Tre mesi dopo, Giuseppe Pozzati è stato rinchiuso nella Dozza di Bologna. Anche se si trova in uno dei carceri più sovraffollati d’Italia, è stato messo in isolamento. È una sistemazione provvisoria, ma necessaria, perché lui è un assassino di bambini e gli altri carcerati fremono nell’attesa di mettergli le mani addosso. A breve sarà trasferito in un istituto mentale.
Dopo la sparatoria al centro commerciale ha subito diversi interventi chirurgici perché alcuni proiettili gli hanno bucato lo stomaco e un altro gli ha sfiorato il cuore. E ora si trova in una cella priva di qualsiasi oggetto pericoloso, temendo che possa suicidarsi. Ma forse quei dottori, e soprattutto quel Minardi, che lo hanno a lungo visitato e analizzato, non hanno capito che questa non è assolutamente la sua intenzione.
«Dio mi ha salvato la vita, perché ha ancora bisogno della mia mano», sussurra verso il muro bianco di fronte a lui. Risuonano chiare alle sue orecchie le offese e le urla degli altri carcerati. Si inginocchia ai piedi della branda, si fa il segno della croce e si porta le mani strette a pugno sotto al mento. «Dio mio, perdonali, perché non sanno quello che dicono. Hanno perso la fede.»
Rimane in silenzio per qualche secondo, come se stesse ascoltando una voce.
«Sì, mio Signore, all’istituto mentale ci sono dei demoni da scacciare.» Si fa di nuovo il segno della croce e china il capo. «Sia fatta la tua volontà, mio Signore.»
Alla sua destra risuona lo scrocchio della serratura.
Il Mostro si alza in piedi, pensando che non dovrebbe essere quello il giorno del suo trasferimento. La porta della cella si spalanca. Una guardia fa entrare l’ispettore Luca Giatti.
Sorpreso, il Mostro si gira verso l’uomo che non sapeva di essere il custode del Maligno, il cui viso serio sembra ancora tormentato da mille demoni.
Con ancora più sorpresa il Mostro osserva la guardia carceraria che esce e richiude la porta della cella, lasciando quindi l’ispettore da solo con lui.
«Non ricevo molte visite», dice il Mostro senza muoversi dal suo posto. «Ma questa di certo è la più gradita.»
L’ispettore non dice nulla, compie solo un passo verso di lui.
«Se tu sei qui, è perché ti vuoi pentire.»
L’ispettore non replica. Fa un altro passo in avanti.
In quel momento il Mostro legge negli occhi del giovane ispettore qualcosa che non ha visto durante il loro incontro al centro commerciale.
Determinazione. Una feroce determinazione.
Comincia allora a credere di aver commesso un errore.
Possibile che il custode del Maligno fosse il Maligno stesso? pensa, ma non ha il tempo di cercare una risposta, perché dalla manica destra della camicia dell’ispettore vede scivolare fuori la lama di un cutter.
No, non si è sbagliato. D’altronde la mano di Dio non può sbagliare.
«Tu sei solo un uomo che cerca vendetta», conclude il Mostro, sentendo le labbra tirarsi in un sorriso. «Ma non puoi trovare vendetta nella mano di Dio, soprattutto quando la mano di Dio non ha ancora finito di lavorare.»
Le parole gli si bloccano in gola, perché avverte un ticchettio inconfondibile. Da dietro una spalla dell’ispettore, infatti, vede sbucare un’ombra nera ricolma di denti aguzzi che addentano l’aria. Poi l’ombra assume i contorni di un viso, fino a tramutarsi nel viso di quel bambino: gli occhi sono grandi e neri; un sorriso malefico gli increspa la faccia bianca. Sospeso così a mezz’aria sembra comandare l’ispettore come un burattino.
Il Mostro non dice più nulla, ma tende i muscoli, pronto alla lotta.
