Io e Asia consumammo dieci calendari

 

 

 

 

 

 

 

 

Io e Asia consumammo dieci calendari. Dieci anni di esistenza che ci girarono intorno come un grande oceano temporale. Mi destreggiavo come meglio mi riuscisse e guardavo verso il futuro. Un futuro che per me aveva cambiato significato e dimensione: da ragazzino il tempo che sarebbe venuto, abitava in un continente lontano anni luce; ma ora, in quel momento, esso tutt’al più poteva abitare i prossimi minuti, giorni, mesi, non gli occhi spalancati sulle meraviglie dell’universo che avevo indossato, da ragazzino, anni prima.

Ma sarei stato presente ancora per molto, molto tempo: Asia sarebbe stata il mio messaggio in bottiglia lanciato nel mare di quel futuro. Quello che non avrei visto: avrei scrutato con i suoi occhi; agito con i suoi gesti; mi sarei preoccupato e sorriso con le sue espressioni. Soprattutto, sorriso, perché la vita merita un sorriso.

Un giorno d’autunno, nel cielo di panna sporca, si era bloccata una nuvola; e lasciava cadere gocce azzurrine sulla strada. Eravamo a un semaforo fermo sul rosso. Io e Asia aspettavamo impazienti che scattasse il verde. Anche di fronte a noi, l’unica persona presente, mostrava di avere fretta. Ci incrociammo. L’acqua aumentava di intensità; lei disse:

«Remo… Sono Flavia. Non ci si saluta più?»

Trovammo un bar che ci diede riparo, tre Bicchieri di latte caldo e tre sorrisi; a un ottimo prezzo. Forse, il più conveniente e il più gradito degli ultimi dieci anni.

Flavia ci accompagnò a casa.

E non andò più via:

«Bene, se ricordi ci siamo allontanati perché avevamo un problema di bambini che non c’erano; ora, potremmo stare vicini per la ragione opposta: Asia ha bisogno anche di una mamma per crescere. Se ti va, io ci sarei» disse lei con un po’ di pudore.

Flavia non l’avevo dimenticata. È difficile scordare una luce. La conobbi che navigavo nel buio della banalità. Ora mi stavo perdendo nel baratro della mediocre sopravvivenza.

Avevo di nuovo bisogno del suo sostegno e della sua capacità di dare un minimo di chiarore ai miei passi.

L’ovale del suo viso mi ricordava Arya… O era il contrario? Insomma, Flavia l’avevo conosciuta prima, quindi il discorso era da capovolgere.

Forse.

Lasciai perdere. I sentimenti e gli amori che ci girano intorno non sono razionali. Semplicemente, quando ci si incontra e ci si riconosce, è il momento di fermarsi e abbracciarsi; non è il tempo di risolvere formule algebriche. Dell’amore non sa niente nessuno. Lo si può provare, ma non spiegare.

Per l’undicesimo compleanno di Asia, Flavia le regalò due orecchini scintillanti.

«Remo, quando ho fatto fare i forellini per gli orecchini, dietro le orecchie ho notato che Asia ha due ‘macchie’ – non saprei definirle diversamente – che ricordano vagamente due minuscole branchie tatuate. Lo sapevi?»

«Sì» le risposi.

Era vero. Me le aveva fatte notare la pediatra, anni prima.

«Ma, secondo te, cosa possono significare?»

«Ah, semplice: che diventerà una grande nuotatrice come la Cagnotto!» le risposi un po’ vago.

Prima o poi le avrei raccontato della straordinaria avventura che avevo vissuto. Era una ragazza che meritava la verità su Asia.

Le avrei detto che i miti sono fatti di niente.

Se li leggi in un libro.

Non se tua figlia proviene da essi.

Il tempo passò e nessuno parlò più di spedizioni alla ricerca di sirene. Io avevo conosciuto la ragazza degli oceani. Sapevo che poteva esserci, in qualche parte del globo, ancora la possibilità che esistesse un villaggio appartenente a quel formidabile mondo.

O forse no.

Probabilmente, Asia è l’ultima piccola sirena sul pianeta Terra.

L’ultima che conservi un segnale di appartenenza agli dei del mare: quei due piccoli tatuaggi dietro i lobi delle orecchie. Quando vede l’oceano si illumina. I suoi occhi di marea luccicano; la vedo seguire le traiettorie degli uccelli marini che tracciano rotte magiche verso posti lontani. A volte la brezza le parla di sua madre, e di quel mondo che le scorre nelle vene. Lei spinge lo sguardo nell’acqua e ammira il fondo dell’oceano; gioca in quel presepe subacqueo eterno, dove i naufragi millenari testimoniano le rotte audaci di capitani coraggiosi. Lei mi racconta di quei paesaggi straordinari ai quali io non ho accesso, e del loro contenuto: sogni non realizzati; navi e barche che volevano arrivare da qualche parte; galeoni secolari; dei di metallo scolpiti da artisti sconosciuti e strumenti squillanti che tacciono nell’immenso silenzio di quell’abisso.

Ma racconta anche di catene che si spezzano e liberano verso la superficie la grinta indomita di chi non si arrende.

I fondali del mare e quelli dell’anima, alfine sono simili; raccolgono tutto ciò che cola a picco. Ci vuole molta fede per rimanere a galla e non farsi trascinare sul fondo o, ancora, farsi liberare verso l’alto quando si è con le spalle sulla sabbia profonda.

E coraggio.

E fantasia, perché senza di essa l’esistenza è un po’ più opaca.