È ormai pomeriggio inoltrato quando quello stesso giorno il Mostro si sveglia nel suo appartamento. Con lo stomaco sottosopra si alza dal letto rendendosi conto di essere ancora vestito e di indossare i guanti neri. Se li sfila e li butta a terra, poi si porta una mano alla testa. La pelle del cranio è fresca e fortunatamente ha avuto l’accortezza di togliersi almeno la parrucca prima di salire. Anche se ricorda di non aver incrociato nessuno, l’ora tarda ma soprattutto i capelli finti avrebbero potuto insospettire ben più di un vicino.
Comincia a svestirsi, avvertendo un certo indolenzimento in tutto il corpo. Probabilmente ha dormito troppo.
Lo sai bene che non è per questo che ti senti così, torna a farsi sentire una vocina nella sua testa. E questo non è proprio il momento di rimanere ad ascoltarla.
Nudo, si dirige verso il bagno e getta gli abiti nel cesto della biancheria sporca. Poi apre l’acqua della doccia e attende che il vapore appanni la specchiera sopra il lavandino: non ha voglia di guardarsi in volto. Mille pensieri si stanno accavallando appena dietro la sua coscienza, ma lui si infila sotto il getto bollente per cercare di stemperarli. E per qualche minuto funziona.
Mentre si passa l’acqua su tutto il corpo per togliersi la seconda insaponata, nel box doccia risuona un lungo brontolio del suo stomaco. Eppure continua a provare una certa nausea.
Si rivede per un attimo sul ciglio della strada a vomitarsi quasi sulle scarpe. Un rigurgito acido gli sale in gola e lui lo ricaccia indietro bevendo un sorso d’acqua calda. Per quanto in questo momento non se la senta, deve comunque mettere qualcosa nello stomaco.
Chiude l’acqua, esce dalla doccia e comincia ad asciugarsi.
È in quel momento che gli sembra di sentire una risata. Si blocca, con l’asciugamano intorno alle gambe. Lentamente si drizza sulla schiena. Il bagno è saturo di vapore, fatica quasi a vedere il lavandino a pochi centimetri davanti a sé. Tra quelle volute calde risuona ancora qualcosa: non una vera e propria risata, ma quasi un singulto ovattato, come se chi ha riso in precedenza adesso stesse cercando di trattenersi con una mano davanti alla bocca.
Il Mostro si sente sfiorare dietro la nuca da un dito freddo.
Si gira lentamente, avvertendo la pelle di tutto il corpo accapponarsi, i testicoli contorcersi.
Non c’è nessuno lì dentro con lui, eppure…
Allunga una mano e apre la porta, facendo così disperdere il vapore nel corridoio. Con la coda dell’occhio intravede un movimento. Si gira di scatto e quasi si spaventa nel vedere la sagoma di se stesso riflessa nella specchiera.
Datti una calmata, perché non c’è nessuno qui con te.
Si dà dello stupido. Finisce di asciugarsi in fretta, si infila un paio di mutande pulite e allunga una mano per togliere la condensa dallo specchio, ma si ferma a mezz’aria.
Chi credi ti guarderà da quell’immagine riflessa? si ritrova a pensare. Hai forse paura?
Chiude piano il pugno davanti a sé, si gira, lancia l’asciugamano sul cesto della biancheria ed esce dal bagno. Torna in camera da letto. Preleva dall’armadio un paio di pantaloni beige e una camicia bianca e inizia a vestirsi. Il suo sguardo rimane per qualche secondo fisso sul letto sfatto. Pare quasi che ci abbiano dormito due persone. Le pieghe impresse sul cuscino e sulle coperte a sinistra sembrano ricalcare la forma di un corpo.
Marta dormiva da quella parte, gli ricorda una delle tante voci che scalpitano dentro di lui per farsi ascoltare.
Marta non esiste più, si impone, uscendo dalla camera senza rifare il letto.
Attraversa il corridoio. Sente un alito freddo dietro di sé.
Accelera il passo.
La porta dello studio è aperta. Entra. La luce del sole inonda la stanza. Come di consueto si ferma al centro, si volta e, senza alzare lo sguardo al crocefisso appeso sopra la porta, si inginocchia a terra a capo chino e congiunge le mani davanti a sé.
«La Tua volontà è stata fatta, mio Signore», dice, avvertendo un lieve tremolio nella voce. «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.» Si fa il segno della croce. «Questa notte ho combattuto ancora, mio Signore», aggiunge, continuando a guardare il pavimento. «Ma il Maligno ha saputo fuggire un’altra volta.»
