Capitolo 3 B

  

Chicco! Ma come sei bello

  

  

Chicco! Ma come sei bello, Chicco! Com’è possibile, mi riconosci? Ecco perché quel giorno eri così eccitato dalla gioia. Ecco perché avevi tutta quella voglia di correre incontro al vecchietto. Avevi capito, sapevi tutto… ma non potevi farlo capire pure a me, al tuo umano?

Con che occhi pieni di commiserazione e risentimento mi ha guardato il mio me stesso giovane… Del resto ricordo come consideravo gli adulti, e ancor peggio i vecchi, a quei tempi…

Il bello è che a volte, da anziano, mi sono chiesto se mi sarei riconosciuto qualora mi fossi mai imbattuto in me stesso giovane. Avrei trovato qualcosa di cui parlare? Ci saremmo compresi? Mi sarebbero cadute le braccia di fronte alla sua ingenuità e ai suoi sogni? E lui avrebbe disapprovato il mio cinismo? Come avrei potuto rendergli comprensibile il motivo per cui la mia esistenza era diventata fine a se stessa?

Lo avevo tradito, lo so, avevo tradito i suoi ideali in un modo così clamoroso che lui non avrebbe mai potuto immaginare possibile. Ma questa è la vita, e lui non lo può sapere ancora. A essere giovani s’impara da vecchi.

Se qualcuno da giovane mi avesse detto che stavo correndo il rischio di dare un’idea così misera di me stesso all’uomo che alla fine sarei diventato, sarei morto dal ridere. Ma allora non avevo ancora iniziato a perdere gli anni. Quando li guardavo voltandomi indietro li trovavo sempre al loro posto, in bell’ordine, precisi e netti, schierati in fila indiana. Erano tutti lì: prima di compiere diciotto anni ne avevo diciassette, e prima ancora sedici, era facile come imparare a contare sulle dita.

Adesso che ne ho ottanta, cerco di non voltarmi mai indietro, perché non so bene dove siano finiti i miei ultimi vent’anni, non capisco in quale buco ho perso i quaranta, dove sono spariti i cinquanta, o cosa mi è successo quando ne ho compiuti sessanta.

La verità è che non li ricordo questi anni passati, non sono cosciente di averli vissuti. È come se il tempo divorasse se stesso, come se ogni giorno che passa mi rubasse un giorno già trascorso, come se gli anni si annullassero fra loro.

Il tempo gioca con le carte segnate e non posso far nulla per riscattare me stesso da tutti i posti, da tutte le persone, da tutti gli errori, da tutte le gioie: questa è la misura meschina e desolante del destino.

E adesso osservo laggiù me stesso ventenne e, lo confesso, lo trovo patetico. Vent’anni! Un’età disgraziata che andrebbe abolita. L’età delle barbarie a cielo aperto e dell’avere tutta la vita davanti. Che peccato non capire le dinamiche che ci riserva l’esistenza a quell’età. Che spreco capire le cose con decenni di ritardo!

In quegli anni hai un rapporto col tempo alterato, drogato di false aspettative. Il problema è che capisci cosa vuol dire avere la vita davanti solo quando quella si è collocata tutta dietro. E allora ci si riempie l’animo di rimorsi, i ricordi diventano rimpianti e le speranze illusioni. È un abbaglio l’idea che un individuo progredisca nel corso dell’esistenza. In realtà non si fa altro che raccogliere in una bacheca mentale tutta una serie di informazioni inutili, entusiasmi traditi, futili coinvolgimenti, passioni infelici, tormenti.

Tutto questo non smuove le nostre vite, le svaluta solo un altro po’. Le accompagna, con una lieve spinta da dietro, verso il camposanto affollato di cadaveri esperti. Chi ha inventato la vita? Un sadico!

Ho vissuto ottant’anni, ma il mio intimo è ancora imbrigliato in luminescenze di gioventù e si domanda cosa mai è successo a questo mio corpo così malandato e vacillante. Se mi confronto con una foto di quando avevo quindici anni mi chiedo: quando è accaduta questa mutazione? Di notte mentre dormivo? E come mai il mattino al risveglio non me ne sono accorto?

