Circa un’ora dopo Luca, accompagnato dall’agente Vincenzi, si ritrovò di nuovo in campagna, vicino a un casolare abbandonato.
«Possibile che non se ne sia accorto nessuno prima di oggi?» chiese Luca senza mascherare per nulla la rabbia.
L’agente Vincenzi non gli rispose, forse perché si era già sorbito la sua sfuriata di poco prima in auto, ed evidentemente adesso preferiva rimanere in silenzio. Luca capiva che non era colpa sua, ma quella situazione aveva dell’assurdo. Si trovavano a meno di due chilometri di distanza in linea d’aria da un altro casolare, quello dov’era stato ritrovato il corpo di Filippo Manfredi, il pensionato ucciso da quella banda di rumeni. Un caso che nulla aveva a che fare con gli omicidi del Mostro, eppure…
Eppure cosa? si chiese.
Inutile mentire con se stesso. Anche se la cosa appariva assurda, Luca sentiva che c’era qualcosa, un filo sottilissimo, forse un indizio che collegava l’omicidio del pensionato a quello dei bambini.
Ma allo stesso tempo sapeva che non era possibile, che non c’entrava niente con gli altri, che solo per un caso fortuito le tragedie si erano accavallate una a ridosso dell’altra.
La risposta al fatto che a qualcuno fossero “sfuggiti” i piccoli cadaveri, per quanto debole, si trovava proprio di fronte a loro. A ridosso di un muro di confine semi diroccato, c’era una larga fossa, profonda circa un paio di metri, forse utilizzata un tempo per raccogliere gli scarti di alcuni prodotti in campagna. Un largo lenzuolo era stato disteso sui corpi. Semplicemente, non erano stati notati da nessuno, a parte un contadino che quella mattina stava lavorando lì vicino, il quale aveva avvertito uno strano fetore nell’aria.
«Prima che partissimo dalla questura il commissario ha detto che ci avrebbe raggiunto quasi subito, ispetto’…» disse l’agente Vincenzi con la voce attutita da un fazzoletto premuto sulla bocca. Aggiunse che i ragazzi dell’Unità per l’Analisi del Crimine Violento dovevano essersene appena andati con tutti i loro campioni e rilevamenti. La scena del delitto poteva quindi essere inquinata senza problemi.
E a che servirebbe adesso? pensò stupidamente Luca, tenendosi quella riflessione per sé. Si sentiva in colpa: per non essere riuscito a fare nulla per loro, e anche per non aver mantenuto la parola data ai coniugi Massarenti (anche se era certo che quando erano venuti a sporgere denuncia di scomparsa i bambini fossero già morti). Forse era per tutte queste cose che Luca preferì non coprirsi la bocca con il fazzoletto, annusando in tal modo il fetore della morte, come se fosse un castigo che doveva scontare, seppur piccolo in confronto alla tragedia che si era consumata lì.
Scese quindi nella fossa, dove l’aria era ancora più irrespirabile.
«Ispettò…» cercò di richiamarlo Vincenzi.
Luca non replicò, ma prima di accovacciarsi lanciò un’occhiata all’agente: il suo viso asciutto ora appariva ancora più pallido di prima, quando erano smontati dall’auto e si erano incamminati verso quella fossa.
Luca allungò una mano sul lenzuolo e lo sollevò appena… scoprendo il viso di suo figlio.
Fece un balzo indietro, facendosi sfuggire il tessuto dalle mani. I busti dei due bambini rimasero così di nuovo esposti alla luce di quel caldo sole di giugno.
«Che c’è, ispetto’?» chiese l’agente Vincenzi, preoccupato.
Luca sentì una forte fitta al petto, come se il suo cuore avesse saltato un paio di battiti. Poi gli cadde un velo dagli occhi e il viso di Matteo divenne quello gonfio e blu del piccolo Andrea Massarenti, che infatti aveva circa la stessa età di suo figlio. Accanto giaceva il corpo del fratello più piccolo, Nicola. Su un lato, le magliette bianche che indossavano erano spruzzate di sangue rappreso. Erano affiancati, con le mani che si stringevano, come se avessero cercato di farsi coraggio mentre il Mostro sparava in testa a entrambi.