Il senso di colpa che lo attraversa è enorme. Si inchina ancora di più, e ora ha la testa che quasi sfiora il pavimento.
Tu credi di non alzare lo sguardo perché ti senti un inetto nei confronti del Signore Dio tuo, gli dice una vocina. Il Mostro chiude gli occhi, cercando di scacciarla, ma non ci riesce. Non è per questo che non alzi lo sguardo verso il Signore che soffre inchiodato alla croce, continua la vocina e lui allora comincia a pregare.
«Padre nostro, che sei nei Cieli, sia santificato il Tuo nome…»
Tu non alzi lo sguardo perché hai paura che Lui ti abbia seguito fin qui…
«… venga il Tuo Regno, sia fatta la tua volontà…»
… nel luogo dove credi di essere al sicuro…
«… come in Cielo così in Terra. Dacci il nostro pane quotidiano…»
… ma ormai non c’è più nessun luogo sicuro per te.
«… e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori…»
Il Maligno si è preso tutto dalla tua vita e ora si prenderà anche te…
«… e non ci indurre in tentazione…»
… forza, alza la testa, Lui è sulla porta e ti sta guardando!
«… ma liberaci dal male! Amen!»
Conclude la preghiera quasi gridando. Apre gli occhi e si alza in piedi con uno scatto. E sul muro di fronte alla porta aperta dello studio c’è un’ombra. Solleva all’istante la mano destra, nel riflesso condizionato di puntare la pistola di fronte a sé. In quel momento anche l’ombra si muove, e il Mostro si rende conto, stupidamente, che sta guardando… che si è sentito intimorito dalla sua ombra proiettata sul muro del corridoio.
Abbassa il braccio sentendo mille voci dentro di lui che lo deridono. Questa volta porta lo sguardo al crocefisso. Si sente le guance in fiamme, perché molto probabilmente sta arrossendo.
Non deve esserci alcuna vergogna in presenza del Signore Dio tuo, si fa strada un’altra voce.
Eppure è così che si sente. Il Maligno non può entrare nella Sua casa.
Si fa di nuovo il segno della croce ed esce dallo studio, pensando che in ogni caso quella non è la casa del Signore.
Quando raggiunge la cucina ha il fiatone. Appoggia le mani davanti ai fornelli ed emette un lungo sospiro cercando di calmarsi. Rimane così, con lo sguardo perso nel vuoto, per diversi minuti, i pensieri e i ricordi che vorticano dentro la sua testa senza sfociare in nessun senso compiuto.
Poi sente ancora lo stomaco borbottare. Prende un pentolino, lo riempie d’acqua e lo mette a scaldare. Da una mensola in alto prende una scatola rossa e ne estrae una bustina di tè. Mentre attende che l’acqua si scaldi accende il piccolo televisore appoggiato sul tavolo. Con il telecomando comincia a fare un lungo zapping: un concorso a premi, uno sceneggiato, un film, una partita di calcio, una di pallanuoto, un cartone animato, un altro film, e poi eccolo, un telegiornale nazionale. Mentre le notizie politiche si susseguono sempre uguali una dietro l’altra, torna a girarsi verso i fornelli, spegne il fuoco e si prepara il tè.
«… ed è proprio di questa mattina il ritrovamento del corpo di un altro povero bambino brutalmente ucciso dalla mano del Mostro…» dice la voce della giornalista alle sue spalle.
Il Mostro rimane un attimo interdetto, i pensieri che riprendono a funzionare.
Com’è possibile che lo abbiano già trovato? si chiede, andandosi a sedere al tavolo. Sorseggia il tè, che gli diffonde un forte calore allo stomaco, andando ad acquietarne i brontolii.
«… ma sentiamo dalla voce diretta del testimone…» continua la giornalista, una bionda con gli occhiali.
Il Mostro si blocca con la tazza sospesa in aria, le orecchie tese e gli occhi incollati alle labbra della reporter, la quale viene prontamente sostituita da un servizio registrato in cui viene inquadrato da lontano un casolare abbandonato, circondato da alcuni alberi ad alto fusto e tutt’attorno numerose auto della polizia. Dopo pochi secondi la costruzione si sfoca, allontanandosi ancora di più, e la telecamera inquadra il viso scarno e cotto dal sole di un uomo sulla quarantina, gli occhi spaventati. Un grande microfono gli viene quasi sbattuto in faccia. In basso a sinistra dello schermo compare una didascalia: ARNALDO BUZZI, AGRICOLTORE, TESTIMONE OCULARE.
