Quando la corriera si ferma nel parcheggio poco distante dall’Abbazia di Pomposa, il Mostro si riscuote da un torpore che lo ha avvolto per quasi tutto il viaggio. Per circa un’ora ha continuato a osservare fuori dal finestrino sporco le distese di grano ormai maturo, i canali di irrigazione, i piccoli paesi in cui la corriera si fermava per far salire altre persone… con la mente in cerca solo del nulla che l’immediato di quelle immagini poteva donargli. L’ultimo pensiero razionale che ricorda di aver avuto è quello di aver lasciato l’auto chiusa in garage e di essersi diretto alla stazione con l’idea di prendere un treno, e di aver trovato invece quel veicolo pubblico che faceva proprio tappa a Pomposa. Dopodiché la sua coscienza si è avvicinata alla stanza segreta della sua mente, senza mai spalancarne la porta, ma rimanendo quasi ad ascoltarne con indifferenza i sussurri che lievemente grattavano dall’altra parte.
Ora il Mostro si accoda a tutte le persone che stanno scendendo dalla corriera. Il grasso autista pronuncia alcune frasi che hanno a che fare con l’orario da rispettare per il rientro a Ferrara. Quasi senza rendersene conto, lui incamera la notizia e prosegue oltre. Non appena mette piede sull’asfalto del parcheggio quasi interamente occupato da decine e decine di auto – e l’odore acre della nafta viene spazzato via da una lieve brezza – giungono alle sue narici i dolci profumi di torrone, mandorle e caramelle,
(no, è zucchero filato)
quello più lieve del fumo,
(è carne alla brace)
e quello
(erba appena tagliata)
di fieno… che tutti assieme socchiudono la porta della sua stanza segreta, e lui, il Mostro
(Giuseppe)
vi si infila dentro.
Si incammina deciso verso l’Abbazia, superando di gran lena tutti gli altri viaggiatori. Lo stradello che sta percorrendo è leggermente in salita, ma non avverte nessuna fatica. Il sole gli scalda il viso, e lui socchiude appena gli occhi, lasciandosene inondare. Si sbottona la giacca. Alla sua destra c’è un altro parcheggio, da cui le persone si allontanano salendo una scala di ferro. Dopo pochi secondi si ritrova davanti al parco che affianca l’Abbazia e nota quanto quel luogo sia affollato, chi vestito normalmente chi in costume dell’epoca. Ma a lui non interessa quella rievocazione. Si dirige deciso verso sinistra, dove un re sembra circondato da numerosi monaci e cavalieri. Supera il bar e il ristorante e, guardando in basso perché non vuole incrociare lo sguardo di nessuno, si muove a zig zag tra le persone, finché arriva vicino a un cancello di ferro aperto che porta dietro all’Abbazia. Alle sue orecchie giunge una specie di recita in uno strano italiano misto a parole latine pronunciate da un monaco che si trova su un piccolo podio, ma al Mostro
(a Giuseppe)
non gliene importa nulla.
Attraversa la recinzione e calpestando la ghiaia bianca di un piccolo sentiero giunge in breve di fronte all’ingresso del campanile dell’Abbazia.
Non c’è nessuno e per un attimo crede che sia ancora chiusa come
(ristrutturazione)
quella volta di tanto tempo prima nella stanza segreta dentro la sua mente.
Ma poi un uomo esce dall’angusto ingresso avvolto dalla semioscurità. Non è tanto alto, ha i capelli bianchi così come i baffi, e indossa una divisa arancione da volontario. «Buongiorno, signore, lei è il primo, oggi», gli dice, aprendo un largo sorriso in cui mostra una dentiera perfetta.
Da molto lontano sente la sua voce pronunciare un sommesso buongiorno e se debba pagare qualcosa per l’ingresso.
«Offerta libera», gli risponde subito l’uomo cortese, e poi prosegue, indicando l’ingresso con una mano aperta. «Prego, vada pure dentro e non abbia fretta di salire, è una bella scarpinata.»
