Fu il commissario Battistini a informare Luca di quello che era stato scoperto. «Si tratta quasi certamente del Mostro.»
Erano ormai le sette di sera e si trovavano nell’ufficio di quest’ultimo, seduti davanti a un portatile acceso.
«Ora sappiamo qual è la sua auto», continuò Battistini, picchiettando una sigaretta spenta sul tavolo.
Luca si sentì elettrizzato: se avevano individuato l’auto, risalire con la targa al proprietario era un gioco da ragazzi.
«Bene», disse Luca. «Quindi conosciamo il nome…»
Il commissario lo interruppe accennando un piccolo sorriso nascosto nella folta barba nera. «Come immaginavamo il Mostro non è del tutto sprovveduto: la targa è contraffatta.»
Luca espirò. Avvertì le spalle che si afflosciavano. Ma d’altronde, si disse, se il Mostro fosse stato così stupido o avesse agito soltanto nell’impeto del momento, lo avrebbero già assicurato da tempo dietro le sbarre.
«Guarda qui, Luca», continuò il commissario, pigiando alcuni tasti sul computer.
Partirono delle immagini in bianco e nero, leggermente disturbate, che immortalavano l’ingresso di una banca e un tratto di strada.
«Questa che ci hanno fornito è la registrazione di una telecamera posizionata nella via dove abitano i coniugi Massarenti. Ecco, guarda, questa è la macchina.»
Il monitor mostrava una grossa auto scura che attraversava a scatti un angolo dell’inquadratura.
«Cos’è, una vecchia Volvo?» chiese Luca, ripensando per un attimo alla Volvo del signor Manfredi, su cui l’anziano aveva compiuto il suo ultimo viaggio terreno. Ma di sicuro era solo una coincidenza.
«Sì, bravo, è proprio una Volvo.» Il commissario Battistini bloccò l’immagine. «Nella registrazione passano anche delle altre auto, ma soltanto la targa di questa è risultata contraffatta, in realtà dovrebbe trattarsi di una Opel Corsa demolita più di dieci anni fa. Abbiamo sommato questo fatto a due testimonianze proprio di oggi pomeriggio raccolte dopo il rapimento di Stefano Bruni: una donna ha parlato di una grossa e vecchia auto scura, mentre un anziano ci ha proprio riferito di una Volvo nera che si allontanava a grande velocità. Le tracce di pneumatici rinvenute sui luoghi dei delitti erano troppo confuse per stabilire se appartenessero a questo tipo di auto. Però sono convinto», e con un dito picchiettò sullo schermo del computer, «che questo sia il nostro uomo.»
Luca era impressionato. Sentiva una nuova speranza nascere dentro di lui. «Si riesce a vedere la faccia?» chiese, eccitato.
«No, purtroppo no», rispose il commissario con una nota di delusione nella voce. Ingrandì l’immagine. «Si vede soltanto un pezzetto di testa: sembra avere una folta capigliatura scura.»
Luca cercò di aguzzare la vista, ma non riuscì a cogliere nulla di più. «E ovviamente non si vede se c’è qualche passeggero», aggiunse, avvicinando ancora di più gli occhi allo schermo.
«No.»
Luca si allontanò dal computer e si girò verso il commissario. «Be’, non dovrebbero esserci così tante Volvo nere di quel tipo in città, o sbaglio? Il campo di ricerca può essersi notevolmente ridotto.»
«Sì, è vero. Stiamo attendendo i risultati dalla banca dati dell’ANIA.»
«E quanto dobbiamo aspettare?»
«Non ne ho idea.»
Il tono della voce di Luca si fece più aggressivo. «Ah, forza, si tratta di interrogazioni a livello informatico: possono essere quasi istantanee, lo sappiamo tutti. Abbiamo bisogno di quei dati.»
«Luca, Luca…»
«Ho bisogno di quei dati, perché devo andare a catturarlo, lo capisce, commissario? Anche a costo…»
«Luca, ascoltami.»
«… anche a costo di bussare porta a porta per tutta la notte.»