«Ma sì, come ho già detto per tutto il giorno alla polizia…» sta dicendo il signor Buzzi, visibilmente infastidito, «io ho visto soltanto i fari di un’auto allontanarsi durante la notte. Mi sono insospettito perché non è la prima volta che dei ragazzacci vengono a fare casino in questa vecchia casa che era dei miei genitori…»
L’uomo sta continuando a parlare, ma il Mostro afferra solo qualche brano (qualcosa a che fare con il duro lavoro nei campi e quanto sia faticoso costruirsi qualcosa, per poi vederselo distruggere da dei ragazzi scriteriati), perché la sua mente è concentrata a ricordare tutto ciò che ha fatto la sera precedente.
Hai perso molto tempo, gli suggerisce subito la vocina.
No, non è vero, si risponde.
Poi riporta l’attenzione sul telegiornale, perché quel Buzzi sta dicendo qualcosa di molto importante. «No, ve lo ripeto: non so che macchina fosse, ho visto solo dei fari e quel… quel povero bambino, io ho due bambini, sa? E questo…»
Il contadino va ancora avanti, quasi piagnucolando, ma il Mostro ha sentito abbastanza.
Quell’uomo non mi ha visto. Quell’uomo non ha visto la mia auto.
«Ma hai comunque rischiato troppo», sussurra tra le labbra, alzandosi in piedi.
Alla televisione ricompare il mezzobusto della giornalista bionda. «Tuttavia alcune indiscrezioni trapelate da fonti non ufficiali degli inquirenti», continua la donna, «parlano di una vettura scura, molto probabilmente una vecchia Volvo, vista allontanarsi dal luogo del delitto. E ora passiamo alla politica estera…»
Il Mostro allunga una mano sul telecomando e spegne la TV.
Nella tazza sono rimaste poco meno di due dita di tè.
È come il tempo che ti è rimasto, gli dice la vocina. Ti hanno quasi scovato e la tua battaglia contro il Maligno non è ancora finita.
«Non è la mia battaglia, è la battaglia di Dio contro il Male», sussurra.
Bene, e credi che Dio sia contento di questa situazione?
«Non mi hanno ancora preso, e non mi prenderanno», dice con più enfasi, battendo una mano sul tavolo. «Finché non avrò finito il compito che Lui mi ha affidato.» Poi raccoglie la tazza. «Di tempo ce n’è ancora», conclude, bevendo tutto d’un fiato il tè rimasto.
Per quanto non lo credesse possibile, quella sera stessa il Mostro si addormenta molto presto. È rimasto tutto il resto del pomeriggio nello studio, a pregare e a meditare sulle prossime mosse. Non ha più acceso il televisore. Ha invece sfogliato il raccoglitore con i ritagli di giornale. Avanti e indietro, diverse volte, finché non ha concluso che la notte precedente il Maligno si è quasi preso gioco di lui. Lo ha deriso, ingannato con i suoi falsi sospiri tra le foglie degli alberi, e poi illuso e ferito con la stanza dei ricordi spalancata a quel modo. E tutto questo con il risultato di trattenerlo più del dovuto nel luogo della purificazione e farlo quasi scoprire. Dopo tutti gli altri scontri, infatti, i corpi ormai vuoti delle piccole bestie sono stati ritrovati alcuni giorni dopo l’avvenuta liberazione. E invece questa volta non è andata così.
Prima di coricarsi ha cenato con un’insalata e un po’ di tonno: lo stomaco non era ancora del tutto a posto.
Sei sicuro che sia solo per questa ragione che hai mangiato leggero? gli ha chiesto la vocina.
Il Mostro non si è dato una risposta, e anzi si è addormentato quasi subito, sprofondando in un sonno questa volta privo di sogni.
Alle 7:30 del mattino successivo è già uscito dal palazzo. Indossa una giacca leggera marrone e gli occhiali scuri. A quell’ora l’aria è ancora fresca, sebbene già a metà mattina si sarà parecchio riscaldata.
«Si preannuncia un’estate molto calda», sente dire a un vecchietto mentre cammina.
«Ah, e l’inverno quest’anno non c’è nemmeno stato», gli risponde un altro.