Senza farselo ripetere, il Mostro entra nella torre campanaria e al contempo si infila una mano in tasca afferrando alcune monete e una banconota. Le lancia senza controllare in un cesto di vimini semivuoto, poggiato su un tavolino che si trova addossato a una parete subito dopo l’entrata.
La luce attorno si è leggermente affievolita. Davanti a lui cominciano i gradini di pietra. Ha un attimo di esitazione. Allunga la mano destra di fianco a sé come a voler afferrare
(quella di Mattia)
qualcosa nell’aria.
«Grazie tante, signore», rimbomba la voce del volontario dietro di lui. Evidentemente lo ha seguito per verificare l’offerta.
Il Mostro gli risponde con un lieve grugnito, infastidito per il fatto che quell’omuncolo abbia spezzato quell’attimo di…
(magia)
… di cosa?
«Di nulla», sussurra, e questa risposta vale sia per il volontario che per la sua riflessione interiore.
Poi mette il piede sul primo scalino e inizia la sua salita.
«Se le va di contarli, sono duecentouno gradini!» aggiunge l’omuncolo alle sue spalle a voce ancora più alta, ma adesso lui non lo ascolta davvero più.
Dopo pochi secondi si ritrova già sul primo pianerottolo, illuminato dalla luce del sole che filtra attraverso una sottile finestrella; l’ambiente è spoglio, i muri – costituiti da mattoni diversi tra loro per forma e colore – usurati dal trascorrere dei secoli.
Il Mostro avanza sulla rampa successiva mentre comincia a sentire qualcosa dentro di sé. Anzi, alle sue spalle. È come un vento fresco che gli alita sul collo. Inizialmente non ci fa troppo caso, ma poi, dopo la terza rampa, forse perché comincia a sentirsi accaldato e affaticato (si toglie la giacca e se la avvolge attorno a un braccio) o forse perché si è lasciato andare e si è addentrato troppo nella stanza segreta dei suoi ricordi, fatto sta che ora non si sente più solo.
Si gira, credendo che qualche altro visitatore abbia cominciato la personale scalata alla torre campanaria. Ma dietro di lui non c’è nessuno.
Il brusio delle persone, la recitazione del monaco, gli applausi, i fiati di una banda musicale sono stati intonati mentre cominciava a salire… tutti i rumori della rievocazione si attutiscono attorno a lui. Dopo ogni piano le sottili finestre da cui entra la luce del sole si allargano o addirittura aumentano, facendogli credere di raggiungere piano piano il cielo.
Poi il solaio dove arriva in quel momento (non sa più se sia il quinto o il sesto) è stato ricostruito completamente in legno. Mentre avanza le assi scricchiolano sotto ai suoi piedi.
Una lieve risata alle sue spalle.
Il Mostro
(Giuseppe)
si ferma.
La riconosce immediatamente, e non è il Maligno che vuole ricominciare a prendersi gioco di lui.
No, certo, perché il Maligno non può entrare nella casa di Dio.
La risata si ripete, e questa volta sembra più vicina. Un forte calore comincia a diffonderglisi dallo stomaco fino a salirgli al cuore, facendogli provare una certa vertigine.
Ora, quasi come in sogno – un sogno che non vuole assolutamente che svanisca – Giuseppe riprende a camminare affrontando un’altra rampa di gradini, questa volta in legno, che gli si para davanti. Uno dopo l’altro, raggiunge l’ultimo piano. Il lamento del legno sotto ai suoi piedi lo accompagna mentre si avvicina all’ultima rampa. In quel momento risuonano dietro di lui degli altri passi… dei piccoli passi.
Giuseppe sorride, sentendo una gioia sconfinata riempirgli il cuore. Tuttavia non si gira, perché sa che può finire da un momento all’altro. Preferisce che rimanga tutto così, anche se per poco.
