Introduzione

La poetica dell’insignificanza
da Viterbo a Caltanissetta

Prima del Don Giovanni in Sicilia, di Il bell’Antonio e di Paolo il caldo, ritenuti i romanzi più significativi di Vitaliano Brancati, lo scrittore pubblica Singolare avventura di viaggio, Sogno di un valzer e Gli anni perduti, opere centrali del suo itinerario inventivo, di cui almeno la seconda è da annoverare tra quei capolavori.

Ciò avviene in poco meno di un lustro, nel quale si devono pure registrare del fervore creativo e della riflessione conoscitiva del grande autore siciliano articoli, racconti in rivista e quelle pagine d’incomparabile diarismo che sono le Lettere al Direttore, preannuncio o esse stesse prove sicure di sapido, risentito raccontare. Nell’insieme romanzi, prose di felicissimo estro e di non meno seria, alta moralità.

Negli anni Trenta, tra fascismo e antifascismo, nel mito di Natàca consegnato negli Anni perduti s’introduceva, dunque, l’esperienza nissena, cioè si configura in Sogno di un valzer la metafora di Nissa tra astrazione, noia e tragica comicità; e ancora prima la poetica dell’insignificanza di Vitaliano Brancati aveva preso maggior corpo nel romanzo di Viterbo: Singolare avventura di viaggio. Accantonando per un momento il primo romanzo di Catania, una valutazione, allora, della diversa invenzione “provinciale” dello scrittore di Pachino si agevola dell’esame ravvicinato, se non proprio contestuale, delle due narrazioni meno frequentate, anche perché, in rapporto a quella poetica, la problematica dell’erotismo e specie del comico vi fanno delle prove particolari, segnalando altresì inizio ed esiti di crisi politiche e stilistiche.

Se si considerano le vicende di Singolare avventura di viaggio come quelle di un romanzo in sé compiuto, un definito microtesto dell’opera di Vitaliano Brancati, non c’è dubbio quasi che si tratti del racconto di una crisi rientrata, ricucita, sia pure in conseguenza di un atto volontaristico. Al contrario, possiamo valutarle come l’affiorare di una crisi che si espanderà nel prosieguo coinvolgendo tutto il macrotesto brancatiano, un episodio, una prima testimonianza romanzesca di quell’inquietudine, di quel mutamento che successivamente verranno registrati con sicurezza.

D’altra parte Brancati nell’ultima pagina del romanzo aveva indicato questa condizione strutturale, con la chiarezza possibile a quel tempo:

Qui noi non siamo per giudicare, ma per narrare. E narrare fino a un certo punto. Perché noi non sappiamo se l’avventura di Viterbo sia il primo sintomo di una crisi che scoppierà in avvenire, o l’ultima emersione di un mondo che non apparirà mai più, un episodio senza seguito.

E in quella primavera romana del 1933 non poteva che concludere così: «L’unico fatto incontestabile è questo: che ora, mentre cammina e torna all’azione, il nostro personaggio è veramente felice, e sorride». Dove si rimane in dubbio se si tratti di una forzatura ideologica, o se al giovane scrittore piacesse chiudere con un’immagine del personaggio suadente, accattivante, una figura bella in sé di sorridente felicità.

Che si possa attribuire questa ambiguità a una posizione politica non chiara, non impedisce di sottolineare che sei periodi prima lo scrittore ha avvertito nell’agire del personaggio la mancanza di una superiore moralità – è sul piano etico che Brancati risolve quasi sempre le sue antinomie – che potrebbe permettergli di interrogarsi non superficialmente:

Intanto, nella pianura, qualcuno, forse un pastore, ha incominciato a cantare: sono poche note, lontane l’una dall’altra, come fuochi nella solitudine.

Enrico accelera il passo, marca l’un-due, il ritmo banale e salvatore. Egli sente che la sua felicità è legata a quel passo di marcia. L’avventura di Viterbo pare gli abbia insegnato che un uomo come lui, pieno di forze attive, non deve mai fermarsi nella vita, perché la sua morale è come una luce generata dal movimento. Egli sarà, dunque, condannato ad agire sempre. Conclude che c’è una morale per gli uomini attivi, e un’altra per gli uomini contemplativi; che chi, appartenendo a una categoria d’uomini, passa all’altra anche per un istante, rischia di perdersi.

Egli non sospetta che ci sia, al di sopra di questi sentori morali, un senso più alto, capace di guidare in tutti i momenti della vita. Non sente nemmeno che qualcosa sfugge alla sua felicità, come all’un-due del suo passo, che gli era sembrato il ritmo dell’universo, sfugge ora quel canto di pastore, malinconico e lento. Canto inafferrabile, canto che vuole rimanere estraneo alla felicità di chi sale il colle segnando il passo.

Enrico non se ne domanda la ragione, non teme il rimprovero che è nel continuo ritrarsi di quel canto malinconico e profondo dinanzi al suo prepotente un-due.

Eppure è questo il momento in cui egli potrebbe guardare in faccia la sua vita; è questo il momento in cui egli potrebbe veder chiaro senza essere superficiale; e domandarsi che cosa sia la sua forza, e la sua onestà, e il suo bisogno di agire.