Entrambi vestono giacche pesanti, fuori stagione e hanno il cappello calcato in testa. Si sono fermati al centro del marciapiede, i sacchetti del pane appena acquistato in mano. Il Mostro li supera, sentendo l’ultimo strascico di conversazione. «Eh, sì, quando ero giovane io ogni mattina c’era un ghiaccio…»
Il Mostro non vuole sentire altro. Allunga ancora di più il passo.
Dopo pochi secondi sbuca in viale Cavour. La larga strada è già occupata da diverse auto, corriere di turisti e autobus cittadini. Numerosi ciclisti, perlopiù studenti, sfilano davanti a lui sulla pista ciclabile, per poi immettersi direttamente sulla via principale, per la maggior parte incuranti delle auto che sopraggiungono, come se avessero una speciale corazza invisibile a proteggerli.
Il Mostro svolta a sinistra. A circa centro metri svetta davanti a lui il Castello Estense. Solleva lo sguardo verso le torrette più alte e per un attimo, a causa forse della particolare inclinazione della luce del sole a quell’ora, l’immagine assume dei contorni un po’ sfocati, come se avesse davanti non la realtà ma un disegno al carboncino successivamente colorato. Sbatte gli occhi e torna a guardare davanti a sé, perché non vuole rischiare di urtare qualcuno, e non tanto per la preoccupazione di fargli del male, ma proprio perché adesso non ha voglia di dar aria alla bocca per delle stupide scuse.
E se mi dovessero rispondere qualcosa, pensa, dovrebbero solo ringraziarmi per ciò che faccio per loro.
Eppure c’è un altro pensiero che gli attraversa la mente e che non c’entra niente con la sua missione odierna. Si ferma di botto in mezzo al marciapiede e, per quanto avesse cercato di evitarlo fino a un momento prima, una persona da tergo gli sfiora una spalla superandolo sulla destra.
«Mi scusi», si sente dire da lontano.
Il Mostro non guarda chi ha parlato, perché la sua attenzione è tornata a rivolgersi al Castello. C’è qualcosa di strano. Vede qualcosa di strano. Si toglie gli occhiali da sole, ed eccole: delle linee dritte che seguono i profili delle torri, sia in verticale che in orizzontale, come se i margini di quelle parti della reggia fossero stati ricalcati con una grossa matita,
(non è la matita giusta da usare)
in modo così intenso
(non è della durezza giusta)
che quasi gli sembra di vedere quelle stesse linee proseguire nell’aria, oltre i margini reali delle torri del Castello. Ecco, ora gli sembra di ricordare un’immagine simile. Per un attimo davanti agli occhi rivede un tavolo da disegno tecnico, con tanto di tecnigrafo. Il suo tecnigrafo, uno strumento che ormai non veniva più utilizzato da tempo nello studio dove prima lavorava…
Il Mostro si passa una mano sugli occhi e torna a guardare il Castello: non ci sono più strane linee parallele che sfuggono dalle solide pietre rosse verso l’aria tersa di quella mattina di giugno. Si rimette gli occhiali e riprende a camminare.
Non ha messo ancora niente nello stomaco dalla sera precedente, e forse è per questo che la sua mente ha divagato in quei ricordi. Ricordi di un passato che ormai credeva fosse morto e sepolto.
Ma prima di tutto deve passare per… l’edicola, eccola! La stava quasi per superare. Il Mostro si ferma e si infila tra i vari espositori, allungando quasi il collo in quello che gli sembra a tutti gli effetti un anfratto costituito da riviste, settimanali dagli svariati colori, libri e quotidiani.
«Buongiorno. La Nuova, grazie», dice a voce alta, cercando di mascherare lo spaesamento.
«Ah, buongiorno a lei, dottore», gli risponde l’edicolante sorridendo. Barba incolta, calvo, sulla quarantina. Indossa uno spolverino scuro, e al collo ha una sciarpa viola che sembra di seta.
Il Mostro lo ha sempre considerato l’uomo sbagliato al posto sbagliato.
«Come va, dottore, tutto bene?» gli chiede, porgendogli una copia de «La Nuova Ferrara». L’uomo porta diversi anelli che quasi ricoprono tre dita della mano destra e numerosi braccialetti dai svariati colori al polso.
«Sì, bene, grazie», gli risponde il Mostro. Gli dà fastidio l’appellativo con cui lo chiama ogni volta, anche se sa che è solo per rispetto e non tanto per quel titolo che non gli appartiene, anche se molti nella zona conoscono il suo passato.