Si lascia quindi andare completamente, facendo cadere a terra la giacca. Chiude gli occhi e appoggiandosi al muro di pietra fredda comincia a salire gli ultimi gradini.
I passi dietro di lui si avvicinano. Fiducioso, apre la mano destra lungo il fianco e, quasi nello stesso istante, una piccola mano calda gliela stringe.
Continua a salire, sentendo la sua risata tutto attorno a lui. Vorrebbe guardare ma ancora non lo fa; vorrebbe farsi perdonare perché sa che non è stato un padre degno; vorrebbe poter tornare indietro e continuare a lottare con lui, ma sa che non servirebbe; vorrebbe dirgli che sta facendo di tutto per sconfiggere il Male che lo ha portato via da lui, ma anche questo sa che non servirebbe a niente.
Giuseppe mette un piede nel nulla, quasi incespicando e capisce di essere arrivato in cima.
Si ferma.
Una forte luce gli inonda il viso, e una fredda brezza gli asciuga il sudore sul cranio calvo.
Apre gli occhi e guarda di fianco a sé, ma la sua mano non stringe nulla.
Non ne è stupito. Ne è dolorosamente consapevole, però. Si porta il palmo aperto vicino al viso e lo bacia, sperando in questo modo di poter baciare forse per l’ultima volta la sua piccola mano.
Poi lo richiude lentamente e lo abbassa.
«Siamo arrivati.» Guarda davanti a sé la cella campanaria racchiusa da una bussola di vetro. Altre lastre ricoprono le sottili finestre. Si avvicina a queste ultime, e in quel momento ha un leggero mancamento. Piccole lucciole nere gli appannano la vista. Si appoggia sul vetro e si passa una mano sul viso. Fortunatamente dura poco. Riapre gli occhi e guarda davanti a sé, dove si stende il panorama delle terre che sorgono attorno all’Abbazia di Pomposa. Risaltano i diversi colori degli appezzamenti di terreno geometricamente suddivisi nelle varie colture. L’aria tersa di quella mattina e la posizione così sopraelevata gli fanno scorgere le montagne all’orizzonte. Poi abbassa lo sguardo, cercando di sporgere un po’ la testa. Numerose auto stanno transitando sulla Statale Romea di fronte all’Abbazia. I visitatori ora sono sparsi un po’ ovunque nel parco: alcuni vicino al laghetto dove c’è una piccola barca che fa la spola da una sponda all’altra; vicino a una recinzione all’interno della quale ci sono degli animali; intorno a una costruzione di legno che somiglia a un piccolo castello, dove alcuni cavalieri fingono di combattere tra loro.
Una grande ombra nera pare attraversare quel luogo, abbassando addirittura la temperatura di qualche grado. Il vento fa frusciare gli alberi, e Giuseppe
(il Mostro)
avverte qualcos’altro sotto quel suono. Si tira indietro e d’istinto si porta una mano alla giacca, ma… non ce l’ha più. E in ogni caso non ha portato la pistola.
Torna a sporgersi vicino al vetro che copre la finestra. La grande ombra è passata. La gente sembra non essersi accorta di nulla, credendo certamente che si trattasse di una nuvola, ma Giuseppe
(il Mostro)
sa che non è così. Poi vede qualcosa sgusciare furtivo tra la folla: è come un lungo serpente nero che si muove a scatti, spostandosi da un gruppo di persone a un altro.
Il Maligno è in mezzo alla folla.
Tu non eri venuto qui per combattere, pensa un’altra parte di sé, una parte che gli sta ancora sussurrando dalla stanza segreta della sua mente.
Ma Lui ha trovato me! pensa il Mostro, facendo schioccare con forza la lingua e sentendo quasi la porta di quella camera richiudersi con un tonfo.
La maggior parte delle persone è ancora concentrata ai piedi dell’Abbazia, dove si trovano ancora numerosi figuranti, tra monaci e contadini. L’ombra allungata del Male si sta muovendo proprio in mezzo a loro. Il Mostro vede che ci sono numerose famiglie con bambini al seguito. Rimane a osservare, perché sente che Egli si sta per mostrare, nell’ennesima sfida che vuole lanciargli.