La mano dell’ispettore che stringe il cutter si alza. I suoi occhi sono iniettati di sangue. «Niente è più prezioso di un figlio», esclama a denti stretti, affondando la lama davanti a sé.
D’istinto il Mostro fa un balzo indietro ed evita il colpo, ma le parole pronunciate dall’ispettore lo lasciano interdetto. Mentre questi avanza ancora verso di lui con il cutter spianato di fronte a sé, il Mostro ricorda – come già gli è sembrato al centro commerciale – il viso di quell’uomo in preghiera nella cappella dell’ospedale di Rovigo.
Giuseppe Pozzati si rispecchia negli occhi dell’ispettore e rivede il suo dolore per Mattia.
«Niente è più prezioso di un figlio», ripete ancora l’ispettore, quasi a condividere con lui quel ricordo. Dietro le sue spalle non c’è più il viso del Maligno.
Giuseppe abbassa lo sguardo e, con profondo sgomento, da dietro le gambe dell’ispettore vede sbucare suo figlio, Mattia. Le guance sono paffute, di un bel colore rosa, in testa sono tornati i suoi meravigliosi riccioli neri… si vede che sta bene… eppure non sorride, anzi, l’espressione del viso è molto seria.
«Mattia…» sussurra Giuseppe.
«Come ti permetti di pronunciare il nome di mio figlio!» gli urla l’ispettore, affondando ancora la lama.
Non ho pronunciato il nome di tuo figlio, pensa Giuseppe come in trance, ma evita ancora l’affondo dell’ispettore facendo un altro passo indietro. Si ritrova con le spalle al muro.
«Hai spezzato un’altra vita, papà», dice Mattia, serio. «Quante vite hai spezzato, papà?»
Era sempre lui che mi parlava, pensa con ancor più sgomento Giuseppe, e, come in un vortice, rivede tutte le purificazioni che ha fatto… tutti i bambini che ha ucciso.
L’ispettore, indifferente, avanza di un altro passo, gli occhi rossi stretti in due sottili fessure. «E guardami quando ti parlo, bastardo, perché la mia faccia è l’ultima cosa che vedrai.»
Giuseppe, a bocca aperta, alza gli occhi verso di lui proprio quando l’ispettore pronuncia quelle parole, ma questa volta in un folle coro con Mattia.
«Niente è più prezioso di un figlio!» quasi gridano sia Mattia che l’ispettore Giatti. E quest’ultimo compie un ampio movimento con il braccio che regge la lama.
Nel mezzo secondo che gli rimane, Giuseppe capisce l’assurdità di tutto… e prende una decisione.
Scatta in avanti afferrando con la mano sinistra il polso dell’ispettore, avvinghiando il braccio con il suo e girando al contempo su se stesso. Si trova così di spalle al poliziotto, che urla per il dolore, o forse solo per la sorpresa, mentre Giuseppe gli torce il polso, dandogli poi una spallata per allontanarlo.
Il cutter cade a terra.
Giuseppe lo raccoglie e, senza esitare, si squarcia la gola da una parte all’altra.
Il dolore lascia il posto alla consapevolezza. Avverte solo un lieve formicolio al viso mentre si inginocchia sulla pozza del suo sangue. La lama tintinna sul pavimento. Si sdraia in posizione fetale, gli occhi rivolti verso l’alto. Il viso sbalordito dell’ispettore è sopra al suo.
Mattia non c’è più.
Vorrebbe ringraziare l’ispettore, ma dalla bocca gli esce solo un gorgoglio liquido. Vorrebbe dirgli che quello che ha fatto…
L’ultima cosa che Giuseppe Pozzati vede sono i suoi occhi lucidi di lacrime, le mascelle contratte.
Poi un lenzuolo nero lo avvolge come un bozzolo.
Pensa a Mattia.
Pensa alla dannazione.
Infine non pensa più.
L’ultima cosa che sente…
… è una piccola mano calda che stringe la sua.
FINE