La giornata di giovedì in questura fu caotica. Dopo le notizie apparse sui giornali e l’invito diretto ai cittadini di dare il proprio contributo nel caso avessero visto qualcosa di sospetto, i telefoni e i cellulari erano impazziti. E non solo i loro, ma anche quelli delle stazioni dei Carabinieri. In particolare, nel pomeriggio inoltrato, il commissario Battistini aveva ricevuto una telefonata un po’ scomoda dal suo parigrado dalla stazione di corso della Giovecca, il capitano Longhi.
L’ispettore Luca Giatti in quel momento si trovava nell’ufficio del commissario e stavano discutendo proprio del polverone che si era sollevato dopo la pubblicazione della foto.
«Certo, hai ragione, Carlo», disse il commissario Battistini al telefono. «Ne stavo parlando proprio ora con l’ispettore Giatti, titolare del caso. Si collabora come sempre. Per gli articoli… sul punto è d’accordo anche il questore, domani non dovrebbero più uscire. Sì, certo, grazie, buon lavoro anche a voi.» Riagganciò.
Il tono confidenziale usato dal commissario celava perfettamente una certa antipatia che – Luca lo sapeva – Battistini provava nei confronti del capitano dei carabinieri Carlo Longhi. E tuttavia era vero: bisognava collaborare, adesso come non mai.
Il commissario sembrò leggergli nella mente, perché disse: «Non c’è niente da fare, abbiamo bisogno di tutti in questo momento, non è vero, Luca?»
«Certo, commissario.»
«Credi anche tu che sia stata una pessima idea quella di pubblicare la foto dell’auto del Mostro?» gli chiese a bruciapelo.
Luca si sistemò meglio sulla sedia. Guardò per un attimo l’immancabile sigaretta spenta tra le dita grassocce del superiore. Era incastrata tra l’indice e il medio, che puntava verso l’alto, immobile.
«Di sicuro ha smosso le acque», rispose, «e certamente per quei proprietari di una Volvo scura che non c’entrano nulla sarà un po’ una scocciatura…»
Il commissario lo interruppe: «Potrebbero essere additati dagli sconosciuti o peggio, dagli amici un po’ superficiali, come potenziali sospetti.»
Luca riprese la parola. «Ma ciò che speriamo è che il sospettato numero uno cominci a sentirsi accerchiato e che in qualche modo esca allo scoperto.»
«O sparisca per sempre.»
«Sì, certo, questa è una delle possibilità», ammise Luca, notando che il commissario aveva ripreso a picchiettare la sigaretta sul tavolo. «Ma non credo. Se si è dato tanto da fare per nascondere le sue tracce vuol dire che, qualsiasi cosa abbia in mente, quel dannato non ha ancora finito.»
«Lo credo anch’io.» Battistini appoggiò solo ora il busto contro lo schienale della sedia, che emise un sonoro cigolio. «Sei molto diplomatico nelle tue risposte.»
Lui si sentì stupito da quell’affermazione. «Grazie.» Ma era anche un po’ imbarazzato, e quindi riprese subito il discorso chiedendo: «Telefonate a parte, i risultati dall’ANIA cosa dicono?»
Il commissario emise una specie di sbuffo e Luca non capì se lo avesse fatto per insofferenza o solo per schiarirsi le idee anche lui. Difficile interpretare le espressioni del suo viso sotto quel barbone scuro quando gli occhi rimanevano quasi sempre impassibili. Poi Battistini allungò una mano – quella che reggeva sempre la sigaretta – verso il portatile aperto sulla scrivania alla sua destra, pigiando sulla barra spaziatrice. Quindi girò il computer verso di lui. «Ecco, la lista ci dà circa un centinaio di proprietari di una Volvo scura di quel tipo.»
«Mmh, a dire la verità pensavo di meno. Ma non importa, sono disposto a passarmeli uno per uno, se necessario.»