Se volessimo, ma antifrasticamente, esprimerci con lo scrittore, potremmo dire che ora noi non siamo qui per giudicare in astratto, ma per valutare questa narrazione che è la prima veramente nuova nell’ancor breve itinerario brancatiano, la prima che l’avvicini ai giovani narratori di quei primi anni del terzo decennio del Novecento.

Ed è proprio l’appartenenza del protagonista del romanzo alla schiera dei personaggi negativi della narrativa novecentesca, con la sua incapacità a porsi sul «fiume della vita attiva, febbrile» che correva a Roma, se non con la trovata della solitaria e ridicola marcia mussoliniana, a causare la condanna del “killer” fascista di «Quadrivio» che invece considera il mussolinismo del precedente romanzo, L’amico del vincitore, un «sintomo confortante, nei giovani, di un nuovo spirito». Con tutto il seguito di un sermoneggiare moralistico, con cascami gentiliani, che non impedisce al giovane giornalista d’ordine di esprimersi con becerume littorio («A parte il fatto che questa storia del sesso ha finito per rompercene la parte più delicata…»).

A chi credeva nelle sfilate dei battaglioni del Duce non poteva che apparire già parodica, con una tonalità ridicola di segno diverso da quella che vi cogliamo ora, la marcetta individuale dell’Enrico redento a forza. È presente qui quel figurativismo novecentista che ritroviamo pari pari nell’Uomo provvisorio di Jovine, un romanzo guarda caso pure del 1934, dove taluni personaggi con auspicio retorico si augurerebbero di non aver «niente da dire, ma tutto da fare», che è poi l’«agire» degli amici di Enrico Leoni.

La vicenda di due cugini, Enrico e Anna, che in una breve permanenza a Viterbo compiono un’esperienza sessuale, sarebbe in fin dei conti comune, normale, pur con turbamenti e sconfinamenti che segnano il passaggio da erotismo a lussuria. L’impiccio sorge perché l’avventura viene consumata da una ragazza inquieta, che vorrebbe comportarsi secondo l’educazione familiare borghese, ma così debole da dimenticarla ai primi ardori, e un giovane uomo nuovo; cioè da un fascista, dominato dall’attivismo, dalla voglia di fare «cose grandi», anche di rifare una nuova guerra, mentre tutti i compiti li ha presi su di sé «l’uomo di genio» che lo lascia in vacanza, disoccupato di problemi, come tutti gli altri, che non hanno da fare che mettere in ridicolo il parlamentarismo liberale, il giornalismo democratico. Quando l’uomo di genio (Mussolini, Hitler, Stalin) libera gli individui dei problemi, non resta che fare un viaggio di piacere con la cugina a Viterbo (questa tematica è presente già in articoli apparsi nel 1933 e nel 1934 sul «Popolo d’Italia» e sulla «Stampa»). Ma il viaggio si trasforma in una ricognizione esistenziale che ha come vettori una crisi etico-politica e un’avventura erotica che subito si contrae e anche s’intristisce in una lussuria ossessiva. Ma è proprio da quest’ossessione che tracima con crudezza l’esame di coscienza, tanto crudele da riportare il personaggio indietro, quando la “fede” lo spingeva a un attivismo inconsapevole.

È appena il caso di ricordare che è proprio da una condizione di lussuria estrema che si manifesterà la crisi del protagonista dell’ultimo romanzo, Paolo il caldo, una crisi che è stata indicata anche come quella della ragione borghese.

L’originalità dell’invenzione brancatiana si qualifica subito nella scelta dei luoghi dove far svolgere la vicenda. Gli interni di un albergo di provincia, quelli occupati dai protagonisti, in un corridoio silenzioso e senza luce, quasi separato dal resto; gli esterni del quartiere medievale di Viterbo, l’antica città che già all’inizio comunica le sue suggestioni.

Dal finestrino, Enrico vide le mura di Viterbo, scure, alte e senza porte. Le torri opponevano, con un senso di capogiro, la loro fermezza alla tempestosa corsa delle nubi

[…] Soffiava un vento forte e sbandato. Il freddo, in mezzo alle selci nere e alle mura nere, aveva un effetto di sogno: si cercava la neve e si trovava qualcosa come il carbone spento.

Quando Enrico e Anna si aggireranno per la città medioevale con la credenza «che gli spettri dei popoli morti […] esistano», il colore nero, il senso di morte, si presenteranno in figura di sopravvivenze, decadenti ma ancora calde di un’esistenza scomparsa e pure conservata come in straordinarie, mostruosamente grandi, bacheche da museo.

Erano arrivati in piazza San Pellegrino. Non c’era più nulla che ricordasse il Novecento, tranne il cielo e le nubi che, nella loro eternità, avevano qualcosa di contemporaneo.

«No, è uno sconcio!» disse Enrico.

«Perché uno sconcio?» fece Anna. «È assai bello.»

La piazzetta era piccola, scura e senza luce. A sinistra, si alzava un palazzo con lo stemma degli Alessandri e con un balcone lungo cinque metri, poco elevato sulla piazza e schiacciato sotto un arco pesante. Di fronte, una viuzza si perdeva nel rientrare e sporgere di pareti affumicate e di archi. Una piccola chiesa rimaneva nell’ombra fitta; a destra, l’acqua rosicchiava la scala di tre casupole. In fondo, sopra una specie di ponte, delle finestre alte, buie e spalancate.