«Ora basta!» Per interromperlo il commissario aveva alzato la voce.
Luca si zittì, rendendosi amaramente conto di essere andato oltre, con il rischio che il caso venisse affidato a qualcun altro.
«Calmati», proseguì il commissario con voce più bassa. «So quanto sia stata sfortunata nella sua vita Federica Bonfatti, e so quanto ci tieni a lei per la sua vicinanza alla tua famiglia… aspetta, lasciami finire. Ti dico già che non voglio toglierti il caso, anche se sono stato tentato di farlo. E questo perché ho letto la deposizione di oggi, di come Federica si fosse vista solo poche ore prima davanti all’asilo con tua moglie… eh, sì, è vero, molto probabilmente il Mostro era lì a osservarle entrambe. Tra l’altro si tratta dell’asilo in corso Rossetti, nemmeno troppo lontano da qui.»
Luca strinse i pugni, sentendo montare dentro una rabbia cieca e allo stesso tempo un forte senso di impotenza. «Mi scusi se ho reagito con… impeto», affermò, cercando di dosare le parole. Emise un profondo respiro. «Non succederà più.»
«Non scusarti, ti capisco perfettamente», lo tranquillizzò il commissario, e per un attimo, notò Luca, i suoi occhi si erano persi a osservare un punto dietro le sue spalle, come se qualche ricordo doloroso gli avesse attraversato la mente.
Lo conosco davvero poco, considerò Luca.
Anche quando avrai imparato a osservare e ad ascoltare, gli aveva detto una volta suo padre, anche allora potrai essere sicuro di non capire fino in fondo chi ti sta di fronte.
Il commissario Battistini emise un sospiro che somigliava molto alla stanchezza. «Senti, so che non vorresti, ma adesso vai, è tardi. Torna a casa da tua moglie e da tuo figlio. Stai con loro e tranquillizzali.»
Luca rifletté solo un paio di secondi sull’invito del commissario, capendo che obiettivamente in quel momento la sua presenza lì non era più necessaria.
Alla fine si arrese. «Va bene. Ma qualunque cosa accada, a qualsiasi orario, le chiedo cortesemente di avvisarmi.»
Il commissario lo guardò dritto negli occhi per alcuni secondi. Aveva ripreso a tamburellare la sigaretta sulla scrivania. «Sarai il primo a esserne informato.» Dopodiché tornò a girarsi verso lo schermo del portatile. «Adesso vai a casa. Non voglio più ripetertelo», aggiunse senza voltarsi.
Luca si alzò in piedi. «Buona serata, commissario.» Poi si fermò sulla porta, si girò su un fianco e aggiunse: «Grazie.»
Dall’enorme schiena del commissario Battistini giunse un sommesso grugnito che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa.
L’ispettore Luca Giatti, abbozzando un lieve sorriso, lasciò la stanza.
* * *
Uscito dalla questura e salito in macchina, non si diresse subito a casa. Alla fine di corso Ercole I d’Este svoltò a destra in corso Porta Mare. I lampioni non si erano ancora accesi, ma la luce rossastra del tramonto faceva risaltare ancora di più i fabbricati in mattoni rossi che si ergevano ai bordi della larga via. Sulla sinistra il grande cancello del Parco Massari era chiuso, e le ombre erano già fitte sotto i grandi e secolari cedri del Libano che si ergevano maestosi al di là dell’alta recinzione in ferro battuto. Poco più avanti, sulla destra, in piazza Ariostea, numerose persone si aggiravano lungo l’anello asfaltato che solo poche settimane prima aveva ospitato il palio. Altri invece affollavano i locali sotto i portici, oppure erano intenti a chiacchierare o a gustarsi un gelato, tutti comunque sovrastati dallo sguardo serio della statua dell’Ariosto che si innalzava su una colonna di marmo al centro della piazza. Ma soprattutto sorvegliati dagli occhi attenti di numerosi agenti in borghese che – come Luca sapeva bene – erano disseminati all’insaputa della gente in quella piazza come in altri punti nevralgici di Ferrara da quando quell’incubo del Mostro era iniziato.