«Vuoi che te la stampi o te la mando sullo smartphone?»
«No, grazie, preferisco la stampa… e in ogni caso potremmo incrociare le segnalazioni delle telefonate con questa lista e assottigliare il numero.»
Il commissario premette un altro paio di tasti sul portatile. «Ecco fatto», disse, e forse in un altro ufficio stava uscendo una stampa. «Certo, ci sono già degli altri agenti all’opera per questo. Senti…» C’era una lieve incertezza ed era evidente che il commissario volesse cambiare argomento. «… immagino non sia stato facile andare a parlare con Federica Bonfatti.»
«No, non è stato facile», ammise Luca. «Anche se siamo rimasti in silenzio per quasi tutto il tempo.»
E ripensò all’incontro che aveva avuto con la sua amica, al pianto disperato davanti casa e alle poche battute che si erano scambiati una volta all’interno, ma soprattutto al senso di frustrazione che lo aveva accompagnato.
Questa volta in mezzo agli occhi del commissario apparve una piccola ruga, come se gli stesse leggendo dentro, e forse non era neanche così difficile dato che Luca aveva avvertito il corpo irrigidirsi quando era stato attraversato da quei ricordi.
«Già», disse Battistini, osservando un attimo la sua sigaretta. «Forse quella è la parte più difficile del nostro lavoro. Anzi, lo è di sicuro.» Poi alzò di nuovo lo sguardo su di lui. «E Claudia come l’ha presa?»
E qui si comincia ad andare sul personale, rifletté Luca, eppure sentiva che non gli dava fastidio. «È sconvolta, anche se cerca di non farlo vedere a nostro figlio.»
«Si chiama Matteo, vero?»
«Sì. Ieri lo abbiamo tenuto a casa dall’asilo e anche oggi, e poi abbiamo saputo della chiusura anticipata… mancavano comunque pochi giorni alla fine dell’anno scolastico e vista la situazione…»
«Sì, certo, hanno deciso per il meglio.»
«Claudia ha dovuto prendersi qualche giorno in più di permesso, ma all’università hanno capito e non dovrebbero esserci problemi.»
«Mi dispiace, so che tua moglie era tornata al lavoro da poco.»
«Sì, ma devo dire che in questa situazione sono stati più comprensivi di allora, quando Matteo era molto piccolo.»
«Che diamine, certo, ci mancherebbe. Senti, era proprio qui che volevo arrivare… ti dico subito che non ho cambiato idea sul fatto che tu debba continuare a seguire il caso, ma ora non puoi negare che per te e soprattutto per la tua famiglia stia diventando tutto un po’ personale e doloroso. Oltretutto credo che tuo figlio fosse amico di Stefano Bruni, giusto?»
«Sì, Matteo era amico di Stefano.» Questa volta Luca non mascherò l’ansia, sospirando sonoramente. «E devo ancora parlargliene.»
E Claudia vuole che sia proprio io a farlo, pensò, ritenendo che comunque fosse una cosa giusta da fare come padre.
«Non devi essere così preoccupato.»
«E come faccio a non esserlo? Ha appena sei anni, ed è convinto che siano solo i nonni anziani a dover morire, non certo i bambini.»
«E credi che lui non ne abbia ancora sentito parlare? Magari alla televisione?»
Luca non rispose, sentendo che quella conversazione stava prendendo una strana piega.
«In ogni caso, fidati: i bambini sono sempre più avanti di quello che crediamo», continuò il commissario. «Comunque», aggiunse poi, sporgendosi in avanti e appoggiando i gomiti sulla scrivania, «anche per questa ragione, vorrei che ti prendessi un giorno di riposo.»
«Ma, commissario, proprio adesso che le indagini sembrano trovarsi a una svolta decisiva», tentò di protestare Luca.
