiero dalla testa.
Federica girò il viso – o meglio, una maschera di tristezza – verso di lui. «Luca, li ho persi entrambi», ripeté con voce spezzata.
«No, Stefano è soltanto scomparso.» Avrebbe voluto stringerle le mani ma non lo fece, perché temeva che l’incertezza che lui stesso aveva avvertito in quelle parole potesse farlo tremare.
«Soltanto un minuto, sono entrata in casa soltanto per un minuto e questo… e questo è bastato per farmelo perdere…» Il corpo della donna fu scosso da violenti singhiozzi. Federica aveva sopportato ormai troppo e tutto da sola.
Luca spalancò le braccia e la accolse in un abbraccio silenzioso.
Nell’incavo del suo gomito si lasciò andare a forse l’ennesimo e lungo pianto, con la differenza che stavolta c’era qualcuno su cui riversare il dolore.
Luca le accarezzò la testa e poi le spalle per cercare di tranquillizzarla. Dalle finestre filtravano le luci intermittenti delle volanti ferme davanti la casa. La macchina delle ricerche si era già messa in moto. La fotografia di Stefano Bruni era stata distribuita ai vari agenti.
I singhiozzi di Federica si stavano acquietando, ma la donna rimase ancora qualche secondo abbracciata a lui. Sapendo quanto poteva essere delicato quel momento, Luca aveva provvidenzialmente posizionato l’agente Vincenzi davanti alla porta del soggiorno perché nessuno li disturbasse. Il resto della casa e soprattutto il giardino, infatti, brulicavano già dei ragazzi della scientifica in cerca di una minima traccia lasciata dal rapitore.
«Vedrai che lo troveremo», le disse infine Luca. Non appena ebbe pronunciato questa frase si sentì sollevato dal fatto che Federica non lo stesse guardando in faccia, perché vi avrebbe letto l’insicurezza che aveva cercato di non far trasparire nella voce.
La donna si staccò da lui. Guardando in basso si asciugò gli occhi con il fazzoletto e si soffiò il naso. Poi raccolse di nuovo la cornice dal tavolino e ne sfiorò la fotografia con un dito.
«Ti prego, riportamelo a casa», disse Federica, e questa volta alzò il viso verso di lui.
«Farò tutto il possibile», le rispose Luca.
«E se anche Stefano…» continuò la donna deglutendo, «… e se anche Stefano dovesse…»
«Non pensarlo nemmeno.»
«… prendetelo, prendete quel bastardo.» La voce di Federica si era caricata di rabbia. «Perché voglio vederlo in faccia!»
Anche se non lo aveva detto – e anche se non c’erano per il momento delle prove evidenti che fosse stato lui – era chiaro che la donna si riferisse al Mostro, ma d’altronde era il timore di tutti. E questo stava a dimostrare l’ingente dispiego di risorse e uomini per un rapimento avvenuto solo poche ore prima.
E tuttavia, verso la fine di quella giornata, alcune prove sarebbero saltate fuori.