In fondo a corso Porta Mare si immise nella rotatoria di piazzale San Giovanni prendendo la prima uscita a destra, in via Caldirolo. Dopo poche centinaia di metri avrebbe dovuto girare a sinistra in via dei Frutteti per poi giungere a casa sua in via del Melo. Invece proseguì oltre, superando un’altra piccola rotatoria, e mantenendosi sempre su via Caldirolo. La strada in quel punto era rialzata, e alla sua destra un largo tratto di verde pubblico lo separava dalla medioevale cinta muraria della città. A quell’ora c’erano ancora alcune persone intente a fare jogging o a portare in giro i cani lungo i sentieri ai piedi delle mura.
Dopo pochi secondi si ritrovò su un’altra grande rotatoria, uno degli ingressi più importanti della città, l’incrocio tra via Pomposa, piazzale delle Medaglie d’Oro e corso della Giovecca. Tuttavia l’ora di punta era già passata da un po’ e anche lì Luca proseguì oltre, incrociando poche auto e continuando a mantenersi su via Caldirolo. Dopo nemmeno duecento metri mise la freccia a sinistra, rendendosi conto forse solo in quel momento dell’assurdità di quel fuori programma.
Svoltò e andò a fermare l’auto nel parcheggio del cimitero di Quacchio. Spense il motore. Anche se sapeva bene che a giugno i cancelli venivano chiusi alle 18:00, rispettando quello che era l’orario estivo, ora erano già le otto passate, e lui cominciò a sentirsi un po’ stupido.
Claudia non lo aveva ancora chiamato e difficilmente lo faceva per sapere dove si trovasse, ma quella era diventata una giornata particolare e molto probabilmente non avrebbe tardato a farlo. L’ingresso del cimitero era alla sua destra. Si girò un attimo a guardarlo, e allo stesso tempo allungò la mano verso la chiave dell’accensione per ripartire e andarsene. Ma quando vide che l’ingresso era socchiuso si bloccò. La sua mente corse subito agli ultimi episodi di scippo avvenuti all’interno di questo e altri cimiteri ai danni di alcuni poveri anziani che erano solo andati a cambiare i fiori sulle tombe dei loro cari. Eppure a quell’ora non c’era più nessun visitatore,
(tranne te)
e difficilmente i ladri di rame avrebbero fatto una delle loro sortite a quell’ora, sotto gli occhi di tutti.
Scese dall’auto e a grandi falcate si avvicinò al cancello. Con una mano lo aprì ulteriormente facendo cigolare i cardini di ferro.
Non appena mise un piede all’interno del cimitero, si fece sentire una voce forte.
«Siamo chiusi!» urlò un uomo, sbucando da un lato del vialetto.
Luca riconobbe subito Vilmer Menegatti, il custode. La sua andatura goffa, a gambe larghe, i suoi folti baffi scuri e la coppola nera calcata sulla testa quasi a coprire gli occhi lo rendevano inconfondibile.
«Signore, siamo chiusi!» ripeté ancora Vilmer, avvicinandosi velocemente.
E non era nemmeno abituato ad attendere troppo una risposta.
«Buonasera, Vilmer, ho visto aperto, e allora…»
«Oh! Buonasera, ispettore», rispose Vilmer, cambiando tono della voce e portandosi due dita alla coppola in segno di saluto. Si fermò davanti a lui. «No, ho lasciato socchiuso ma stavo andando via.»
«Capisco.»
«Sì, stiamo sistemando l’ossario con gli ultimi spostamenti e mi sono trattenuto un po’ di più per non lasciare troppo in disordine per domani. Sa, la gente ci tiene alla pulizia quando vengono a trovare i loro cari.»
«Vilmer, se non ci fosse lei bisognerebbe inventarla.»
«Ah, grazie, ma io faccio solo il mio lavoro. Prego, venga avanti…»
«Ma no, se stava andando via non voglio certo rubarle altro tempo.»