«L’unica cosa che ti lascio fare è prendere quella lista, puoi studiarla, se vuoi. Intanto ho già mandato quasi tutti gli agenti in giro per la città a tenere d’occhio alcuni degli uomini presenti nell’elenco. Nelle vie d’accesso, sia in uscita che in entrata a Ferrara, le pattuglie sanno bene cosa cercare. Stiamo lavorando intensamente.»
Dannazione, rifletté Luca, lui voleva prenderlo, quel bastardo, e ogni momento perso poteva essere un’occasione in meno. Però il commissario aveva ragione; forse avrebbe fatto meglio a rimanere qualche ora in più con la sua famiglia.
«Anche per i figli della famiglia Massarenti», ricordò Luca. «Sono passati quasi tre giorni.»
«I ragazzi stanno battendo ogni casolare abbandonato, ogni canale d’irrigazione…»
Il ritrovamento quasi immediato del corpo di Stefano Bruni, infatti, aveva praticamente fatto cadere ogni speranza di ritrovare i fratelli Massarenti vivi. Il questore aveva fatto personalmente inviare una psicologa alla famiglia, per cercare di sostenere i coniugi nel dolore di un’attesa straziante.
Bussarono alla porta.
«Avanti!» disse il commissario.
Sulla porta fece capolino l’agente Vincenzi con un foglio in mano. «Commissario, ispetto’.»
«Ciao, Claudio», lo salutò Luca.
«Commissario, devo consegnarle solo questo», continuò l’agente. I suoi occhi correvano da un uomo all’altro. «Credo che abbia avviato lei la stampa nell’altra stanza.»
«Sì, agente, la consegni pure all’ispettore e grazie.»
Vincenzi si fece avanti e diede la lista a Luca, poi si girò, ma il commissario lo richiamò.
«Agente Vincenzi, mi scusi.»
«Mi dica, commissario.» Vincenzi si era quasi messo sull’attenti.
«Domani lei fa coppia con l’agente Lombardi, l’ispettore sarà impegnato altrove.»
Vincenzi, gli occhi un po’ smarriti, guardò per un attimo Luca, e questi pensò a quali strane idee si stesse facendo il suo sottoposto. Luca cercò di mantenere l’espressione impassibile.
L’agente Vincenzi salutò militarmente il commissario. «Agli ordini, signore.» Poi si girò e uscì dalla stanza.
Luca tornò a girarsi a sua volta verso Battistini. «È un bravo ragazzo, ligio al dovere.»
«Lo so, lo so.»
«Non sarà molto contento dell’accoppiata con l’agente Lombardi, sa, tra i due non corre buon sangue, anche se non ho mai capito il perché, ma in ogni caso Claudio sa bene che il lavoro è il lavoro.»
Battistini sorrise sotto la folta barba. «Appunto, ed è per quello che ho deciso di metterli assieme.»
«Commissario, tornando a noi», disse Luca, buttando un occhio distratto alla lista dei nomi, «le chiedo solo di chiamarmi…»
«Subito se dovesse saltare fuori qualcosa, certo. Tu sarai sempre il primo. Adesso tornatene a casa e domani rimanici. Stai coi tuoi e portali da qualche parte. Qui la situazione è sotto controllo.»
Luca ripensò a suo padre, a cosa avrebbe fatto al suo posto, e immediatamente immaginò il volto sorridente di Matteo.
Certo, Carlo non si sarebbe lasciato sfuggire nemmeno un’occasione di stare con il nipote.
Tornò ad abbassare gli occhi verso il foglio. Dopo alcuni secondi in cui sembrò studiarne gli angoli con le dita, lo piegò in due e poi in quattro parti e se lo infilò nella tasca interna della giacca.
Con la mano sfiorò il calcio della pistola e il freddo di quel contatto lo riportò alla realtà, con il desiderio forse poco nobile, ma molto cinico e concreto, di scaricare l’arma dritto nel cuore del Mostro, se mai ne aveva uno.