Cos’è, vorresti forse che ti chiamasse architetto? lo canzona una vocina da molto lontano.
Lui la scaccia via e, rendendosi conto che sta facendo aspettare l’edicolante, aggiunge: «Mi scusi, ero sovrappensiero. Mi darebbe anche Il Carlino?»
L’uomo davanti a lui non perde mai il sorriso. «Ma certo, ci mancherebbe!» dice con altrettanta enfasi raccogliendo una copia del quotidiano, poi la piega in due e gli porge entrambi i giornali. «Ecco a lei, dottore.»
Il Mostro allunga un braccio per prenderli mentre con l’altra mano rovista in una tasca e ne estrae una banconota da cinque euro. Fanno lo scambio e il Mostro, mentre attende il resto, si infila i giornali piegati sotto il braccio sinistro.
L’edicolante prende le monete da sotto il bancone e gliele allunga: «Ha visto, dottore? L’hanno messa sul giornale!»
Il Mostro ha già la mano aperta davanti a sé per raccogliere il resto, quando si blocca a pochi centimetri dalle dita piene di anelli dell’altro. Sente una forte stretta allo stomaco e vorrebbe togliersi gli occhiali da sole come se così potesse sentire meglio quello che l’edicolante ha appena detto. Ma allo stesso tempo non lo fa, perché adesso è convinto, anche se assolutamente non riesce a comprenderne il motivo, che l’edicolante davanti a lui – di cui non conosce neanche il nome – ha capito tutto. Anzi, forse non è nemmeno un edicolante, ma un poliziotto sotto copertura e tra poco il Mostro sarà circondato da altri agenti che lo arresteranno.
«Mi scusi?» riesce a chiedergli alla fine, cercando di non far trapelare la preoccupazione.
L’uomo si allunga ancora un po’ di più verso di lui e gli fa cadere le monete nella mano aperta. «La sua auto, intendo», dice, rientrando con il busto all’interno del suo anfratto fatto di carta, al pari di una lumaca che ritira le corna. Sorride ancora, ma le pieghe della bocca sembrano un po’ meno gioiose di prima.
Ci siamo, prima o poi doveva accadere, gli dice prontamente una vocina. Ti hanno beccato. È meglio se te ne vai. Si infila distrattamente il resto in una tasca dei pantaloni e in quel momento viene sfiorato da qualcuno alle spalle. Sta quasi per sussultare dalla sorpresa, convinto che si tratti effettivamente di un agente venuto ad arrestarlo. E invece è solo un uomo che sta osservando l’espositore girevole vicino a lui.
«Tutto bene, dottore?» Adesso l’edicolante non sorride più.
Stai calmo! Probabilmente hai solo inteso male…
«Certo, certo, è solo che… non ho capito bene a che auto si riferisca.»
«Ah, mi scusi, ha ragione», risponde l’uomo, tornando a sorridere. «Sono talmente preso da questa storia che a volte credo che anche tutti gli altri lo siano. Be’, comunque è quasi sulla bocca di tutti. Sto parlando dell’auto del Mostro, naturalmente.»
Ormai è evidente che l’edicolante non sa che sta parlando della stessa persona che ha di fronte, eppure c’è qualcosa nelle sue parole che lo fa preoccupare ancora di più. Decide quindi di prolungare il silenzio, fingendo incomprensione o addirittura disinteresse: non vuole dire qualcosa che possa tradirlo.
«È sulla Nuova, ma anche sul Carlino», prosegue l’edicolante. Adesso il suo sorriso è un po’ tirato, come se faticasse a concepire il fatto che “il dottore” non sia interessato all’argomento. «Dottore, hanno fotografato l’auto del Mostro. Questo vuol dire che presto lo prenderanno!»
«Bene, così quell’incubo finirà!» risponde forse con troppa enfasi il Mostro.
L’edicolante sembra quasi indietreggiare un po’ con le spalle, come se non si aspettasse una risposta così ferma dopo quel silenzio.
«Grazie e buona giornata», prosegue il Mostro. Poi si gira e riprende il cammino a ritroso verso il suo appartamento.
«Buona giornata anche a lei, dottore!» lo saluta dopo un attimo l’edicolante. Se lo immagina con la testa che sporge dal suo buco di carta e giornali, come la lumaca di prima che è tornata a stendere le sue antenne.