«Dieci minuti in più o dieci minuti in meno non fanno la differenza. Io sono qui, il cancello è aperto e portare un saluto non si nega a nessuno, giusto?»
Luca rimase in silenzio per qualche secondo. Era un po’ che non veniva al cimitero, ma quel modo di dire di Vilmer, così familiare e così gentile, lo aveva fatto sentire in un certo modo a casa.
«Forza, venga avanti», ripeté l’uomo, scostandosi di lato. «Io sistemo altre due cose e poi l’aspetto qui fuori.»
«Grazie.» Luca si incamminò. «Faccio presto», aggiunse. Dopo tutte le volte che in passato si erano visti e avevano parlato, Luca sentiva di aver ritrovato subito quell’intesa. Un’intesa che non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni.
«Non si preoccupi, ci metta il tempo che occorre.»
E alla fine Luca aveva seguito il suo istinto e dopo molto tempo dalla sua ultima visita si trovava lì. Doveva affrettarsi perché le ombre attorno a lui erano ancora più lunghe, e oltretutto non voleva approfittare della pazienza di Vilmer, anche se sapeva che l’uomo non si era comportato così solo perché lui era un ispettore di polizia. Ci fosse stato un altro al posto suo probabilmente avrebbe fatto lo stesso, perché per Vilmer Menegatti quello non era solo un lavoro.
«È il custode dei nostri cari», gli aveva detto una volta Claudia. «E di conseguenza dei ricordi che abbiamo di loro. E credo che sia per questo che è così gentile con tutti, perché per lui i visitatori sono i veri padroni di casa del cimitero.»
Si sentiva un po’ in colpa per non essere tornato subito a casa. Ora più che mai sentiva la mancanza di Claudia e Matteo. Ma doveva salutare suo padre.
Dal viale principale svoltò a sinistra e passò davanti alle fotografie di volti che conosceva molto bene. Era come tornare dopo tanto tempo in un luogo visitato assiduamente in passato, e scoprire che nulla era cambiato. PANDOLFI, MENEGATTI, MELCHIORRI, FERRARI, ROSSI… tutti cognomi accompagnati dalle fotografie di donne e uomini più o meno anziani, alcuni molto giovani, ma che in ogni caso erano sempre lì, e ora ricordava di averli già visti chissà quante volte. Persone che in vita non aveva mai conosciuto, ma che da morti erano diventati quasi amici. Un susseguirsi di volti e di date, talvolta semi nascosti da fiori freschi, più spesso senza e quindi ben visibili, perché chi era rimasto si era dimenticato di loro, oppure le nuove generazioni erano dei nipoti o pronipoti che non li avevano mai conosciuti e per questo forse non avevano interesse a ricordarli.
Poco prima della fine di quella parete di lapidi, Luca si fermò. Il loculo era posizionato appena al di sopra della linea dei suoi occhi. CARLO GIATTI. 5/3/1948 – 20/09/2014, e appena sopra le date, la foto sorridente di suo padre. Il primo pensiero che ebbe era riferito al lungo sogno che aveva fatto la sera precedente, in cui spiccavano i punti salienti della malattia di Carlo Giatti: la confusione, la perdita di memoria, l’incontinenza. Sogno che si era mescolato ai suoi ricordi di quel ragazzo, Piotr Lusescu, ma soprattutto alla figura nera del Mostro che aveva allungato le braccia sopra le sue cinque piccole vittime.
Luca protese una mano a sfiorare con delicatezza i freddi numeri in bronzo della data di morte.
Suo padre era vissuto quasi nove mesi dopo la diagnosi e l’intervento d’urgenza a cui era stato sottoposto all’ospedale di Rovigo. Dopodiché era stato un continuo entrare e uscire dai diversi reparti, da quello di neurochirurgia a quello di medicina, fino alla lungodegenza.
Talvolta aveva pensato che la sua famiglia fosse stata colpita da una maledizione.