* * *
Erano le sei passate quando Luca uscì dalla questura. Prima di prendere l’ascensore per scendere al piano terra, aveva visto Vincenzi che confabulava con la Terenzi. Entrambi gli avevano lanciato un’occhiata dubbiosa, come se fossero in attesa di una spiegazione. Anche se non era tenuto a farlo in quanto loro superiore, Luca non poteva evitare di considerarli ormai anche degli amici, e al diavolo la gerarchia da mantenere sul posto di lavoro.
Si era quindi avvicinato a loro, rivolgendosi prima di tutto a Vincenzi. «Ti lascio in buone mani con Lombardi», gli aveva detto.
Un angolo della bocca dell’agente si era alzato, andando a rovinare per un attimo la perfetta simmetria del pizzetto nero. Poi si era portato una mano alla barbetta e con fare cospiratorio gli aveva sussurrato: «Meglio da solo che Ferruccio accompagnato.»
Luca aveva sorriso a quella battuta. «Ah, non ti preoccupare, è solo per un giorno.»
«Va tutto bene, ispettore?» gli aveva chiesto l’agente Terenzi, seria. Luca sapeva bene che alla donna non piacevano le battute sui colleghi.
Luca era ridiventato serio. «No, sappiamo che non sta andando per niente bene», aveva risposto. «Ma comunque io ho soltanto una cosa da risolvere e poi sarò di nuovo qui. L’ho già detto al commissario e lo dico anche a voi: per qualsiasi novità rilevante non esitate a chiamarmi.»
«C’è qualcosa che posso fare per lei, ispetto’?» gli aveva domandato Vincenzi.
«No, Claudio, sta’ tranquillo, è una cosa che devo risolvere da solo.»
«Va bene, ispetto’, come desidera», aveva concluso Vincenzi abbassando il capo.
L’agente Terenzi lo aveva guardato un po’ più a lungo negli occhi senza dire una parola, limitandosi a spostare una ciocca di capelli rossi dal viso.
E ora, mentre camminava sull’acciottolato di corso Ercole I d’Este in direzione dell’Alfa, respirò a pieni polmoni l’aria tiepida di quel tardo pomeriggio. Alcune biciclette gli sfilarono accanto. Si spostò sull’altro lato della strada e si ritrovò sul marciapiede che costeggiava il Palazzo dei Diamanti. Luca ne osservò la facciata come faceva quasi tutti i giorni passando con l’auto, ma questa volta era a piedi. Quasi d’istinto allungò una mano verso la facciata del Palazzo, costituita da tutte quelle migliaia di blocchetti di marmo a forma di punta di diamante. Ne sfiorò la superficie levigata.
Gli vennero in mente le parole di suo padre.
Nascosto dentro uno di essi si trova un vero diamante, gli diceva quando lui era ancora bambino. Forse il diamante più bello e importante di tutto il mondo, continuava cominciando a raccontargli la leggenda di quella costruzione.
Ma Luca aveva sentito raccontare quella storia dalle labbra di Carlo talmente tante volte che ormai non lo stava più ad ascoltare, bramando invece di avere un martello tra le mani per cominciare a rompere uno a uno tutti i blocchetti di marmo.
Ma allora lo stavi ad ascoltare, non credi? si chiese, sbucando in corso Rossetti e allontanandosi così dal Palazzo.
Certo, e quanto vorrei ascoltarlo di nuovo, si rispose facendo scattare la serratura centralizzata dell’Alfa. Salì in macchina e chiuse la portiera.
E allora perché non mi stai ad ascoltare?
Luca si bloccò un attimo prima di girare la chiave d’accensione.
Era sbalordito, perché quella nella sua testa pareva proprio la voce di suo padre.
Chiuse gli occhi, cercando di respirare normalmente. Immagini confuse di morte e lacrime di quegli ultimi giorni si affollarono subito nella sua mente, ma lui le scacciò via, cercando di visualizzare il viso di Carlo. E lo vide, certo, quasi subito, ma non era sorridente come al solito, ma serio, le mani abbandonate sui fianchi. C’era qualcosa dietro di lui, ma Luca non riusciva a capire cosa fosse.