La piazza non era una rovina medioevale, ma il Medioevo. Le scalinate, che si gettavano l’una contro l’altra nello spazio angusto, e i balconi grandi e soffocati, e la via che avrebbe reso vicini, per la sua piccolezza, e lontani, per la sua insidia, due uomini: tutto dava un sentimento oscuro d’intimità e di violenza, di sensualità e di paura religiosa.

«No, è uno sconcio!» ripeté Enrico.

«Ma perché?»

«Questa non è una rovina, non è un’antichità: è un cadavere del Medioevo, coi piedi ancora sudati. […]

La vita che permane o ricompare non può che essere quella naturale dove si consumano gli atti più elementari degli appetiti primordiali.

Ma quando un cane, dopo aver fiutato la compagna, le salì sopra; e i due animali, fatti quasi statuari dal deserto angusto della piazza, rimasero coi sessi uniti, i due non poterono impedire di venir toccati da quell’onda di piacere, come da un’onda fredda, lontana, quasi incestuosa: era il piacere del Mille, quello che aveva generato gli avi dei loro avi?

Da questo momento, dalle pietre e dalle geometrie arcaiche, dalle stanze appartate e vuote dell’albergo desolato, sorgono sentimenti oscuri, e pulsioni infrenabili che, appena velate dall’ombra di un dolore senza parole, esibiscono come un campionario di approcci e atti sensuali che, a cifrarne la sordidezza senza anima di passione, comincia con una procurata masturbazione.

Dopo Enrico

Si sentì sporco, umido. Il seme era caduto nel buio, forse le era caduto sul viso, perché ella aveva chiuso gli occhi, con rassegnazione, senza lamentarsi, come un giglio si piega sotto la falce.

Con un retaggio dannunziano di estrema estenuazione “notturna”, più che di scarnificazione, di macerazione e di assottigliamento – nell’ambito di un paradigma di genealogie intellettuali che da D’Annunzio trascorre diversamente a Borgese, Moravia, Jovine – ci troviamo nella zona esistenzialista presartriana (Sartre pubblicherà la sua narrativa alla fine degli anni Trenta) dove l’invenzione dei giovani scrittori privilegia spazi brevi; e così, in Singolare avventura di viaggio, le due stanze in un corridoio d’albergo.

Il giovane Brancati, assieme al primo Moravia, all’Alvaro di L’uomo nel labirinto ma anche del postumo Domani (tuttavia scritto proprio nel ’33-’34), al Bernari di Tre operai (prima intitolato Gli stracci) e allo Jovine dell’Uomo provvisorio, rappresenta la solitudine degli interni privati e il senso esistenzialistico del vivere desolato. Ed egli configura lo squallore fisico e morale anche comunicando sensazioni e figure di sporcizia, di qualcosa che rende brutto il nostro corpo, laido il nostro agire, con la metafora iterata dei piedi sudati, con l’idea dell’assenza di morale impoverita dall’indifferenza.

Se Alvaro e Moravia degli interni casalinghi vanno facendo il luogo deputato, antonomastico, delle tresche e delle sordidezze morali del mondo borghese, Brancati, con un’eredità in più dal D’Annunzio dei romanzi romani, sceglie luoghi anonimi e insieme fortemente caratterizzati; spazi privati e pubblici, scelti per quel senso di chiuso e di dilatato, di grande e di soffocato.

Si ricordi quello squarcio di paesaggio urbanistico antico, che «dava un sentimento oscuro d’intimità e di violenza, di sensualità e di paura religiosa». Qui si può anche adombrare l’idea dell’incesto (la cugina sembra la sorella del protagonista) ma come dal mondo antico poteva essere sedimentata dal decadentismo del neovate.

Spazi comunque brevi, secondo una visione esistenzialistica, come ho già notato altrove per il Brancati maturo, che tuttavia l’indagine millesimale delle sensazioni dilata, recuperando alla visione interiore il mondo esterno. Spesso, questo, con le sue tematiche ideologiche e sociali, risulta un fondale, sia pur necessario; peraltro, se a volte quel che vediamo fuori dal personaggio non è quel che vediamo dentro di lui, è proprio lo scarto tra l’interno e l’esterno che provoca l’atteggiarsi del personaggio e la sua crisi.

È facile, ma non pertanto assai significativo, registrare questo divario nel trattamento e nella valutazione del tema del silenzio dell’Ottocento compiuti da due personaggi, diversamente al centro del romanzo. Tutt’e due fascisti, e giovani nuovi guardano alla fanciullezza come al primo periodo della loro vita collocato in un tempo abissalmente diverso da quello del presente – lo spartiacque è segnato per entrambi gli anni della guerra. Un tempo lontano, che non è il Novecento, ma l’Ottocento, che è il secolo del lume a petrolio, della diligenza (più avanti si ribadirà: senza lampada elettrica, senza auto). Ma per Luigi Ridolfi, che esprime queste convinzioni al disorientato amico Enrico Leoni, esso è il tempo da cui sale un silenzio che vuol dire immobilità. Questo silenzio, se ci si lascia avvolgere, irretire, può dare il capogiro a chi vive nel tempo veloce dell’azione, nel Novecento inquieto. Per Enrico Leoni, che ha opposto solo monosillabi allo sfogo dell’amico, il ricordo dell’infanzia si accompagna pure al silenzio, solo che esso è una sensazione riposante, di pace diffusa. È qualificante che Enrico riprenda il filo di quelle considerazioni, portandole ad altra significazione, successivamente, in un momento di auscultazione, secondo il procedimento del monologo interiore.