Spostò lo sguardo a destra, sul loculo dove riposava sua madre. Elisabetta Barbieri, 7/5/1955 – 11/7/2006. Un cancro al pancreas se l’era portata via in dieci giorni. Luca era da poco entrato in polizia e non si trovava nemmeno a Ferrara quando gli eventi erano precipitati da un momento all’altro. Suo padre invece le era rimasto sempre accanto. Aveva poi affrontato il lutto con il silenzio e la dignità che lo avevano sempre contraddistinto. Il sorriso aveva un po’ tardato a tornare sul suo volto. E quando poi era riapparso, era un po’ meno luminoso di prima. Ma aveva continuato ad andare avanti, da solo. Non si era mai riaccompagnato con un’altra donna. Con l’arrivo di Matteo, poi, le cose erano cambiate, perché suo padre era improvvisamente ringiovanito di almeno dieci anni. Il sorriso era tornato quello di una volta. Si fermava molto spesso a casa loro per dare una mano a Claudia; sembrava non volesse mai staccarsi dal nipote. E Matteo non poteva che ricambiare quest’affetto con altrettanta gioia, e un legame così forte e prematuro con il nonno, che ancora oggi Luca si stupiva dei ricordi che il bambino aveva di lui.
«Glioblastoma», aveva sentenziato uno dei neurochirurghi che lo avrebbero operato al cervello di lì a tre giorni. Luca non ricordava molto di quella serata, soltanto il senso di sconforto e di come, nell’ascensore dell’ospedale, Claudia gli avesse dato la forza e il sostegno che gli servivano.
Scacciò dalla mente i lunghi mesi di calvario che ne erano seguiti, tra poche speranze e innumerevoli sconfitte. Con una mano accarezzò il viso del suo genitore. Si rese conto che non era giunto sin lì per ricordare il dolore attraversato da suo padre, quanto per cercare un consiglio. Se Carlo Giatti fosse stato lì in quel momento, avrebbe certamente tirato fuori una delle sue massime per cercare di consigliarlo nelle indagini che riguardavano il caso del Mostro. E ciò anche se suo padre non era stato un poliziotto, ma un semplice muratore che aveva lavorato duro per tutta la vita fin da quando aveva quattordici anni. Seppur con poche risorse, lui e sua madre avevano sgobbato per mantenergli gli studi e lui… lui non era riuscito a fare nulla prima per sua madre e poi per suo padre.
«Hai fatto tutto quello che era in tuo potere», gli aveva ripetuto più di una volta Claudia.
Una parte di Luca sapeva che era vero, ma un’altra si sentiva ancora così in colpa.
Prega, Luca. Gli erano tornate in mente le parole di suo padre. Non dimenticare mai che pregare è importante.
Sì, certo, sia suo padre che sua madre erano stati molto religiosi, non avevano mai perso la fede, cosa che lui non poteva dire di se stesso non tanto dopo la morte della madre, ma proprio dopo quella del padre.
Come può un uomo continuare a soffrire così tanto fino a consumarsi? si chiese non per la prima volta. Dov’era Dio in quel momento?
E lui aveva pregato. Ah, Cielo se aveva pregato! Ma a cosa era servito?
In risposta gli giunse l’avviso di ricezione di un SMS.
Estrasse lo smartphone dalla tasca interna della giacca. Era un messaggio di Claudia. Puoi tornare a casa?
Non doveva essere così urgente, perché non lo aveva chiamato direttamente come aveva fatto nel pomeriggio. Eppure Luca avvertiva comunque dell’ansia in quel singolo messaggio, in quanto anche se lei forse si era abituata ai suoi ritardi – e quella giornata ne era un esempio – non gli aveva mai chiesto esplicitamente di tornare a casa.
Digitò in fretta un messaggio di risposta – arrivo subito – ammettendo con se stesso che magari, vista la situazione, si vergognava un po’ a chiamarla.
Poi ripose il cellulare nella giacca, lanciò un’ultima occhiata alle foto dei suoi genitori, e si avviò verso l’uscita.
Vilmer Menegatti era vicino all’ingresso che lo attendeva. Quando il custode si accorse del suo arrivo, prese ad armeggiare con il cancello di ferro, muovendolo avanti e indietro, e addirittura piegandosi un po’ in avanti per osservare meglio qualcosa.