La strombazzata di un clacson lo scosse, facendogli spalancare gli occhi. Un ciclista doveva aver improvvisamente attraversato la strada, perché l’autista di un taxi bianco lo stava mandando sonoramente a quel paese.
Luca si immise nel flusso di auto che si dirigeva verso corso Porta Po e poi verso la Stazione Ferroviaria e non dalla parte opposta, verso Porta Mare, verso casa sua.
«Ah, per la miseria, ma dove ho la testa», biascicò a denti stretti non appena se ne accorse. Tuttavia non poteva certo fare un’inversione a U in corso Rossetti, e quindi proseguì. Avrebbe svoltato più avanti, a uno degli incroci successivi. E invece continuò ad andare dritto. In un primo tempo diede la colpa alla sua distrazione, e al fatto che a quell’ora numerose vetture si stessero incolonnando ai vari semafori e lui non fosse abbastanza lesto…
… non mi stai ad ascoltare.
Ecco, semmai era quella la vera ragione: continuava a pensare a quelle parole, come se suo padre si trovasse davvero in auto con lui e continuasse a ripetergliele in un orecchio.
Ci sto provando, ci sto provando, si disse. Ma non riusciva a capire cosa gli stesse sfuggendo, perché capiva, sentiva che c’era qualcosa di molto importante che non riusciva a focalizzare.
In breve si ritrovò alla fine di corso Porta Po e, invece di girare a destra in via Belvedere che costeggiava la cinta muraria, girò a sinistra attraversando la Statale 16 per poi svoltare quasi subito a destra, immettendosi così nella viuzza alberata che di lì a poche centinaia di metri conduceva al Grattacielo.
La sua mente si affollò delle immagini della breve colluttazione che aveva avuto con il ragazzino rumeno, quel Lusescu, per poi quasi avvertire nelle narici il puzzo pungente dolciastro e nauseabondo della decomposizione nella stalla dove era stato scaricato il corpo del povero signor Manfredi. Si portò due dita al naso, massaggiandoselo, perché aveva cominciato addirittura a pizzicargli. Poi gli ultimi alberi del vialetto scomparvero dalla sua vista e si stagliarono le due imponenti torri che costituivano il Grattacielo, punteggiate qua e là da innumerevoli parabole come tante piccole escrescenze tonde. Numerose erano le auto ferme nel parcheggio antistante i due ingressi. Luca si fermò a sua volta in uno spazio libero tra una Ford Fiesta azzurra e una Opel Astra nera, entrambe vecchie, dalla carrozzeria costellata da graffi e bozzi di diverse dimensioni.
Spense il motore e si stava per chiedere che cosa diamine si fosse messo in testa e per quale vera ragione si trovasse lì, quando si mise a osservare due ragazzi senegalesi comparsi a poca distanza davanti a lui. Non erano gli stessi del gruppetto di lunedì, quando si era recato lì con Vincenzi. Indossavano dei jeans larghi e delle felpe altrettanto sformate, una rossa e una blu. Mentre camminavano lanciarono uno sguardo nella sua direzione. Felpa Blu sembrò confabulare con Felpa Rossa ed entrambi si portarono la mano destra a taglio vicino alla fronte, in un inconfondibile saluto militare. Poi sorrisero, mostrando i denti candidi. Luca rispose al gesto, come a dire: Voi avete capito chi sono io, ma anch’io so chi siete voi. I due si misero a ridere e si dileguarono. Poi fu la volta di un ragazzo cinese che, senza mai staccare gli occhi dal suo smartphone, infilò a tutta velocità il portone d’ingresso riuscendo incredibilmente a non andare a sbattere da nessuna parte.
Che ci fai qui, Luca? si chiese ancora. Dovresti essere a casa da Claudia e Matteo.