«Niente, Claudio… è che non ci si può abituare a uno spettacolo simile», gli rispose Luca, andando a ricoprire di nuovo i corpi. Non poté evitare di avvertire un principio di nausea salirgli in gola.
«Ha ragione, ispetto’.» L’agente Vincenzi lo aiutò a issarsi fuori dalla fossa.
Luca lanciò quindi uno sguardo al di là del nastro segnaletico che delimitava la zona del ritrovamento, poco distante. Verso l’assembramento di poliziotti, verso i sanitari che attendevano di portare via i corpi, ma soprattutto verso alcuni microfoni e telecamere che avevano già fatto la loro comparsa.
«È meglio se ci allontaniamo. Ci sono le sanguisughe.»
«Sì, lasciamo che portino via questi poveri bambini», commentò Vincenzi.
Si incamminarono verso le auto, evitando i giornalisti. Avevano lasciato l’auto nell’aia antistante il casolare. Di fianco a loro sfilarono immediatamente i sanitari in senso opposto.
«I genitori sono stati avvisati?» chiese Luca salendo sull’Alfa, ripensando alla chiacchierata che aveva avuto con loro nella sala degli interrogatori. Sembrava fosse passato un secolo, e intanto i bambini erano già lì che attendevano che qualcuno li trovasse.
L’agente entrò a sua volta nell’abitacolo. «Sì, ma credo gli sia stato detto di andare all’ospedale di Cona per il riconoscimento.» Poi si tolse il cappello e con un fazzoletto si deterse la fronte. Il colorito del viso sembrò migliorare.
Luca lo osservò preoccupato. «Forse è meglio se ti prendi qualche giorno, Claudio», gli propose, sentendosi lui stesso in colpa per essersi preso un giorno di ferie.
Non sarebbe cambiato nulla, gli disse una vocina. I fratellini erano già morti.
«No, ispetto’, no, lo voglio prendere anch’io quel bastardo.»
«Lo so, ma ormai ne abbiamo già visti tanti… troppi.»
«L’unica cosa che le sanguisughe hanno fatto bene è stata affibbiargli il soprannome di Mostro… e non il Mostro di Ferrara o della Bassa o che so io… ma solo il Mostro. E c’hanno preso, ispetto’, perché una persona del genere può essere solo il mostro, come se… come se…»
«… come se racchiudesse dentro di sé tutti i mostri», finì in un sussurro Luca. «Sono sicuro che anche sui corpi di questi due fratellini non sarà trovata nessuna traccia di violenza o di sevizie. Li uccide a sangue freddo e basta, forse i piccoli non se ne rendono nemmeno conto. In questo il Mostro sembra essere clemente.»
Quest’ultima affermazione sembrò assurda alle sue stesse orecchie.
«Ma che sta’ a di’, ispetto’. Io credo… credo che non ci può essere clemenza nell’uccidere un bambino!» La voce dell’agente si era alzata.
«Hai ragione, Claudio, stai calmo, sto cercando di ragionare a mente fredda.»
«Mi scusi, ispetto’, mi scusi. Lo sa, tengo due figli e pensare che possa succedere una cosa del genere a loro…»
«Lo capisco benissimo, Claudio. Quando penso a Matteo, anch’io credo veramente che sia lui a darmi la forza per andare avanti.»
Luca si rese conto che aveva già chiamato l’agente per nome diverse volte, e che quindi il loro colloquio stava diventando confidenziale. Mise in moto la macchina e fece manovra per uscire dall’aia. Dopo tutto quello che stava succedendo, che fosse arrivato il momento di affrontare il discorso “genitori” con Claudio?
Niente è più prezioso di un figlio.
Quella frase gli era balenata nella mente di punto in bianco.
E subito dopo un’altra.