L’avvertire il silenzio come allegoria dell’Ottocento è ritenuto da Ridolfi «un fatto grave», che può bloccare l’agire, ma, per Leoni, può simboleggiare il vivere ordinato che dà la certezza delle mete: «Perché quello era un silenzio che presentava l’avvenire come un corridoio diritto in cui era difficile non andare con lo sguardo sino in fondo». Siamo già dentro alla valutazione positiva dell’Ottocento che sarà estrinsecata con forza dal Brancati maturo; e anche questo è un segno della crisi del personaggio. Queste idee monologa Enrico, mentre Anna balla al ritmo di un valzer (e dovremo ricordare ciò, quando apriremo il romanzo successivo), sul filo di un’elegia memorialistica dove rivive la fanciullezza di lui, non più come un’astrazione esterna, una cosa del passato che porta scacco al presente, ma come un luogo caldo e tenero dove la figura di Anna bambina con la schiena nuda irrompe con delle premonizioni che presentano l’avventura di Viterbo («il paese scuro») come il compiersi di un destino. Un evento che rimane in bilico tra sessualità e amore, e difatti quando di lì a poco Enrico possiede Anna, la soddisfazione della carne permette l’intermittente sparizione di un incubo, non il suo superamento cosciente:

[…] Quando mise le mani sulle spalle di lei, forte, come quando si afferra un legno per dare un colpo di ginocchio e spezzarlo, qualcuno nella strada cominciò a cantare.

Era una canzone molto semplice, quasi gaia; ed egli la udì sempre, mentre nella carne di lei spariva qualcosa come un incubo, e di nuovo riaffiorava in lui, e di nuovo spariva in quella carne; e dall’altra parte, non riusciva mai ad apparire la luce della calma e della coscienza.

C’è da aggiungere che si tratta di una situazione borgesiana, dove l’ascolto di una canzone, la sensazione auditiva (scrive Borgese: «l’antica querela del violoncello») aiutano il compiersi dell’evento e la sua comprensione. Nel particolare brancatiano la musica accompagna l’incontro dei corpi e penetra Enrico come egli penetra Anna.

Il Borgese di Rubè è presente ancora nel romanzo di Brancati, e non poteva essere diversamente, con il tema della guerra, anch’esso con una valenza duplice: nel suo nuovo incombere, aggressivo e violento, una possibilità di cui l’Italia di Mussolini parrebbe portare “il merito” più della Germania di Hitler; nel ricordo dei padri, come «qualcosa di piacevole e caro».

L’indagine delle sensazioni, che si dilata dal piccolo e concreto reale effettuale nel più vasto reale possibile, si avvale di un’antifrastica formalizzazione dell’insignificante:

L’uomo si trascinava lentamente… Per eludere la sua attesa, Enrico cominciò a studiare i particolari più lontani da quello che veramente gl’interessava: i pantaloni stinti e bucati, le piante delle scarpe coi tacchi di gomma (questi tacchi di gomma erano in verità molto strani, in un uomo simile!), un lembo di fazzoletto che sporgeva dalla tasca destra della giacca.

L’uomo era arrivato alla parete opposta: Enrico immaginò che si voltasse; invece quegli alzò le braccia, in modo da arrivare più in alto che potesse, e rimase così, fermo, come un animale schiacciato al muro da una scarpa.

Ma la notazione di particolari minimi può essere insignificante solo apparentemente:

[…] Sulla terra, esisteva allora un piccolo orto, con una cisterna nel mezzo e una scaletta che saliva verso una terrazza […] Ma non esisteva soltanto l’orto, in quel tempo; esisteva anche lo spazio della vallata, con in fondo il mare; esisteva la cima del vulcano, di un colore morbido e vivo come la pelle di un animale; e i castagni, e l’odore del sole estivo, e la polvere bianca mossa dal vento, e il suono precipitoso e chiaro degli orologi […] Al tramonto, dal mare e dalla vallata, cominciava a salire un silenzio singolare; e fino a sera, fino a notte alta, questo silenzio continuava a salire, sempre più grande, largo e fitto. Esistevano allora sulla terra dei vecchi di proporzioni incredibili; esisteva un modo di raccogliersi intorno alla cisterna e di sedere, al lume della luna o nel buio, che dava, della vita, un’idea molto riposante e triste: così cominciava; così, dopo un lungo seguito di sere al buio o al lume di luna, sarebbe finita.