Quando mi guardo allo specchio, non riconosco quel vecchietto dall’aria rassegnata, storto e incanutito, che a sua volta mi fissa. Chi è questo che si prende gioco del vero Paul? Lo osservo da vicino, con la speranza di ritrovare in fondo allo specchio il bambino con le braghette e le ginocchia sbucciate che ero, ma non riesco a vedere nulla. Eppure deve essere lì, appostato da qualche parte, perché non posso credere di essere veramente io quel vecchio grinzoso con capelli bianchi e radi.

… «Ma quanto mi ami?» Sento urlare sottovoce la ragazzina abbracciata a un giovanotto, palesemente di qualche anno più vecchio di lei, su una panchina poco distante.

«Ti amo tanto tanto, mia adorata. Ma proprio tanto tanto tanto, anzi, di più!» Ridono felici e si abbracciano come si possono abbracciare solo due pezzi di Lego. Anche senza volerli ascoltare, le loro voci mi giungono all’orecchio chiaramente.

«Vieni, mia amata, adoriamoci a vicenda prima che non ci sia più nulla di te e di me. Te la ricordi questa frase? L’hai studiata a scuola?» domanda lui con aria trasognata. «Non ricordo chi l’abbia scritta, ma mi è sempre rimasta impressa. Mi è tornata in mente guardando quel vecchio là.»

Ha indicato me di sottecchi, ma io faccio finta di niente. Lei, con quei capelli che sembrano una colata fluida di miele d’acacia, è una di quelle persone che noti e che trovi subito anche in mezzo alla folla. Lui è un tizio sui trent’anni, non molti capelli in testa ma pettinati con molta cura, giacca e cravatta. Io li guardo e, dentro me, invidio la semplicità della loro felicità, o della loro disperazione, quale fosse delle due.

«Ah, quello?» mi guarda furtivamente lei. E la sento dire: «Quello è un moribondo, uhuhuh. Sai una cosa, per essere immortali non si deve credere alla vecchiaia. Se cominci a credere alla vecchiaia finisci per morire. L’ho letto su un libro di meditazione.»

«Sai che mi piacerebbe fare meditazione?» continua lei. «Voglio iniziare un percorso per conoscere me stessa. Chiudere gli occhi e restare immobile, osservare i pensieri che scivolano via come nuvole in cielo. Sai che a volte chiudere gli occhi mi permette di vedere meglio?»

«Bah, secondo me nessuno amerebbe se stesso se si conoscesse veramente» ribatte lui con una vena di scetticismo. «Io sono più terra terra. Mi piacciono le cose tangibili. Mi piace fare soldi, avere quel balsamo per la propria vanità che è una bella macchina, fare la bella vita.»

Lei resta a guardarlo pensierosa. In un certo senso, è evidente che invidia quell’assenza di pensieri erranti, di ossessione introspettiva, di dilemmi sul significato della vita. Non che lei avesse tutta ‘sta spiritualità, però ogni tanto la mente si sentiva appesantita dai dubbi esistenziali. Avrebbe preferito vivere interiormente un mondo binario come quello del suo ragazzo.

«Ti posso fare una domanda insolita? Però giura che non ti arrabbi!» sento chiedere lui con un sorriso confidenziale. «Se io non avessi i soldi, tu verresti comunque con me?»

Lei ha un lieve sussulto e, sorridendo, risponde serenamente con un’altra domanda che mette ordine alle cose: «E se io non fossi bella, tu verresti comunque con me?»

Caspita che risposta! Una risposta che ai miei tempi si sarebbe adattata al mondo sentimentale di noi occidentali in Oriente, dove agli occhi di quelle bellissime ragazze eravamo soprattutto i portatori di quel tipo di afrodisiaco che loro tanto amavano: il denaro.

Noi pagavamo soprattutto l’illusione di essere seducenti. Loro erano di molecolare splendore e, si sa, uno degli effetti della bellezza femminile su di un uomo è proprio quello di togliergli l’avarizia. Le femmine asiatiche (e non solo) erano delle cacciatrici eccezionali, specializzate in particolare nel catturare una preda: il maschio occidentale. E avevano sviluppato una strategia unica per cacciarlo: si mascheravano da preda.

Le donne fanno l’amore con un uomo se lui ha talento, o se ha i soldi, oppure se possono farci affidamento per tutta la vita. Il sesso è solo una specie di ricompensa concessa ai maschi, in cambio di ciò che ricevono da loro. L’uomo, invece, fa l’amore per il gusto di fare l’amore. Rispondono al più primordiale dei bisogni.