Quando Luca fu a non più di due metri di distanza, l’uomo disse: «Ah, devo dare una sistemata a questi cardini: senti qua come cigolano, non è vero, ispettore?»
«Sì, è vero», rispose subito Luca, sentendo però l’urgenza di aggiungere: «Grazie tante per la sua pazienza, e mi scusi ancora se le ho fatto perdere altro tempo.»
Il custode si raddrizzò sulla schiena. «Ma si figuri. Lei è un bravo figliolo… ce ne dovrebbero essere di più di figli come lei che vengono a portare un saluto ai loro genitori.»
Luca si fermò appena al di là del cancello. La sera stava tingendo di colori quasi surreali sia Vilmer che il camposanto dietro di lui. «Loro ci hanno dato tutto», disse con un sorriso. «Venirli a trovare mi sembra il minimo.»
Il custode si fece serio e abbassò lo sguardo. Sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma allo stesso tempo era titubante.
Luca divenne serio a sua volta. «C’è qualcosa che non va, Vilmer?»
L’uomo tornò ad alzare gli occhi su di lui. «Non le ho mai chiesto nulla del suo lavoro, ispettore.»
«Sì, lo so. È stato sempre molto riservato.»
«Però adesso le vorrei chiedere… ecco, le vorrei chiedere di catturare al più presto quel Mostro.»
Luca si sentì un attimo spiazzato. «Stiamo facendo del nostro meglio, non si preoccupi.»
«Vede, uno di quei bambini uccisi dal Mostro è stato seppellito qui.»
Luca sentì un tuffo al cuore, perché non lo sapeva. Tuttavia avrebbe dovuto immaginarselo, visto che quello era solo il cimitero più piccolo dei tre presenti a Ferrara.
«E io… io…» aggiunse indeciso il custode «… non vorrei vedere quello strazio sul viso di altri genitori.»
Luca tornò ad avvicinarsi al cancello, accompagnato da una sensazione sempre più estraniante. «Mi dispiace, non sapevo che uno dei bambini fosse stato seppellito qui. Ma non si preoccupi, Vilmer.» Attese qualche secondo, scrutando attentamente gli occhi del custode quasi coperti dalla coppola. E concluse che poteva anche sbilanciarsi un po’. «Abbiamo delle tracce. Stiamo seguendo una pista.»
Non era proprio la verità, ma sperava che presto lo sarebbe diventata.
Vilmer Menegatti abbozzò un lieve sorriso sotto i folti baffi. «Lo so che lei è bravo…»
«C’è tutta una squadra dietro di me», sottolineò Luca, interrompendolo.
«D’accordo, sì, ma non deve sminuirsi, perché sono certo che suo padre non approverebbe.»
Luca non sapeva se il custode avesse mai conosciuto suo padre, probabilmente sì. Ma ora non aveva più tempo per indagare la cosa. «Grazie. E grazie ancora per la sua pazienza.»
«Si figuri», disse Vilmer Menegatti, portandosi due dita alla coppola, «le auguro una buona serata.»
«Arrivederci», lo salutò Luca avviandosi verso l’Alfa.
Alle sue spalle giunse il cigolio dei cardini di ferro e poi il lieve clangore del cancello che si chiudeva.
Forse anche Luca avrebbe dovuto chiudere la porta sul suo passato e andare avanti, senza continuare a guardarsi alle spalle. E non credeva che la cosa fosse difficile – per quanto in parte lo addolorasse ancora – tuttavia si convinceva sempre più che ci fosse qualcosa di importante che doveva capire. Era come una vocina insistente che continuava a
(pregare)
parlare in una stanza chiusa e lui non riusciva ad afferrarne le parole.
Quando salì in macchina e avviò il motore, il tramonto aveva ormai fatto accendere i lampioni. La sera stava spegnendo quella giornata, le persone andavano tutte a ritirarsi nelle loro abitazioni, ambendo al meritato riposo. Ma la mente di Luca era più accesa e attiva che mai.