Capitolo 2 B

  

Seduto su una panchina

  

  

Seduto su una panchina, lontana dalla scena, rivedo me stesso giovane un po’ imbarazzato davanti a una Liza aggressiva. Quella megera sbandierava grandi ideali rivoluzionari e poi, ipocritamente, tradiva nel suo quotidiano ogni idea applicandosi con forza e dedizione a qualunque presupposto di tornaconto emotivo personale, scagliandosi impetuosamente contro chi il tornaconto personale lo applicava, nel rispetto delle regole, in modo manifesto, senza nascondersi dietro alcuna ideologia di comodo.

Fenomeni come l’estremismo sono spesso nati dalla mente di teorici appartenenti alla classe media, cresciuti in un relativo agio e istruiti, con un ego spaventoso e il gusto dell’autocommiserazione.

Malgrado la scarsa considerazione rivoluzionaria di Liza nei miei confronti, in quel periodo della mia vita volevo anch’io cambiare il mondo e prendevo la questione sul serio come solo un adolescente può farlo. Ero uno che se avevo problemi di vista, invece di mettermi gli occhiali, protestavo e pretendevo a gran voce che tutto il mondo cambiasse e si mettesse a fuoco per me e per quello che ritenevo giusto.

A quel tempo, ingenuamente, lottavo per l’emancipazione del proletariato e per la lotta di classe, con slogan banali e insulsi, perdendo la capacità di essere obiettivo: tutto era politica, tutto era ideologia, il tutto era un insieme di pregiudizi personali che nulla avevano a che fare con la realtà.

Ero un giovane indisciplinato e allegramente impegnato a farmi bocciare a scuola, dato che non avevo certo tempo da sprecare per seguire le lezioni. Rabbioso contro il mondo e contro me stesso, passavo le giornate fumando spinelli, bevendo e facendo di tutto per provocare, impressionare e sconvolgere chiunque altro fosse ottuso abbastanza da trovarmi interessante.

Sinceramente, ero solo un ragazzo infelice, viziato, vanitoso, oltre che incosciente e tendenzialmente suicida, a cui avrebbe fatto bene solo qualche bel calcio nel sedere.

Volevo cambiare il mondo ma tra le mani non avevo la bacchetta magica, ma solo l’arroganza e la presunzione tipiche della gioventù, quel periodo sopravvalutato della vita di un uomo, colmo di confusione, di ansie e d’infelicità. Ero posseduto da un senso di giustizia che mi devastava l’anima e sentivo di voler essere diverso dagli sfigati borghesi che vedevo attorno a me. Sentivo di non voler scendere a patti con il mondo, con la sua imperfezione, come se io non ne facessi parte.

Quanta ottusità delle nostre menti emergeva dietro quel patetico prendersi sul serio, in una sorta di allucinazione condivisa, aggrappandosi a mitologie rivoluzionarie e pregiudizi culturali da operetta.

Paradossalmente, quei borghesi conformisti che infinitamente disprezzavamo erano probabilmente di mentalità più aperta e più tolleranti rispetto a noi, che non eravamo altro che una penosa espressione di un’ideologia volgare e rinnegata dalla storia, il cosiddetto comunismo reale, cioè la razionalizzazione della miseria.

Come la maggior parte dei sostenitori di quelle correnti di pensiero, troppo spesso ci rifiutavamo di sapere ciò che non ci faceva comodo sapere. Per noi giovani, specialmente a quei tempi, la mitologia rivoluzionaria era infinitamente più forte e seducente della realtà, perché il pregiudizio ideologico era capace di resistere a ogni confutazione fattuale.

Eravamo ciechi nel nostro fanatismo rissoso, miseri nel nostro settarismo feticista, seppur convinti di agire nel nome dei sentimenti umani supremi e nobili. Sono sempre i cuori sensibili quelli capaci degli eccessi più mostruosi: quanti innocenti sono stati torturati e assassinati in nome di Dio, della pace, dell’eguaglianza e della fratellanza tra gli uomini?

Sta di fatto che volevo cambiare il mondo e alla fine sono invece cambiato io! Alla meravigliosa e tristissima età di ventiquattro anni sono rimasto intrappolato in quello strano accordo, denominato lavoro, secondo il quale accettavo di passare intere giornate a fare cose di una monotonia insopportabile in cambio di un modesto compenso finanziario.

Io che cercavo un impiego, e invece avevo trovato un lavoro…

Dov’ero quel giorno in cui avevo rinunciato alla poesia e alla rivoluzione in cambio del posto di lavoro fisso? Cos’era clamorosamente successo a quell’impetuosa ideologia romantica che mi aveva posseduto durante buona parte della mia giovinezza?

Nell’arco di un tempo neanche tanto lungo, ho accettato incondizionatamente la mia resa allo squallore di un mondo che deridevo e disprezzavo. Non solo. Per un po’ di anni trovavo pure gradevole, oltre che virtuosa, quella vita senza vita, quei giorni che si susseguivano con la speranza che passassero in fretta.