Ed eccolo! Nessuno ha la testa alzata verso il campanile, tranne un bambino.
Il Mostro cerca di pensare in fretta, ma non ha alcuna possibilità di catturarlo adesso, in mezzo a tutta quella gente. Deve seguirlo, capire chi è, ma dalla posizione in cui si trova non riesce a vederlo bene in faccia. Lo osserva un’altra volta, per imprimersi bene in mente vicino a quali persone si trovi. Poi si gira e più veloce che può raggiunge le scale e le scende. In fondo alla prima rampa di gradini recupera la giacca e la indossa, quindi continua. Fa scricchiolare le assi di legno mentre raggiunge in fretta le sottili finestre. Guarda fuori. Le persone sotto di lui sono ora un po’ più vicine… ma il bambino non c’è più.
Sta quasi per girarsi e correre in ogni caso fuori dal campanile, ma con la coda dell’occhio vede un’ombra nera… la Sua ombra nera.
E c’è del rosso, gli sussurra una vocina.
Sì, eccolo, era coperto da un uomo e una donna, molto probabilmente i genitori, ma ora lo vede meglio: ha un fazzoletto rosso legato intorno al collo, non può più perderlo di vista.
Maledetto, sì è vestito proprio come lui, pensa, scacciando subito questo ricordo dalla sua mente.
Il viso del bambino in quel momento si alza ancora verso di lui, come se la piccola bestia avesse avvertito uno sguardo su di sé.
Ah, ma non sono io, maledetto, pensa il Mostro stringendo i denti. Sono gli occhi di Dio che ti accusano, che ti additano per mostrarti a me e ucciderti.
Anche se si trova ancora abbastanza in alto, non può sbagliarsi, perché in tutta risposta gli occhi del bambino diventano completamente neri e un ghigno malefico gli tira le labbra. E i suoi genitori non si accorgono di nulla: si guardano attorno, indifferenti. Ma non è possibile, loro devono sapere qualcosa.
Deve seguirli, deve trovare l’occasione per catturare il Mentitore che ha assunto questa sua ennesima forma e farla finita una volta per tutte.
Si gira e riprende la discesa. Ora i suoi passi non rimbombano più sulle assi, perché è tornato a calpestare la solidità della pietra. Sente dei rumori provenire dal basso. Ma non si ferma. La luce diminuisce un po’, perché sono le finestre a essere diminuite di numero a ogni piano. E poi eccole, quattro o cinque persone che stanno salendo tutte assieme a sbarrargli la strada. Si appoggia al muro e rallenta per non investirle e farle precipitare all’indietro. Alcuni mormorano dei buongiorno e mi scusi, ma il Mostro non risponde a nessuno, perché gli stanno solo facendo perdere tempo. Scansato l’ultimo sconosciuto, accelera di nuovo il passo, anche se ormai è arrivato quasi in fondo.
Comincia a scendere l’ultima rampa di gradini. Ancora più nervoso, nota che al pianerottolo dell’ingresso c’è già la fila per salire. Si infila a fatica tra un uomo e una donna più grossi che alti, e finalmente attraversa la piccola porta ed esce all’aperto.
«Grazie per la visita, spero di rivederla presto!» quasi gli urla dietro l’omuncolo dai baffi bianchi.
Il Mostro non lo degna neanche di uno sguardo e prosegue oltre, percorrendo il piccolo sentiero di ghiaia e ritrovandosi improvvisamente in mezzo a una folla notevolmente aumentata rispetto a pochi minuti prima.
È arrivato con una foga tale che comincia a urtare uomini e donne a destra e a sinistra, e addirittura qualche figurante vestito da monaco.
Questa volta non può rimanere in silenzio, profondendosi in numerose scuse.