Ma sì, è vero, si disse e avviò il motore. Quello che dovevamo fare qui lo abbiamo già fatto, per il momento.
Poi dall’ingresso della torre più vicino uscì un uomo sui cinquant’anni, i pochi capelli in testa striati di bianco, il ventre prominente coperto da una camicia nera che strabordava dal giubbotto di jeans. Aveva il volto serio e si stava dirigendo verso di lui a grandi falcate.
Luca era già ripartito lentamente con l’auto, ma si bloccò.
Il sole obliquo di quell’ora faceva luccicare alcune grosse catene d’oro che rimbalzavano sul petto del soggetto. Luca notò una certa familiarità in quel volto che, più che semplicemente serio, sembrava proprio incazzato. Poi, quando si trovò a una decina di metri, si fermò e cominciò a parlare a voce talmente alta che Luca riuscì a sentirlo benissimo: era una lingua straniera, quasi certamente rumeno, anche se pareva molto più graffiante. Quel particolare, sommato ai connotati del viso, gli suggerì che quell’uomo molto probabilmente era il padre di Piotr Lusescu e che ora stava inveendo contro di lui. Evidentemente al Grattacielo il volto dell’ispettore Luca Giatti era conosciuto. Qualche vedetta lo aveva visto arrivare ed era corso subito ad avvisare il “signor” Lusescu che il poliziotto responsabile di aver ingabbiato il povero figliolo, chissà perché, era tornato.
«Ma stiamo scherzando?» sussurrò Luca. «Ma che vuole fare questo?»
E così dicendo mise l’auto in folle e tirò il freno a mano.
Meglio essere pronti.
Stava quasi per aprire la portiera e scendere quando si fermò ancora. Lusescu padre, continuando imperterrito a blaterare cose che Luca non capiva – ma che dal tono non dovevano essere delle più simpatiche – a quel punto aveva alzato una mano colma di braccialetti e anelli d’oro verso di lui, additandolo. E dopo un attimo al dito indice si era aggiunto il mignolo, nel simbolo inconfondibile delle corna. E agitava la mano avanti e indietro e poi verso il basso. Il tutto accompagnato da parole ancora più complicate.
«Ma che cazzo fa, mi dà del cornuto?» si chiese Luca, notando che gli occhi dell’uomo erano molto lucidi.
E questo non è dovuto alle lacrime.
Poi rimase ancora più stupito quando Lusescu si mise a sputare a terra, non una, ma ben tre volte. E allora capì che non gli stava dando del cornuto, ma che si trattava d’altro.
Ma Luca ne aveva avuto abbastanza. Aprì lo sportello e scese.
A quel punto si rese davvero conto di quanto fosse forte la voce dell’altro, che continuava imperterrito a dare fondo alle sue imprecazioni. Ora addirittura dondolava sulle gambe, come per dare un ritmo a quanto diceva.
Luca lanciò una veloce occhiata attorno a sé. Sembrava non esserci nessuno nel parcheggio, oppure si stavano tenendo alla larga. Anche affacciati alle finestre più basse della torre più vicina non vide nessuno, ma era certo che innumerevoli occhi lo stessero osservando.
«Che problema c’è, capo?» chiese Luca, rimanendo appoggiato all’Alfa accesa e cercando di mascherare la tensione.
L’uomo smise di blaterare, abbassò il braccio e fece un paio di passi verso di lui. Si portò una mano al petto e con due dita sollevò un grosso crocefisso d’oro che gli pendeva dal collo e lo ostentò davanti a sé. Poi ricominciò a parlare, questa volta con più calma.
Ma che vuol fare, esorcizzarmi? E come si permette, poi, di usare la croce così…
«Leonard!» chiamò una donna.
Il volume della voce dell’uomo cominciò a diminuire, come se fosse stato sorpreso con le mani nella marmellata.