Il Mostro scaccia dalla mente quell’omuncolo, che comunque gli ha dato da pensare. Con la mano destra va a stringere i quotidiani che tiene ancora infilati sotto il braccio sinistro. Se hanno davvero fotografato la sua auto, vuol dire che…
Vorrebbe aprire i giornali lì, davanti a tutti, ma non vuole attirare l’attenzione. Si guarda un attimo in giro: le vetture e gli autobus ora sono quasi incolonnati sulla strada alla sua sinistra, i ciclisti sfilano incuranti nel traffico, numerose persone gli camminano attorno: chi intento a parlare o solo a guardare il cellulare e chi effettivamente a leggere i giornali in piedi o seduto davanti a un bar.
Ma non è per quello che non vuoi fermarti anche tu a leggere, lo solletica la vocina. La verità è che hai paura della reazione che potresti avere…
Io non ho paura!
Poi cerca di concentrare la sua attenzione solo sul marciapiede, un passo dopo all’altro, sempre più vicino a casa.
Una fresca brezza comincia a spirare davanti a lui, facendogli sbatacchiare la giacca sui fianchi. Poi ancora, questa volta con più insistenza. Il Mostro fatica per un attimo ad avanzare. La gente attorno a lui si mette la mano sul collo, altri si tengono stretto il cappello in testa. Il vento continua a spirare, questa volta andando più in alto e incuneandosi tra i palazzi di viale Cavour. Il Mostro ne avverte il fischio modulato e in quel momento alle sue orecchie giunge quella che sembra a tutti gli effetti una risata.
Quella risata.
Lancia ancora uno sguardo alle persone attorno, ma si rende conto che non devono aver sentito nulla, perché leggono ancora il giornale o camminano indisturbate per i fatti loro. No, certo, perché quella continua a essere solo una battaglia tra lui e il Maligno. Come il vento, la risata persiste e lui cerca di far finta di niente, aumentando però la forza nelle gambe.
Di nuovo quel suono, che sembra quasi un ticchettio. Un ragazzo in bicicletta sta pedalando verso di lui: sulle spalle indossa un grande zaino nero che gli supera la testa. Mentre il ciclista quasi lo sfiora, lo zaino si gira verso di lui assumendo le sembianze di quell’ombra, la cui testa è formata solo da una bocca di denti aguzzi che si apre e si chiude rapidamente, picchiettando come un martello pneumatico. Con la coda dell’occhio vede infine una lunga scia nera che sembra una coda biforcuta che quasi lo frusta nel suo passaggio.
Il Mostro accelera il passo e dopo pochi minuti svolta finalmente in Contrada della Rosa e il vento e quel suono si acquietano immediatamente. Non perde altro tempo. Dopo pochi secondi è già all’ingresso del palazzo e, mentre prende l’ascensore per salire al suo appartamento, si toglie gli occhiali scuri e li ripone in una tasca interna della giacca.
Appena arrivato, senza esitare, si fionda subito nello studio. Quando varca la porta appoggia i giornali sulla scrivania, si toglie la giacca buttandola su una sedia e poi si gira, si inginocchia e si fa il segno della croce.
È ansioso, ma la fretta non può prevaricare il rispetto.
«Ti ringrazio, mio Signore, perché anche oggi mi trovo qui al Tuo cospetto, pronto per essere la Tua mano.»
Rimane fermo così qualche secondo, la testa reclinata sul petto, mentre il fiatone si trasforma in lunghi respiri meditativi. Quando si sente abbastanza calmo, si segna di nuovo e finalmente solleva lo sguardo verso il crocefisso. Come sempre il Signore ha lo sguardo dolorante rivolto verso l’alto. Nulla è cambiato.
Forse non è ancora giunto il momento della Sua parola. Si alza quindi in piedi, gira attorno alla scrivania e si siede. Afferra «La Nuova» con forza, quasi che il quotidiano sia provvisto di gambe e possa scappargli da un momento all’altro. Lo sfoglia velocemente, trovando quasi subito nella cronaca nera quello che sta cercando.
A mezza pagina campeggia la foto in bianco e nero e un po’ sgranata della sua Volvo. È girata verso sinistra, la prospettiva leggermente inclinata. La targa è stata sgranata ulteriormente in modo da risultare illeggibile, ma non ci sono dubbi: quella è la sua macchina e alla guida c’è lui, può vedere la parrucca scura che sporge in cima al sedile di guida. Una telecamera di sorveglianza. L’omuncolo dell’edicola aveva parlato di una fotografia, ma in realtà si tratta del fermo immagine di una registrazione.