Calmati, dannazione! pensa, rabbioso. Rallenta e cerca di guardare attraverso la folla. Ma è così difficile, perché non riesce a vedere a un palmo dal naso. Ferme in piccoli gruppi o muovendosi come un branco di pecore, le persone quasi lo trascinano da una parte all’altra. Vede in ogni caso che si sta allontanando dalla facciata dell’Abbazia, per raggiungere le prime casupole di legno di quelli che sembrano mercanti, con la merce esposta. Poi c’è la locanda con numerose panche già occupate, dietro alla quale sorge il piccolo castello di legno, che in ogni caso è la costruzione più alta.
Ma del Maligno non c’è più nessuna traccia.
Forse si è spostato ancora più in là, pensa. Forse è andato vicino al laghetto…
O forse se n’è proprio andato, gli suggerisce una parte di sé.
No, non è possibile, sono rimasto là sopra soltanto per pochi minuti.
Eppure il Mostro comincia a sentirsi smarrito, perché non si è mai trovato in una situazione del genere. Non ha mai agito così. Anche se sa che aggirarsi a cercare qualcuno nell’indifferenza di una folla così grande gli può garantire un certo anonimato, non si sente più tranquillo, perché potrebbe commettere degli errori e di conseguenza attirare l’attenzione. Oltretutto il sole picchia su di lui, sotto la giacca sta sudando, il chiacchiericcio confuso delle persone, le grida di alcuni bambini, una brutta musica ripetitiva… tutta questa cacofonia gli riempie le orecchie, mentre il cervello è sommerso dai profumi delle persone, di dolciumi, di salsicce e cipolle che sfrigolano su una piastra, del letame delle bestie chiuse nel recinto.
Devo tornare vicino all’Abbazia, pensa, mi sto spostando troppo in là.
Poi, continuando a camminare, si gira indietro per vedere quanta distanza ha percorso, ma la distrazione gli fa urtare con forza una persona. Si volta, pronunciando già le parole mi scusi, ma in quel momento tutto avviene come al rallentatore. Il giovane uomo che si trova davanti
(l’ho già visto da qualche parte)
apre la bocca per scusarsi a sua volta, ma poi la richiude, stringendo appena gli occhi scuri. È affiancato da una donna alta quasi quanto lui, molto bella, dai lunghi capelli castani. Lei ha lo sguardo rivolto verso il basso; il Mostro lo segue, e il bambino con il fazzoletto rosso intorno al collo è lì davanti a lui, un’ombra nera intorno al viso che sorride al suo indirizzo. Un sorriso falso, tanto quanto il Maligno che è dentro di lui.
Il Mostro si sente bucare l’anima da mille gelidi aghi acuminati.
«Scusatemi ancora», dice a fior di labbra, senza sapere se lo abbiano sentito oppure no nella confusione circostante. Poi prosegue oltre, cercando di scomparire nella folla.
Lo hai ritrovato, non devi più perderlo di vista adesso, si redarguisce immediatamente. Sì, ma non devono più vedermi.
Il Mostro si muove a zig zag tra le persone senza più toccarle. Per quanto gli è possibile cerca di accelerare ancora il passo. Deve appartarsi, per osservare. Raggiunge un’altra piccola folla che si è assembrata attorno alla zona dove si trovano gli arcieri i quali, a turno, cercano di insegnare a maneggiare gli archi a dei ragazzini. Il Mostro li supera tutti, e solo allora si arrischia a lanciare uno sguardo alle sue spalle. Non scorge più la piccola bestia con i suoi genitori, e spera che anche loro lo abbiano perso di vista.
Ho già incontrato quell’uomo, pensa ancora, e non sa se sia un bene o un male.
Ora deve soltanto trovare un posto sicuro, ci sarà tempo più tardi per riflettere.
Lancia uno sguardo alla via in discesa che porta ai parcheggi: ci sono già diverse persone che se ne stanno andando, forse perché hanno deciso di non pranzare lì.
Sei senza auto, gli ricorda una parte di sé, ma allo stesso tempo questo pensiero gli fa venire un’altra idea.