Brancati s’avvia a enucleare una poetica esistenzialistica, di stampo originale, in quanto peculiare poetica dell’insignificanza. La sua rappresentazione in spazi brevi, dove gli avvenimenti si scandiscono in una temporalità circolarmente chiusa, assumerà sempre più un valore antifrastico, letteralmente, di contro-espressione, delle grandi tematiche civili, dei forti problemi morali, in cui il tempo storico si incaricherà di fare inciampare i piccoli uomini.

Prima delle grandi pagine di libera comicità chapliniana, Brancati pubblica nel 1938, quattro anni dopo Singolare avventura di viaggio, un altro romanzo breve, Sogno di un valzer, che si potrebbe dire stia tra l’umorismo di Pirandello e quello di Gogol, sempre che se ne veda bene il radicamento in una terra, la provincia della Sicilia occidentale, e in un tempo, «gli anni della noia».

E il modello pirandelliano, rovesciato come un guanto, è peraltro riusato comicamente per quegli aspetti divenuti luoghi comuni, “idee correnti”: il pirandellismo come profondismo testimonia così di una diffusione deteriore del modello alto della lezione dello scrittore agrigentino.

Scoprire la stupidità nell’accoglimento acritico di questo, come di altri modelli culturali e sociali (il dannunzianesimo, il mussolinismo eccetera) è avvertire l’esigenza di una nuova forma da dare alla rappresentazione, alla narrazione.

Ecco allora il comico, serpeggiato in antiche carte di Brancati (e anche in alcuni racconti, come Il posto, dell’ultimo quinquennio degli anni Trenta) che prende quota nel romanzo Gli anni perduti e, appunto, in Sogno di un valzer: e si rincorrono i due lavori nelle riviste «Quadrivio» e «Omnibus» tra l’estate e l’autunno del 1938.

Se la realtà attuale non è più misurabile e modellabile secondo gli schemi della narrazione tradizionale, pure grevi di tematiche politiche, di considerazioni ideologiche, allora il comico è la nuova forma in cui si misura e si confronta la faccia alternativa di quella realtà.

Non è un caso che in quelli che sono con ogni probabilità i mesi di stesura di Sogno di un valzer, sul settimanale «Omnibus» diretto da Leo Longanesi, in cui Brancati, presente dalla fondazione, infittiva la collaborazione (mentre diradava quella con «Quadrivio») per la rubrica Lettere al Direttore, egli scelga come tema della lettera del 5 marzo 1938 di parlare degli «Amici di Nissa», cioè di Caltanissetta, e delle loro siciliane metafisicherie. Intanto è significativo che i primi paragrafi della lettera presentino l’ironico cartone dichiarativo di quella che ho chiamato la poetica dell’insignificanza, fondata, per come dice lo stesso Brancati riduttivamente, sulla «capacità… d’interessarsi a piccoli fatti»:

Una sera del giugno 1915, un signore passeggiava sotto un fanale, voltandosi e ritornando sui propri passi ogni volta che l’ombra gli sfumava davanti. Un ragazzo guardava attentamente le vicende di quell’ombra, e si meravigliava che, per il solo fatto che quel signore camminava su e giù, il selciato della strada accogliesse ora un gigante violaceo, ora un piccolo uomo nero e infine qualcosa come una palla in procinto di sparire sottoterra. Quel ragazzo seguiva con molto interesse le evoluzioni dell’ombra attaccata per i piedi ai piedi del passeggiatore. E quel ragazzo ero io.

Da allora mi è rimasta una grande capacità d’interessarmi a fatti di tal genere: ombra di chi passeggia sotto un fanale in una strada deserta; movimenti rotatori di un cane ai piedi di un palazzo col portone, le imposte delle finestre, le porte delle botteghe ermeticamente chiuse; netta veduta del cielo stellato da qualunque punto delle strade e delle piazze; discorsi a voce alta dei nottambuli; suoni di orologi petulanti e acuti come canti di galli. Questa mia capacità, messa a dormire per molto tempo, si è svegliata a Caltanissetta e quivi si esercita da due anni.1

Queste parole introducono bene alla delineazione dell’indole dei nisseni, (dei palermitani vi è un giudizio ancora folgorante sull’ingegno sprovvisto della comicità di letterati come Cesareo e Mignosi), così diversa da quella degli abitanti delle città della Sicilia orientale, della Sicilia greca, e caratterizzata da un’attitudine alla speculazione filosofica che diviene ridicola nel suo radicalizzarsi, a contrasto involgendosi nella grama quotidianità della vita:

L’indole di questa città è ben diversa dall’indole di Catania o di Siracusa. Sulla costa orientale della Sicilia si cade spesso in un comico grossolano, ma c’è sempre qualcuno in grado di sorriderne. L’umorismo più fine accompagna gli errori più madornali del gestire, del parlare, del vivere; così come lo spirito del commercio, che per bocca dei suoi teorici condanna e disprezza la fantasia, nelle sue imprese si mescola continuamente alla fantasia. Ma la principale qualità degli uomini della costa orientale rimane in quel sapere essere insieme personaggi e autori di commedie. L’ironia tempera gli errori.