«Minchia, ma questo è proprio un paese di vecchi. Te ne rendi conto? Guarda dove siamo, amore. Siamo circondati dai Matusa.» Le parole del ragazzo mi riportano al presente. Sta guardando verso di me e verso le altre panchine occupate, effettivamente, solo da vecchi. «Cazzo, ma sono ovunque. A volte li incontro nel supermercato, sono presuntuosi e permalosi, oltre che puzzolenti.»

«Dai, non dire così» Replica lei. «Sono un po’ rompicoglioni e rancorosi, è vero, ma hanno diritto anche loro di vivere, no? E poi se li osservi sono anche buffi, sono fuori di testa, fanno cose strane. Li hai mai visti mentre scrutano con eccitazione maniacale i lavori in corso sulle strade o ai cantieri?» Mentre parla, lui le strizza la coscia sotto l’inguine e lei ridacchia rabbrividendo vistosamente.

Vedo tutto, oltre che ascoltare tutto. La cosa mi rattrista, ma in fondo li capisco… e forse hanno pure ragione!

I vecchi si ripetono e i giovani non hanno nulla da dire, e questo provoca un fastidio reciproco. Li guardo e provo un misto di malinconia e di felicità compressa per non essere nei loro panni: del resto, la malinconia altro non è che la felicità di essere tristi. La vita è solo una breve parentesi fra un pannolino e un pannolone, non val la pena agitarsi troppo.

Là sull’erba vedo un gatto giocare da solo, mentre inganna la propria solitudine popolandola di nemici o di attrazioni immaginarie. Ogni tanto occhieggia con sufficienza alla pochezza della realtà attorno, conscio del suo ruolo di posteggio cosmico dove le anime indugiano tra una incarnazione e l’altra. Che bello sarebbe fare come i gatti, che vivono tranquilli e beati perché se ne fregano di tutti e di tutto, si interessano solo di trovare la loro posizione perfetta sul suolo. Loro hanno risolto il problema dell’esistenza senza neanche conoscerlo. Un privilegio inaccessibile a noi umani.

Lo vedo fare un balzo improvviso e catturare un uccellino. Spinto da un buonismo inesistente in natura, mi avvicino per strappare di bocca il piccolo volatile al gatto, ma lui lancia un miagolio minaccioso allontanandosi e dileguandosi tra i cespugli con un unico suono liquido.

Seduto su una panchina mi sembra di riconoscere un ragazzo che vedevo quando ero giovane. Ora è un vecchio barbuto dall’aria gentile e le cespugliose sopracciglia bianche, con negli occhi una tristezza simile alla mia ma più dignitosa e credibile. Ha più peli sulle orecchie che capelli in testa. Pare pensieroso, in assorta osservazione del mondo che ha dentro, come se stesse distillando la preziosa goccia di saggezza concentrata che si estrae da una montagna di vita grezza vissuta. È decisamente invecchiato, come tutti noi vecchi, del resto.

Alza lo sguardo e mi fa cenno di avvicinarmi. Faccio i pochi passi che mi separano da lui. «Lei mi sembra di averla già incontrata da qualche parte. Ci conosciamo?» Mi dice piano sollevando come fanno gli anziani l’indice, il dito delegato alla saggezza.

«No, non mi sembra proprio» nego io, volendo evitare il fastidioso torcicollo emotivo dei bei tempi passati. «Ho vissuto tutta la vita fuori dall’Italia. Sono qui per caso.»

«Tutta la vita fuori dall’Italia? Che follia! Il mondo è rotondo: chi parte, perde solo tempo.» Mi dice lui con un cenno soddisfatto della testa. «E ora è tornato? Nostalgia della patria?»

«Not really!» Gli ribatto con un tocco d’inglese da cartolina, tanto per marcare la distanza. «Non sono tornato per nostalgia. Sono tornato perché non ho niente di meglio da fare e perché si scaricano, dopo un certo tempo, tutte le consistenze.»

«…o perché, più semplicemente, si è vecchi, caro il mio giramondo» obietta lui senza peli sulla lingua. «Penso che, in fondo, essere vecchi significa questo. Il non aver niente da fare, il non avere nessun progetto, nessuna consistenza da assecondare.»