Non perde tempo. Si unisce a quel piccolo esodo di persone più o meno anziane e in breve raggiunge la corriera blu su cui è arrivato. Ma ovviamente le porte sono chiuse.
«Ha dimenticato qualcosa?» gli chiede una voce alle sue spalle.
Il Mostro si gira. Il grasso autista lo sta guardando con aria interrogativa. Ha un panino in mano.
Quell’uomo si ricorda di lui come uno dei suoi passeggeri, e questo non va tanto bene. Tuttavia può tornargli a suo vantaggio.
«No, non ho dimenticato nulla…» Il Mostro ha un’esitazione.
«E allora?» gli chiede l’autista in tono un po’ burbero. «Ripartiamo tra un paio d’ore.»
«Lo so, lo so. È che non mi sento tanto bene… mi è venuto un forte mal di testa… sa, sarà questo sole e tutte quelle persone, mi chiedevo se può farmi salire sulla corriera per stendermi un attimo in tranquillità.»
L’autista lo osserva per alcuni lunghi secondi, il panino ancora sospeso a mezz’aria, ed effettivamente il Mostro non deve avere una bella cera, perché l’uomo prima emette una specie di grugnito e poi gli dice: «Va bene, però lei stia buono lì, ché non voglio avere nessun guaio.»
«La ringrazio. Non si preoccupi, non avrà nessun problema.»
L’autista estrae un mazzo di chiavi dalla tasca e, mentre riprende ad addentare il suo panino, apre le porte della corriera.
Il Mostro sale e si dirige subito verso i posti in fondo.
«Lascio la porta davanti aperta, se dovesse aver bisogno», gli urla dietro l’autista.
«Grazie!» gli risponde il Mostro pensando che deve aver proprio un aspetto orrendo, se di colpo quell’uomo è diventato così gentile. In ogni caso la penombra in cui ora si trova lo fa sentire davvero un po’ meglio.
Si siede vicino al finestrino rivolto all’Abbazia. Da quella posizione rialzata riesce a vedere tutto il parcheggio, ma, ancora meglio, nota che l’unica via d’uscita passa a pochi metri dalla corriera.
Fa un profondo respiro, si appoggia allo schienale imbottito del sedile e si prepara ad attendere. E mentre attende, riflette.
Hai già visto quell’uomo, ripensa per l’ennesima volta.
Ma subito dopo si rende conto di un’altra cosa fondamentale: il suo arrivo lì non è stato casuale, perché il Signore lo ha indirizzato ancora verso il Male da estirpare. La battaglia non è finita e Dio ancora riconosce in lui il Suo braccio armato. Ma deve stare attento, perché adesso la situazione è molto delicata. Si trova lontano da Ferrara, senza auto e senza pistola. Ora, nascosto, deve limitarsi ad aspettare e a osservare. Pensa che a quell’ora della giornata dovrebbe mettere qualcosa sotto i denti, ma non ha fame. L’eccitazione dell’imminente caccia tiene lontano l’appetito. Con le dita di una mano tamburella nervoso sul vetro del finestrino.
Forza, andiamo, fatti vedere, maledetto! pensa, cercando al contempo di scavare nei ricordi per dare un nome al volto di quell’uomo. Fino a quando non gli si parano davanti agli occhi della mente le immagini dei quotidiani gettati alla rinfusa sulla scrivania del suo studio. L’associazione che fa è immediata. Le dita sul vetro si bloccano.
Si dà dello stupido per non esserci arrivato prima. Subito dopo vede che tutti i tasselli cominciano a mettersi al posto giusto e intuisce che la sua battaglia
(la battaglia di Dio)
potrebbe realmente essere prossima alla conclusione.
Si sente tirare le labbra da un largo sorriso. Congiunge le mani sul grembo e, mentre con molta più calma attende la piccola Bestia, dentro di sé comincia a ringraziare Dio.
Padre nostro, che sei nei cieli…