Be’, e di che ti stupisci? Sapevi che prima o poi saresti stato immortalato da uno di quegli aggeggi. La città ne è disseminata, ormai.
Certo, e lui infatti ha preso le sue precauzioni, eppure…
IL MOSTRO CATTURATO MENTRE FUGGE DOPO AVER RAPITO LA SUA ULTIMA VITTIMA
recita a caratteri cubitali il titolo dell’articolo.
Sì, vi piacerebbe che stessi fuggendo, pensa subito lui. E poi va avanti a leggere.
È stato ritrovato ieri mattina, in un casolare abbandonato poco fuori Ferrara, il corpo senza vita di un altro bambino, S. B., brutalmente ucciso dal Mostro, il pluriomicida che viene ormai considerato come uno dei più efferati serial killer degli ultimi anni. Come per tutte le altre vittime, il piccolo S. B. è stato freddato con un colpo di pistola alla testa. La madre, F. B., single, disperata, si è chiusa nella sua abitazione, in un profondo e doloroso silenzio. Il bambino era appena stato rapito nel pomeriggio, ma una telecamera di sorveglianza ha immortalato l’auto del Mostro. Le indagini condotte fino a questo momento dalla task force della Polizia di Stato, capitanata dall’ispettore Luca Giatti, hanno portato gli inquirenti a concludere che la vettura, una vecchia Volvo scura, sia proprio quella del Mostro e invitano tutta la cittadinanza a segnalare alla Polizia o anche all’Arma dei Carabinieri qualsiasi auto di questo tipo. Il sindaco di Ferrara, Tarroni, ha comunicato di essere sconvolto da questi tragici eventi che stanno macchiando di sangue la città, e si stringe al dolore della madre del piccolo S. B. e di tutte le famiglie degli altri bambini brutalmente uccisi dalla mano del Mostro. «Il capo della Polizia mi ha assicurato», ha aggiunto il sindaco, «che le indagini per catturare il Mostro sono serratissime e che presto quel pazzo assassino verrà assicurato alla Giustizia.» La data delle esequie del piccolo S. B. non è stata ancora fissata, ma il Sindaco Tarroni ha già deciso che per quel giorno proclamerà il lutto cittadino, nel rispetto della piccola vittima ma anche di tutte le altre.
Il Mostro alza gli occhi verso il crocefisso. «Non hanno capito niente. Ma non è forse sempre stato così?» Apre un cassetto della scrivania e prende un paio di forbici. «Quando l’uomo si trova vicino a una cosa meravigliosa e più grande di lui, ne ha paura e la combatte.» Comincia a ritagliare l’articolo. «Tu stesso, mio Signore, hai combattuto contro l’incredulità.»
Quando ha finito lo ripone da una parte, poi prende anche «Il Resto del Carlino».
«E per questa ragione sei morto, Ti sei sacrificato.»
Sfoglia il quotidiano lentamente, superando le notizie di politica estera, interna, l’economia e una pubblicità sull’Abbazia di Pomposa, e tuttavia non ci mette molto a trovare anche lì un articolo simile a quello della Nuova, con la stessa identica immagine a mezza pagina.
«Ma io non posso morire, non adesso…» Prende le forbici e inizia a ritagliare l’articolo. «… quando la mia… la nostra battaglia non è ancora finita.»
Stringe tra le mani il pezzo di giornale e ne scorre le parole in fretta. Inserisce i due articoli in una busta trasparente, uno sopra e uno sotto, e si sofferma a osservare ancora le due foto identiche della sua auto e il nome dell’ispettore, di cui crede di aver visto anche una foto in un articolo più vecchio.
Se vuoi portare avanti ancora la tua battaglia, torna a galla la vocina interrompendo il suo ragionamento, non credi sia meglio fare qualcosa?
E questa volta non può darle torto. Gli vengono in mente i numerosi inquilini del suo stesso palazzo che lo conoscono, ma che soprattutto riconoscerebbero la sua auto. Fortunatamente non sono mai stati dei gran ficcanaso.
Ma visto ciò che è uscito sui giornali e quello che deve essere passato in televisione, quanto tempo credi che passerà prima che qualcuno bussi alla tua porta per farti delle domande?