Ogni mattina mi svegliavo e, combattendo contro il traffico e contro il tempo, correvo al mio posto di lavoro. Quello che è assurdo è che non mi venivano a prendere di peso e mi forzavano ad andare frustandomi, ma al lavoro, con la paura perfino di arrivare in ritardo, ci andavo da solo. Ebbene sì, mi avevano clamorosamente addomesticato.

Però sognavo a occhi aperti, procreavo fantasie e illusioni, toccavo con mano di lusinga le meraviglie di una vita stupefacente che non stavo vivendo.

Sognare è molto comodo, a patto di non essere obbligati a fare ciò che abbiamo progettato. Sognando non corriamo rischi, non viviamo frustrazioni, né momenti difficili. Poi, una volta invecchiati, possiamo sempre incolpare gli altri, preferibilmente i genitori, le mogli, o i figli, per non averci fatto realizzare ciò che desideravamo.

Per quanto responsabile e disciplinata possa essere la vita di un essere umano, esiste in ciascuno una fiammella segreta, più o meno soffusa, pronta a trasformarsi in un incendio di libertà ritrovata se si presenta l’occasione. È quel barlume interiore di vita sommersa, quell’istinto inconscio di sogni rinnegati, che di tanto in tanto ci impone di fuggire dalla mediocrità e dalla miseria esteriore, di fuggire dalla noia dei giorni tutti uguali, piccoli e grigi, sia pure tramite una storia sentita raccontare, un film o le pagine di un libro.

… Le note di una chitarra mi riportano al presente, se di presente si può parlare. Un giovane di una certa età, con la barba accuratamente trascurata, cerca con dita sottili di estrarre note legate alle corde dello strumento, che poi si diffondono nell’aria un po’ zanzarosa di questo tramonto d’inizio estate.

«Ciao!» mi fa trasalire una voce infantile alle mie spalle. Mi giro e vedo un bambino dai tratti orientali che mi guarda incuriosito. «Ma tu chi sei? Assomigli tanto a mio nonno. Sei mio nonno o ti sei messo la maschera di mio nonno?» mi domanda.

Coi bambini non sono bravo. Con loro non so mai come rapportarmi, non so adeguarmi al loro linguaggio, alla loro curiosità. E se cerco di fare lo spiritoso mi rendo conto di essere stupido e mi imbarazzo io per loro, così va a finire che sembro finto. Ma i bambini sono persone serie e se ne accorgono se fingi.

«Ciao!» dico io mentendo. «Non sono tuo nonno, bel bimbo. Non ho nipoti, o perlomeno non ancora. E nemmeno mi son messo la maschera. Probabilmente ci assomiglio solo a tuo nonno.» Lui mi guarda un po’ deluso con i suoi occhietti a mandorla. È piuttosto raro vedere asiatici da queste parti.

«Qual è il tuo nome?» gli chiedo per evitare il ben più confidenziale come ti chiami. «Ma come, non ti ricordi il mio nome?» mi risponde lui quasi seccato dalla mia domanda, prima di riprendere a giocare con un bastoncino.

In fondo noi due siamo uguali, bambino. Senza nessuna vera responsabilità e niente di importante da fare se non giocare e far passare il tempo. Solo una cosa ci divide: tu hai ancora una vita davanti e tanti progetti, io pochi anni e parecchi rimpianti.

Guardo oltre e vedo laggiù il me stesso ventenne che, mentre trascina via un Chicco contrariato, alza gli occhi e mi vede: ormai mi ha individuato.

Una settimana fa, appena rientrato dal Vietnam, mi è venuto un colpo quando ho visto me stesso giovane passeggiare nel paesello. Come se si fosse aperto un varco nella barriera del tempo ed io ci fossi cascato dentro, oggi mi ritrovo a osservare me stesso ventenne nella sua vita quotidiana, nella mia vita quotidiana di allora, sessant’anni fa. Quanto è assurdo tutto questo? Che razza di maledizione, o di benedizione, sto vivendo?

Da allora lo seguo, incuriosito dall’assurdità di questa situazione paradossale.

E da un paio di giorni lui, cioè io ventenne, si deve essere reso conto che lo sto osservando. In effetti, ricordo che, quando ero giovane, per un periodo sono stato infastidito da uno strano vecchietto che mi dava l’impressione di seguirmi…

È meglio se mi allontano. Voglio assolutamente evitare il trauma di affrontare me stesso… dal vivo! Sarebbe devastante.

Davanti a me il bambino continua a guardarmi impalato con un’espressione un po’ invadente e, a suo modo, vagamente familiare. Forse è vero che la vita gira in tondo e alla fine torna al punto di partenza: in un vecchio di ottant’anni come me e in un bambino, se non addirittura in un neonato, se guardi con attenzione riesci a scorgere le stesse paure.

Prima di andarmene, gli chiedo: «Tu di dove sei, ragazzino?»

«Io? Io sono vietnamita, nonno»

Assorbo il colpo con un mezzo sorriso e mi allontano sconvolto, senza dire nulla.

Ma quanto è assurdo tutto ciò?