Non mi stai ad ascoltare.
Questa volta era la voce di suo padre e da lì in poi fu un’associazione dietro l’altra. Ripensò che quando aveva avuto quel pensiero era tornato al Grattacielo e lì era saltato fuori il padre rumeno di uno degli assassini di Filippo Manfredi, il quale sembrava averlo maledetto…
«Ne abbiamo già ritrovati otto, tutti maschi, più o meno tutti della stessa età», disse a voce alta, come se volesse fare il punto della situazione, quando in realtà la sua mente si stava concentrando su tutte queste libere associazioni, cosicché, in tal modo, dava anche retta al consiglio di suo padre.
«Però questi sono i primi fratelli», aggiunse l’agente Vincenzi, ma era come se la sua voce arrivasse da una certa distanza.
… quell’uomo, nella sua lingua incomprensibile, gli aveva anche puntato il crocefisso contro come se fosse un’arma. Immediatamente vide il crocefisso appeso sopra il portone della stalla dove era stato abbandonato a morire Filippo Manfredi.
Luca si immise sulla strada provinciale in direzione di Ferrara.
«E voglia Dio che siano anche gli ultimi», disse, cercando di riprendere il filo della conversazione con Vincenzi.
«Ispetto’, spesso mi chiedo cosa ci sta a fare Dio lassù, perché…»
Quelle parole gli diedero come uno scossone. «Claudio, non ti permetto di bestemmiare in mia presenza, anzi, non devi mai bestemmiare e non devi mai pensare che Dio se ne infischi di noi.»
«Mi scusi, ispetto’, non volevo essere maleducato e non volevo offenderla.»
«Non stai offendendo me, ricordatelo.»
«No, certo, però, ispetto’, a proposito di quello che aveva detto prima», proseguì Vincenzi, tentando forse di cambiare discorso, «questa mattina sono arrivati i risultati dell’autopsia sul corpo di Stefano Bruni.»
«E quindi?» Ora Luca era tornato tutt’orecchi.
«Niente, ha ragione lei: solo un maledetto colpo alla testa, niente sevizie, a parte un segno sulla fronte, riscontrato in parte anche sui corpi di alcuni degli altri bambini.»
«E me lo dici così? Che tipo di segno?» Luca sentì i battiti del cuore aumentare di intensità.
«Una piccola croce, ispetto’, che a occhio nudo difficilmente si poteva notare. Ma, sa, con il sudore della pelle, la polvere, a un esame particolareggiato…»
Ma Luca non lo ascoltava più, perso di nuovo nei suoi ragionamenti. «Come se fosse un’estrema unzione», sussurrò. «È un fanatico religioso.» Croci, croci e ancora croci. Il crocefisso del rumeno, quello sul portone della stalla… «Scommetto che anche sulle fronti dei bambini ritrovati in acqua c’erano i segni di una croce, ma proprio l’acqua li ha cancellati», ragionò, questa volta a voce alta. Intanto si stavano avvicinando alla periferia di Ferrara, così come al traffico di un sabato pomeriggio, ma tutto sfilava davanti ai suoi occhi nell’indifferenza più totale.
«Sì, può darsi, ispetto’… ed è anche l’idea che si è fatto Minardi alla luce di queste nuove informazioni, quella cioè che il Mostro sia un fanatico religioso…»
Ripensò a un’altra croce, al dipinto vivacemente colorato che rappresentava un crocefisso stilizzato appeso nella cappella dell’ospedale di Rovigo dov’era morto suo padre.
Ma che c’entri con tutto questo, papà?
Luca guardava la strada ma allo stesso tempo pensava intensamente a quale assurda connessione potesse mai esserci con suo padre.
«Sembra quasi che il Mostro uccida i bambini, ma che poi li voglia consegnare a Dio… o forse liberarli dal peccato.»
«Ma il peccato di cosa, ispetto’?»