Si interrompe fissando intensamente l’orizzonte, prima di continuare: «La vuole sapere una cosa? Non sono nato per essere vecchio io. Non ne ho il talento, c’è poco da fare. Invecchiare, è una malvagità che non meritavo.» Noto che una lacrima gli scende lungo il viso, prima che lui riesca a frantumarla con un gesto di rabbia. «Io non ho mai conosciuto alcun tipo di felicità, solo desiderio e dolore. E non è neanche vero quello che dicono i miei nipoti, io non odio la gente, io non sono egoista! È che sono troppo preso da me per occuparmi degli altri. Egoista è chi cerca il proprio benessere a ogni costo, io il benessere non l’ho mai raggiunto. Anche come egoista ho fallito!»

Lo osservo in uno stato di esilio interiore. Lo so bene, la maggioranza di noi esseri umani viviamo un’esistenza di silenziosa disperazione. Nella vita bisogna saper scendere a compromessi, e la vecchiaia è un compromesso continuo e, spesso, umiliante. Dicono che la sofferenza è una grande innovatrice, ci cambia più di quanto riesca a fare la felicità, che però ha un ufficio stampa migliore. Ma quando sei vecchio non hai più il tempo per innovazioni.

Tra noi cala un lungo e penoso silenzio, un silenzio antico, da licantropi. Restiamo chiusi ciascuno nella fatica della propria esistenza. Lui è seduto tutto curvo sotto il peso dei propri pensieri. Deve essere anche lui un uomo taciturno e schivo. Affida ai pensieri, e non alle parole, la sua persistenza nel mondo. Non mi guarda più. Gli lancio un ultima, compassionevole occhiata e me ne vado senza dire nulla. Mi sembra che sia già stato detto abbastanza…

Goodbye Gianmario. A presto rivederci nell’aldilà.

E ripenso a Giorgio, alle partite a biliardo, alla triste fine che ha fatto, stroncato da un’overdose durante un mattino di disperazione di pochi anni dopo. Poveretto. Alla fine anche lui è venuto a suo tempo al mondo all’improvviso, sbucando da un eterno nulla, senza chiederlo e senza sapere il perché. Ha vissuto come tutti noi un’esistenza brevissima, sempre con la consapevolezza che non poteva durare tanto. Pensiamo che tutto questo abbia un senso, ci accreditiamo perfino la possibilità di continuare a esistere come individui, quando invece la cosa più logica è che si torni da dove siamo venuti.

Chissà dov’è ora? Sarebbe bellissimo andare lassù per riabbracciare chi non c’è più, solo per un attimo, il tempo necessario a risentirlo accanto a noi, non necessariamente nel corpo, ma nello spirito. Sarebbe bellissimo poterlo fare, e poi… Poi niente. Tornare…

Le ombre della sera, arrivate piano in punta di piedi, hanno ormai reso confusi i contorni di ogni cosa. Io mi perdo nella contemplazione della varietà di vite nei caseggiati attorno al parco, tutte confinate in quelle scatole illuminate che chiamiamo appartamenti. E mi chiedo se davvero ciascuno degli esseri umani là dentro abbia scelto di essere lì in quel momento, di fronte a una TV o dietro un tavolo, con vicino le stesse persone di sempre.

Io ricordo bene quando non avevo nessuna voglia di salire nel mio appartamento di Saigon, perché non avevo nessunissima voglia di vedere mia moglie, e cercavo di rimandare il più possibile il ritorno in quella casa, a quella vita che non mi piaceva e che, sinceramente, non mi era mai piaciuta.

Loro in quelle case, invece, saranno veramente felici, o perlomeno contenti, di essere dove sono? Staranno facendo quello che a loro veramente piace oppure, schiavi e vittime dell’amor proprio, non vivono per vivere ma per far credere di aver vissuto?

Bah, a me sembra che la vita consista nell’abituarsi alle cose che detestiamo, più che nell’inseguire quelle che ci piacciono. Siamo troppo impegnati a sopravvivere per pensare di vivere. Alla fine, quelli che mestamente accettano di coesistere ogni giorno accanto allo stesso sconosciuto sono quantomeno anestetizzati, che poi è l’unico modo che conosciamo per non sentire il dolore.