Da Caltanissetta, invece, la vita diventa meno grossolana, ma la capacità di sorridere si estingue del tutto: il senso del ridicolo abbandona proprio qui la littorina che da Catania vola a Palermo. Se il sorriso è una luce, la costa occidentale della Sicilia può dirsi perfettamente al buio. Abbandonati dal senso del comico, i siciliani si fanno gravi e metafisici. Un linguaggio filosofico dei più irti, con le “categorie”, lo “spirito universale”, il “non io”, si mescola alle più intime conversazioni e accompagna gli atti più umili della vita quotidiana. Così nascono a Palermo i Mignosi e i Cesareo, uomini senza dubbio d’ingegno, ma totalmente sprovvisti del senso correttivo del comico. Così i miei amici di Nissa, persone di rara intelligenza, mi trattengono a notte alta presso il portone dell’albergo per decidere se la morale è una creazione momentanea del nostro spirito o un che di assoluto.2

Da ultimo gli amici di Nissa si annunciano come i fantasmi dei personaggi del racconto lungo che di lì a poco Brancati avrebbe pubblicato. E sono fantasmi che rimarranno sempre cari ricordi dell’esperienza reale vissuta da Brancati a Caltanissetta, se, oltre quel tempo, riappariranno nella prosa I piaceri del discorrere della donna:

E la notte? Si parla forse delle stelle e del mistero della vita? Ciò accade a Caltanissetta, ove il carrettiere, che parte alle due del mattino, guidando, sdraiato e con un occhio, il cavallo che anch’esso sonnecchia, scansa a mala pena tre figure grigie e curve che non vorrebbero andare a letto prima di stabilire se il mondo sia o non sia una creazione dello spirito umano.3

Che queste tematiche e queste figure prima di accamparsi nella pagina narrativa di Brancati si presentino con forza alterna nel vario tessuto, saggistico, diaristico, inventivo, delle Lettere al Direttore, è evidente però fin dalla prima lettera del 17 luglio 1937. E va rilevato che essa è inviata da Agrigento, «patria di Luigi Pirandello». Dopo una lettura topografica della città, di cui connota pirandellianamente l’assetto urbanistico, lo scrittore, con voluta misura bozzettistica, ironizza sui casi di una graziosa signora cui l’accoglimento dell’idea corrente del pirandellismo stava per fare un brutto scherzo:

Sorveglia tanta irregolarità, dall’alto del cielo, e precisamente dallo zenit, come il freddo capo di una cometa, l’occhio destro di Luigi Pirandello. Del quale si parla meno di quanto si creda, essendo in questi giorni tutta la città occupata a far lodi di un giovane assai cortese la cui carriera politica promette grandi cose. Comunque, ne parlano. Meno gli uomini, più le donne; e capisco perché: il dramma di Pirandello è di natura affatto femminile, e in quest’ultima parola, almeno per tre quarti, dev’essere compreso l’eterno femminino siciliano. Una signora molto graziosa, fu, due mesi addietro, a tal punto invasata dagli spiriti pirandelliani che dimenticò chi fosse lei, di chi fossero i suoi figli, come si chiamasse la città che abitava, e chi le avesse condotto in casa quell’uomo fastidioso che tutti le attribuivano come marito. Io visitai la signora, ed ebbi l’impressione che il suo caso fosse dubbio e libresco. Molte battute di lei mi parvero cercate con la memoria e ripetute malamente. Nella sua indifferenza verso il figlio, ella portava una esagerazione che nascondeva la paura. Del resto, il marito risolvette la cosa con la sapienza di Salomone: prese il figlio per le gambette e minacciò di romperlo in due. La signora gridò: “Figlio mio!”, svenne, rinvenne e promise di allattare il secondogenito che, in quel momento, si trovava a balia in un sobborgo vicino.4

L’esordio di Sogno di un valzer, con l’indicazione del bisogno dell’organizzazione di un ballo, subito dopo è posto tutto sotto l’occhio (quello sinistro questa volta) di Pirandello. Introducendo il personaggio femminile di maggiore spessore, Brancati fa vedere immediatamente cosa sono divenuti lo sdoppiamento della personalità, il relativismo, di matrice pirandelliana:

Lisa Martoglio, la più intelligente e colta fra le intelligenti e colte, aveva fatto portare un letto entro la biblioteca, si era chiusa per una settimana fra le scansie dei libri e, giorno e notte, aveva studiato e recitato, sola davanti a uno specchio, la parte dell’attrice in Trovarsi di Pirandello. Le signore e signorine adoravano Pirandello. Era da lui che avevano capito perché spesso si sentissero non una, ma due; era da lui che Anna Rosali, dopo una notte di rimorsi per essersi lasciata baciare da un amico del marito, aveva appreso, piangendo di tenerezza, di non essere colpevole, perché l’atto del giorno avanti ella lo aveva compiuto “come in sogno”. Era infine Pirandello che confortava queste care ragazze (giovanissime, le più) della maldicenza che le perseguitava, anche quando esse correvano lontano da Nissa, sole e scapigliate con la loro piccola fuoriserie. La maldicenza, dopo lo studio di Pirandello, veniva spiegata così: un cicaleccio di quel pauroso mistero che circonda gli uomini e per il quale ciascuno è mille, e anche centomila: dissimile da sé e quale l’altro lo crede. E le stesse lettere anonime al marito, ciascuna con un giudizio sul conto della signora, allineate sul tavolo, erano come una serie di specchi concavi e convessi, entro i quali la donna pensosa vedesse il proprio viso sfigurato in cento modi diversi.