«Non lo so, Claudio, non lo so. Devo parlarne con Battistini… a proposito, il commissario non si è visto sul luogo del ritrovamento, e noi ce ne siamo andati senza aspettarlo, ma sei sicuro che doveva arrivare?»
In quel momento la radio gracchiò. «A tutte le volanti in zona via Bologna, via Wagner, via Ferraresi…» Era la voce di Silvia Terenzi dalla centrale operativa, che dopo un’incertezza cambiò decisamente tono. «… per la miseria, al diavolo! A tutte le volanti in ascolto: convergere immediatamente al centro commerciale Il Castello! Ripeto: convergere immediatamente al centro commerciale Il Castello. Quel bastardo del Mostro è lì e sta sparando sulle persone! Ripeto: quel bastardo del mostro…»
«Porca puttana, ispetto’!» esclamò l’agente Vincenzi.
Luca non ci pensò due volte: spinse con forza il piede sull’acceleratore facendo stridere le gomme. Il suo smartphone si mise a suonare. Lo prese dalla tasca dei pantaloni e diede un’occhiata veloce al display. «È il commissario Battistini… Sì, commissario.»
«Sei sul luogo del ritrovamento?» La voce del commissario era molto calma.
«No. Io e l’agente Vincenzi siamo in macchina. Abbiamo appena sentito la comunicazione, è per questo che non l’abbiamo vista? Ma stiamo arrivando anche noi.»
«Stai calmo, Luca, non farti prendere dalla foga come l’agente Terenzi. Appena tutto questo caos finisce mi sentirà…»
A quel punto Luca capì che qualcosa non tornava. «Commissario, mi dica chi ha avvertito la polizia. Nessuno conosce il volto del Mostro: come fanno a sapere che si tratta proprio di lui?» Oltretutto il commissario lo aveva chiamato sul cellulare, senza passare per la radio della centrale.
«Il consiglio che ti do è quello di non andare al Castello. La situazione potrebbe sfuggirti di mano.»
Luca vide davanti a sé il volto grosso e barbuto del commissario Battistini. Lo vide picchiettare nervosamente una sigaretta sul bracciolo della sedia.
«Che succede, ispetto’?» L’agente Vincenzi lo guardava preoccupato.
«Metto in vivavoce, commissario, così posso continuare a guidare», disse Luca. Spinse un pulsante e appoggiò il telefono sul cruscotto.
«Luca, non sappiamo ancora perché, ma quell’uomo ti conosce.»
Stavano percorrendo via Bologna, con i palazzoni, i ristoranti, le concessionarie di auto, alcune persone in bicicletta… tutto scorreva di fianco all’Alfa in modo indifferente. Davanti agli occhi di Luca, invece, scorrevano le immagini a lui più care.
«Il Mostro sta tenendo in ostaggio tua moglie e tuo figlio», proseguì il commissario, gelido. «E ha chiesto esplicitamente di te.»
Luca avvertì un tuffo al cuore: possibile che dovesse accadere veramente? Possibile che quel lenzuolo levato dal viso di suo figlio diventasse realtà?
Percepì nettamente la bocca dell’agente Vincenzi che si spalancava, non riuscendo tuttavia a pronunciare una sillaba.
Cosa saresti in grado di fare se capitasse qualcosa a Matteo? gli chiese una vocina.
Sono un poliziotto, si impose semplicemente.
La vocina stava per replicare, ma il commissario Battistini continuò. «Adesso ascoltami bene: non devi assolutamente dirigerti al centro commerciale, bisogna trattare e quindi…»
Luca spense il cellulare e dopo un attimo fece lo stesso con la radio.
Passarono pochi secondi, poi un trillo ovattato risuonò nell’abitacolo. Vincenzi estrasse il telefono da una tasca interna della giacca. Luca gli lanciò un’occhiata eloquente e l’agente zittì la suoneria.
Proseguirono in silenzio. Luca sentiva lo sguardo del collega su di sé, ma evidentemente l’agente non aveva il coraggio di dire una parola, e forse era meglio così: non avrebbe saputo come rispondergli.