Tre giorni dopo, l’ispettore Luca Giatti si trovava nel Duomo di Ferrara, seduto in prima fila su una panca di legno. Le voci del coro intonavano Il Signore è il mio pastore, e davanti ai suoi occhi umidi c’erano la bara di Claudia e quella più piccola, bianca, di Matteo. Il profumo di fiori, sparsi ovunque in mazzi, corone e vasi, adombrava quello più pungente dell’incenso. La cattedrale era piena, molte persone erano in piedi, e più ancora erano quelle assiepate fuori, assieme alle innumerevoli telecamere e giornalisti. Dal giorno della morte della famiglia dell’ispettore Luca Giatti i media non avevano ancora smesso di parlare del Mostro, della fine di un incubo. E chissà per quanto ancora sarebbero andati avanti.
In quei tre giorni Luca non aveva quasi toccato cibo. Si divideva tra la camera ardente, dove rimaneva tutto il giorno, e casa sua, dove cercava di riposare alcune ore. Non era più salito in camera da letto, preferiva il divano del soggiorno, la cucina o lo studio di Claudia, circondato dalle cose della moglie e di Matteo, dai suoi giochi, dalle loro foto. Aveva visto e capito cosa aveva fatto Buc per proteggere il suo Matteo, e lui non c’era riuscito. Era andato a trovare il cane una sola volta alla clinica veterinaria. I dottori gli avevano detto che se la sarebbe cavata. Tuttavia, quando aveva provato ad accarezzarlo, Buc lo aveva guardato come se non lo riconoscesse, girando poi il muso dall’altra parte. Non poteva dirsi sorpreso dalla reazione del cane: in fondo, entrambi erano rimasti soli, e niente avrebbe potuto ridare loro ciò che avevano perso.
Nelle poche ore in cui riusciva ad assopirsi, Luca continuava a sognare il fantasma di suo padre, muto, che si limitava a guardarlo, forse incapace anche lui di esprimere un giudizio sul figlio. E poi il volto del Mostro che si prendeva gioco di lui. Anche se non era più solo il Mostro, ma Giuseppe Pozzati.
Il giorno prima, il commissario Battistini era andato a trovarlo alla camera ardente. Si era soffermato un attimo davanti alle bare, si era fatto il segno della croce e poi, senza sigaretta in mano, si era seduto di fianco a lui. Luca si era aspettato che il commissario lo esortasse in qualche maniera a tirarsi su, che si perdesse in discorsi ipocriti sulla vita, sulla morte o su qualche imperscrutabile disegno divino, come già avevano fatto i genitori di Claudia (distrutti dal dolore), l’agente Claudio Vincenzi (che dentro a quella camera non aveva resistito più di cinque minuti) e l’agente Silvia Terenzi (che prima di andarsene lo aveva stretto in un forte abbraccio). Il commissario Battistini, invece, gli aveva parlato del caso.
Le loro ricerche gli avevano quindi dato un nome: Giuseppe Pozzati, ex architetto, incensurato. Il sopralluogo nella sua abitazione in Contrada della Rosa aveva fatto luce su un uomo di chiesa, devoto e praticante. Si era sposato, ma aveva divorziato, probabilmente in seguito alla morte del figlio di soli quattro anni, colpito da leucemia fulminante.
«Le nostre vite si erano già incrociate», gli aveva detto Luca, raccontandogli della malattia del padre, delle lunghe ore di attesa nella cappella dell’ospedale di Rovigo, dove, ora lo ricordava bene, aveva visto almeno un paio di volte quell’uomo pregare per il figlio, fino alla sua morte.
«Sì», aveva ammesso il commissario. «Il piccolo Mattia Pozzati è morto all’ospedale di Rovigo, poco prima che morisse tuo padre.»
E gli occhi di Luca si erano di nuovo inumiditi. Eppure Battistini era andato avanti, quasi volesse togliersi un sasso dalla scarpa.
L’opinione di Minardi era che a seguito di quella terribile perdita la mente del Pozzati avesse creato una forte psicosi: la convinzione che la malattia del figlio fosse il maligno, che i tempi della fine del mondo, dell’Apocalisse, fossero vicini e che quindi lui dovesse sconfiggere l’Anticristo per trovare una catarsi nella morte del figlio. Ciò era in parte confermato dai numerosi psicofarmaci trovati nell’appartamento, e che forse il Pozzati non assumeva più; medicinali prescritti da uno psichiatra di Bologna che, quando era stato contattato dallo stesso Battistini, gli aveva confermato di averlo avuto in cura per alcuni mesi, finché poi non si era più presentato alle sedute. Di fatto, comunque, di questi psicofarmaci non ne era stata trovata traccia negli esami del sangue che gli erano stati fatti in ospedale.
Luca tuttavia non ne era del tutto convinto. Perché doveva esserci qualcosa di più profondo in quella vicenda. O perlomeno lo sperava, perché l’ultima follia di quella situazione era che Luca aveva perso tutta la sua famiglia, mentre il Mostro, Giuseppe Pozzati, era ancora vivo.
«È ancora chiuso nel reparto di terapia intensiva», aveva continuato il commissario, «ma appena uscirà lo torchieremo ben bene.»
E a che servirà? aveva pensato Luca. Nessuno gli avrebbe più restituito Claudia e Matteo.
E ora, nel Duomo di Ferrara, mentre Il Signore è il mio pastore intonato dal coro volgeva al termine, Luca osservò le spalle dell’agente Claudio Vincenzi seduto alla sua sinistra sussultare. Poco più in là c’era il commissario Battistini, seduto accanto a una donna, molto probabilmente la moglie, che Luca non aveva mai visto. Poi l’agente Silvia Terenzi e gran parte dei ragazzi della questura. Tra la folla, mentre entrava nel Duomo, aveva scorto anche i folti baffi scuri di Vilmer Menegatti, il custode del cimitero di Quacchio, per la prima volta da che lo conosceva senza coppola nera in testa, a mostrare la calvizie.
Di fianco a lui, le spalle di Claudio sussultarono ancora. Luca vi appoggiò sopra una mano. Vincenzi alzò lo sguardo. Lacrime gli rigavano le guance infuocate. «Ispetto’… dovrei essere io a confortarla, mi dispiace…»
«Non temere, Claudio, nessuno di noi rimane solo», disse Luca, deciso, ma con voce rotta, ripensando agli occhi di Matteo rivolti alle sue spalle mentre moriva. Poi tornò a guardare le bare davanti a lui. «Nessuno di noi rimane solo…»
Niente è più prezioso di un figlio, pensò, sentendo al contempo crescere dentro di sé un sentimento a lui del tutto estraneo… fino a quel momento.
Matteo è morto e tu cosa sei stato in grado di fare per lui? gli ricordò una vocina, e non era quella di suo padre, perché Carlo Giatti ormai non gli parlava più.
Sono ancora un poliziotto? si chiese semplicemente.
Molto prima che la funzione volgesse al termine, i suoi occhi si erano già asciugati e la sua mente era volata fuori dal Duomo, lontano da quelle bare… concentrandosi su un unico pensiero.
Niente è più prezioso di un figlio.