E la comicità si fa per così dire filosofica, nel presentare Carlo Cannata, al quale «le idee non… lasciavano il minimo fiato in petto, pretendendo, non appena nate, di essere pronunciate a voce alta». Il Cannata, autore della teoria del per te, o con te, o contro di te, sempre in combutta con Edoardo Lorena (pseudonimo di un uomo politico siciliano, poi amico di Sciascia, noto per la straripante cordialità), trovava il suo equilibrio unendo a loro l’ex prete Ottavio Carrubba, come lo definiva il Lorena, «zio, bello e poeta assai fine», cui la comunità affida il compito di organizzare un ballo ufficiale. L’ingenuità e l’inconcludenza di Carrubba sono tali che egli vuole con fanatismo aggregare al comitato organizzatore un uomo totalmente eccentrico al gruppo piccolo borghese che costituiva il ceto intellettuale di Nissa. Giovanni La Pergola, rivenditore di frutta e verdura, è il personaggio che meglio incarna la doppia dimensione della verità delle cose e della finzione delle psicologie. Proprio a lui, privo d’ogni luce di autentica intelligenza, dalla personalità incongrua è dato di patire, fino al limite della pazzia e del delitto, il dissidio tra l’esistenza limitata e imperfetta che egli in concreto esperisce e la vita di sogno che sovverte la situazione comica in tragedia. Il desiderio di mutamento, la finzione che porta gli altri a muoversi nella dimensione del comico, conduce La Pergola all’assassinio.

Se nella casa di Lisa Martoglio, la mondanità del rituale del ricevimento borghese è come accarezzata dall’intelligenza, e la cultura esposta come giuoco d’artifizio può prodursi nel racconto del sogno filosofico di Maria Carnevale, nella povera casa di Giovanni La Pergola il sogno può avvenire come esposizione di un fatto concreto: il fratello di lui, fanciullo, è stato assassinato, e, nella successione dei sogni, si scoprirà addirittura che l’assassino è proprio il migliore amico di Giovanni.

La produzione dei sogni ha una genesi qualificante nel desiderio che la finzione (risarcitrice) ci ridia la verità delle cose; solo che la congettura di Carrubba che i sogni «siano più veri delle cose che vediamo da svegli», toglie ogni dubbio a La Pergola sulla veridicità dell’accusa formulata nel sogno dal fratello, e lo spinge al delitto, di cui tuttavia scopre subito l’assurdità.

Sogno di un valzer ci appare come un singolare, se si vuole, eterodosso conte philosophique che consente con la qualità intellettuale dell’ironia finissima e sulfurea il paradosso del comico che dal suo seno fa nascere il tragico senza negarsi come tale.

La natura intellettuale del racconto ha tra i suoi punti di forza le pagine di topotesia visionaria di Via delle Calcare.

Via delle Calcare, in quegli ultimi giorni di febbraio, dava l’idea che fosse più popolosa. In realtà, erano arrivati nuovi abitanti, e s’erano aperte talune porticine, […] Erano, per la massima parte, rivendite di verdure, negozietti in cui si vendeva un po’ di tutto. […] Le stanze erano tanto piccole che, la sera, quando i canestri pieni di pere e pomodori, i piatti ricolmi di ulive e formaggi col pepe, i vasetti in cui nuotavano le sardine, i fasci di verdura e i canicci delle castagne dovevano rientrare, i bambini uscivano di casa strillando e minacciando che avrebbero dormito fuori; […] Più delle sardine e dei formaggi, disturbavano il riposo le mele e le pere che, nell’aria chiusa, pareva si gonfiassero e, occupando interamente lo stanzino, schiacciassero i ragazzi. Che paura, le mele! Che paura, le pere e i cocomeri! I ragazzi aprivano stentatamente un occhio e vedevano che la madre, dalla volta scalcinata, presso la quale un palchetto, che faceva da ponte alle verdure e ai formaggi, la sorreggeva supina durante la notte, dondolava la lanterna, illuminando con un raggio rosso ora l’alto ora il basso dello stanzino, finché un grosso topo, colpito da quel raggio, non si fermava ansimando e come trattenuto, e col suo nero spaventoso ricacciava in fuga dentro il sonno i ragazzi. Nelle notti di vento, la porta cigolava, e i soffi, entrando dall’alto e dal basso, facevano ballare gli odori in modo così strambo, quello del salame con quello delle pere, quello del formaggio con quello dei cocomeri, che i bambini si mettevano a scalciare da tutte le parti, rovesciando i piatti e le gerle.

Il surrealismo degli incroci delle geometrie degli oggetti con le figurazioni dell’umanità collocata in luoghi così eccentrici e paradossali consente al bizzarro e frenetico Carrubba di scambiare la sistemazione della merce operata da La Pergola per la composizione di un segno zodiacale, «la figurazione di uno spirito iniziato». La miseria reale del luogo dovrebbe essere risarcita da una fantomatica ricchezza spirituale; invero essa dà luogo a una prostituzione occulta e lercia che coinvolge piccoli borghesi e proletari.