«Leonard!» ripeté con più forza la donna, comparsa improvvisamente dietro a quello che molto probabilmente era il marito. Era alta quasi quanto lui, i lunghi capelli neri e lisci che le ricadevano sulle spalle. Indossava una tuta grigia, che evidenziava i larghi fianchi e i grossi seni. Poteva avere trent’anni come cinquanta. Si fermò a fianco di Leonard Lusescu, e questi si girò a guardarla, facendo ricadere il crocefisso sul petto e zittendosi del tutto.
«Mi scuso, signore», disse la sconosciuta, rivolgendosi a Luca. «Tu perdona mio marito.»
Lo sguardo da cane bastonato che gli rivolse era più falso di una banconota da venti euro fotocopiata. Luca conosceva bene quegli occhi, erano quelli di una iena pronti ad azzannarti alle spalle.
«Io non ho nessun problema, signora, se suo marito non ne ha con me», le rispose Luca.
Gli occhi di Lusescu si strinsero in due fessure e pronunciò ancora qualcosa nella sua lingua.
La moglie si girò con uno scatto verso di lui, facendo volare come un ventaglio i lunghi capelli neri, e investendolo con un’unica, singola parola che alle orecchie di Luca avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, ma che comunque sortì l’effetto di far abbassare la testa del marito in segno di sottomissione.
Appunto, ecco la iena, pensò Luca, sentendosi tuttavia sempre più a disagio in quell’assurda situazione che si era venuta a creare. E per cosa? Perché aveva sentito che doveva recarsi lì?
«Tu perdona mio marito», ripeté ancora la donna al suo indirizzo. «Ma molto meglio se tu va’ via», e accompagnò quelle parole con un gesto eloquente della mano. E Luca intuì che anche lei avrebbe voluto inveire contro di lui, ma forse capiva che non sarebbe servito a nulla. L’espressione da cane bastonato si tramutò in quella seria di una madre che sta perdendo la pazienza nei confronti di un figlio testardo. Incrociò le braccia a coprire il grosso seno. «Non c’è più nessun ragazzo da portare via, qui», aggiunse, le dita di una mano a picchiettare nervose sull’avambraccio.
Ecco, adesso la situazione era chiara. Luca ripensò per un attimo al ticchettare a sua volta nervoso dell’inseparabile sigaretta del commissario Battistini e dell’invito di quest’ultimo a tornare a casa dalla sua famiglia: ma perché non seguiva subito i suoi consigli?
Avrebbe voluto così tanto dire a quelle due persone che il loro caro figliolo aveva derubato e poi picchiato selvaggiamente un povero anziano indifeso fino a ucciderlo, con la complicità di altri due “ragazzi” che proprio in quelle ore erano stati trovati e arrestati in Romania. Ma a cosa sarebbe servito? Quello non era il suo territorio. Il Grattacielo era in un certo senso una terra a se stante, un porto franco per diverse culture.
Ma tutte devono rispettare la legge, si impose. E qui la legge sei tu.
«Lo spero», disse alla fine. «Spero davvero che non ci sia più nessun ragazzo da portare via da qui.»
L’uomo e la donna si limitarono a fissarlo, senza aggiungere altro. Non ce n’era la necessità. Le poche parole della madre di Piotr Lusescu erano state chiare; molto meno quelle del padre, anche se il senso Luca lo aveva capito benissimo.
Attese qualche altro secondo, cercando di lasciar intendere che non aveva paura di rimanere lì. Poi salì in macchina, inserì la prima e si allontanò lentamente. Mentre imboccava il vialetto alberato, lanciò uno sguardo allo specchietto retrovisore e vide una decina di persone comparire improvvisamente attorno alla coppia Lusescu, come uno stormo di avvoltoi che andava a raccogliere i resti delle vittime di una rapida quanto intensa battaglia.
Solo che in questo caso non ci sono né vittime né carnefici, pensò attraversando la Statale 16 e immettendosi in corso Porta Po. Qui, semmai, ci sono solo persone che soffrono.