D’improvviso ha una strana sensazione. Sente vacillare tutto quello che ha fatto fino a quel momento, come se si rendesse conto solo ora che la sua missione si poggia su delle palafitte consumate dal tempo e dall’acqua di un mare fatto di ombre. Quelle stesse ombre che talvolta si prendono gioco di lui, lasciandogli credere di poterle afferrare, quando in realtà sono loro… è Lui, il Maligno che lo sta erodendo da dentro.
Ti senti braccato? gli chiede semplicemente la vocina.
Il Mostro non le risponde, non ce n’è il tempo.
Chiude il raccoglitore e si alza in piedi. Guarda il crocefisso sopra la porta e per l’ennesima volta si fa il segno della croce, sentendo una nuova forza che quel semplice ma significativo gesto gli conferisce.
Raccoglie la giacca dalla sedia, la indossa e va in cucina, si infila velocemente due fette biscottate in bocca e, mentre sta ancora masticando, esce di casa, chiude a chiave e scende con l’ascensore. Quando sbuca nel corridoio d’ingresso del palazzo, saluta distrattamente un altro condomino e, invece di uscire dal portone principale, si infila a sinistra, in un piccolo deposito comune di biciclette. Sulla parete in fondo c’è una larga porta di vetro rinforzato verso cui si dirige. Abbassa il maniglione rosso antipanico e si ritrova all’esterno, a lato del palazzone, dove si trovano allineati tutti i garage degli inquilini.
Il Mostro si dirige verso il suo, che in realtà sono due, comunicanti tra loro tramite una piccola soglia all’interno. Dalla giacca estrae un telecomando e pigia un tasto. La porta basculante sulla sinistra comincia ad alzarsi e al contempo la luce all’interno si accende. Il Mostro si abbassa e vi si infila sotto quando il meccanismo non ha ancora finito del tutto la sua corsa. Una volta all’interno, preme ancora il tasto del telecomando e dopo pochi secondi si ritrova chiuso nell’ampio garage.
Attorno alla Volvo c’è abbastanza spazio per potersi muovere più che agevolmente. Di fronte al muso dell’auto c’è un tavolo da lavoro su cui campeggia solitaria una cassetta degli attrezzi. Di fianco al tavolo un attaccapanni, a cui il Mostro appende la giacca. Sulla parete di destra c’è la porta che comunica con l’altro garage. La attraversa e accende la luce. Qui il largo spazio è per la maggior parte occupato da quelle che lui ha soprannominato le numerose cianfrusaglie del suo passato. Alcune sono coperte con un telo, altre sono lasciate libere a prendere la polvere: scatoloni, due biciclette, alcuni mobili e altri oggetti che non vuole nemmeno ricordare.
Non erano solo cose tue, tenta una sortita un’altra vocina.
«Basta!» sussurra a denti stretti.
Ciò che gli interessa si trova nell’angolo in fondo. Un alto e largo armadio di legno che sembra anch’esso buttato lì a casaccio insieme agli altri mobili. Il Mostro estrae da una tasca un mazzo di chiavi e ne seleziona una, un po’ più piccola delle altre. Non è certo a prova di scassinatori, ma quanto basta a fermare l’eventuale curiosità di qualche vicino. Infila la chiavetta e apre un’anta. Alle sue narici giunge l’odore di polvere e plastica. Nelle varie scaffalature ci sono diversi giochi in scatola e altri per bambini più piccoli.
Vede il suo piccolo e indifeso cranio pelato mentre, seduto a gambe incrociate sul letto dell’ospedale, gioca con uno di quei…
Il Mostro fa schioccare la lingua sul palato, scacciando quell’immagine saltata fuori a sproposito dalla stanza chiusa dei suoi ricordi.
Con una mano nervosa sposta alcuni peluche di animali, e proprio dal fondo tira fuori la targa posteriore di un’auto: la vera targa della sua Volvo. Allunga ancora la mano e tira fuori anche quella anteriore, un po’ più stretta. Richiude l’armadio e torna nell’altro garage. Prende la cassetta degli attrezzi e si sposta verso il retro della vettura. Lancia uno sguardo attraverso i vetri sui sedili posteriori: i vari peluche di Peppa Pig e della sua famiglia sono ancora lì. Una volta scambiate le targhe, sistemerà anche quelli.
Si inginocchia, prende un cacciavite e si mette al lavoro, riflettendo sul fatto che forse per qualche giorno non uscirà di casa.