Ma il passo che indica la linea semantica del racconto è quello sul vento che spirava sui tetti di Nissa e sui suoi abitanti; conclusivamente:

[…] E sugli uomini soffia quello stesso vento che fa correre le nuvole; tu non lo senti mai, tranne che nei momenti in cui esso cerca di strapparti, come una foglia, dal ramo dell’onestà, della tranquillità, della famiglia, della vita; e tu capisci che il vento batte solo su di te, e non sul ramo, e che già fai la ruota sul gambo, e fra poco l’albero rimarrà dietro di te, Dio sa fino a quando, e tu solo volerai chissà dove col vento.

Col precipitare degli avvenimenti questo vento è quel movimento interiore per il quale «L’aria intellettuale divenne più alta e fine, a Nissa», identificandosi sempre meglio nel rovello del solipsismo che scuote tutti gli attori della storia.

Parlarono delle idee.

Il tempo s’era messo al brutto, e una pioggia fine fine cominciò a tamburellare sui marmi. Vicino alle cappelle, la pioggia s’illuminava del riflesso delle lampade.

I tre amici si ritirarono sotto un cipresso, senza smettere un solo minuto di discutere. Le idee, le non idee… Il signor Castelli tirò fuori una pipa e l’accese. Il lampo del fiammifero fece trasalire Lorena, che si guardò intorno, continuando, com’è naturale, a parlare delle idee. Sentì anche lui che discutere di filosofia, tra i marmi del cimitero di Nissa, era come duellare in un cimitero di guerrieri. Tutto intorno sembrava confortato da quel suono ininterrotto di parole. Le idee, le non idee!… Il gemito che, sotto la pioggia, mandavano le tombe, era come un grazie dei morti alla vita che ad essi si rivolgeva nel più caro dei modi.

Nelle ultime, cristalline, note della “sonata”, quando Cannata, Lorena e Castelli, dopo aver inumato il corpo dell’amico Carrubba, si ritrovano appunto «tra i marmi del cimitero di Nissa», «discutere di filosofia» per loro è «come duellare in un cimitero di guerrieri»

Allora il vento di Nissa, col sottofondo del lamento sommesso che sale dalle tombe, è divenuto allegoria del rombo di follia solipsistica che travolge i personaggi non appena essi abbandonano i confini della realtà: entrando completamente nel sogno, scivolando nella finzione, essi dimenticano gli invalicabili pur se imperfetti limiti della realtà.

Al crocevia del 1934, la crisi di Brancati è segnalata da una svolta etica, ribadita poi nel racconto sempre di quell’anno Il nonno, dove egli ritiene di avviarsi verso «un’altra età: il tempo per essere onesti, per essere veritieri, e soprattutto semplici». Ed essa, come si sa, è l’inizio di una svolta pure politica. Nei quattro anni successivi, il periodo di stesura di Gli anni perduti e di Sogno di un valzer, lo scrittore compie una rivoluzione stilistica, consolidando l’idea del comico e inventando forme adeguate. In quest’ambito il Sogno è da considerare un esito straordinario e per certi versi irripetibile nel particolare «gioco finissimo di comico e tragico». «La noia nel ’937» nel tempo reale di quell’anno gli permette uno scarto esistenziale testimoniato dalla prova certo letterariamente più riuscita del Sogno; a posteriori, nel racconto eponimo del 1944, quella noia sigla un’opzione ideologica antifascista più marcata e drammatica, che assumerà più liberi sviluppi nei grandi testi successivi.

Se in definitiva è «la bipolarità realtà-sogno», come ha scritto Domenica Perrone, «che anima l’universo narrativo di Brancati»,5 Sogno di un valzer, fin dal titolo sembra puntare sul secondo polo, ma invero l’interferenza dei due piani ne incrina l’unicità, perché l’organizzazione del ballo, momento sostitutivo della vita rutinaria, non la risarcisce di nulla, palesando nello scacco una inadeguatezza maggiore della stessa povera realtà di cui voleva essere alternativa. Non resta agli attori della vicenda che tornare al quotidiano, però trovando nel farnetico ripetitivo di esso una metafisicità, un nulla più rassicurante. Noi sappiamo, invece, che in questo racconto la comicità di Brancati è più che mai luciferina, un “satanico” talento razionalista, o meglio una scommessa dell’intelligenza che fa giustizia pure dell’intellettualismo. E però di una leggerezza eccezionale nella scansione dei tempi narrativi, come i movimenti di una sonata che potrebbe apparire settecentesca, se non fosse per le dissonanze novecentesche, un turbinio di note che però sono ricondotte tutte al motivo centrale.

Natale Tedesco

1. Lettere al Direttore, in Romanzi e saggi, Mondadori, Milano 2003, p. 1304.

2. Ibidem, pp. 1304-1305.

3. I piaceri (parole all’orecchio), in Romanzi e saggi, cit., p. 1361.

4. Lettere al Direttore, in op.cit., p. 1246.

5. D. Perrone, Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i “piaceri” della scrittura, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2003, p. 13 e p. 178.