Il riso nelle regole monastiche dell’alto Medioevo

Le rire dans les règles monastiques du haut Moyen Âge. Culture, éducation et société è apparso per la prima volta in Mélanges Pierre Riché. Haut Moyen Âge. Culture, éducation et société, Nanterre 1990, pp. 93-103.

In un excursus di Letteratura europea e Medio Evo latino (Il serio e il faceto nella letteratura medievale, § 2, La Chiesa e il riso), Ernst Robert Curtius segnalava la coesistenza nel cristianesimo medievale di due attitudini nei confronti del riso. Una tradizione derivata da un vangelo apocrifo, l’Epistola a Lentulo, introdotta nel cristianesimo dai Padri della Chiesa, e dal monachesimo greco, san Giovanni Crisostomo e san Basilio, trasmessa al cristianesimo latino da Rufino (e non, come ha affermato nel IX secolo Benedetto di Aniane, da Salviano di Marsiglia) e raccolta alla fine del XII secolo da Pietro il Cantore nel suo Verbum abbreviatum, poi dalla scolastica parigina, rileva che, secondo il Nuovo Testamento, Gesù, durante la sua vita terrena, non ha riso neanche una volta. Il riso viene dunque escluso dal modello di uomo perfetto che Gesù ha fornito con la sua incarnazione.

Una seconda tradizione viene da Aristotele, della cui opera il cristianesimo ha sempre più o meno accolto la parte considerata scientifica. Aristotele affermava che, a differenza degli animali, che non ridono, il riso è proprio dell’uomo. L’idea è stata ripresa da Quintiliano, poi da Porfirio, tradotta in latino da Vittorino, introdotta nella cultura cristiana da Marziano Capella, da Boezio nel suo Commentario su Porfirio, ripresa da Alcuino all’epoca della rinascenza carolingia e da Notkero di San Gallo a cavallo tra il X e l’XI secolo. Questa tradizione ha introdotto nel pensiero medievale una definizione dell’uomo come homo risibilis, uomo capace di ridere, uomo la cui caratteristica è il riso. Al di fuori di queste considerazioni generali – e contraddittorie – sui rapporti tra l’uomo e il riso, il cristianesimo ha ben presto tentato di definire il ruolo del riso nell’etica cristiana, nella città cristiana, così come nella condotta di vita dell’uomo nuovo, il cristiano.

Il primo grande testo normativo cristiano sul riso è il quinto capitolo del secondo libro del Pedagogo di Clemente Alessandrino (morto nel 215 ca.). Clemente caccia i fautori del riso dalla repubblica con una attitudine platonica che d’altronde prolunga il rifiuto del riso da parte della filosofia greca perché conduce alle azioni basse.

Questa compromissione del riso con il basso è una delle eredità di una tradizione filosofica anteriore al cristianesimo, ancor più portato delle filosofie antiche a privilegiare l’alto rispetto al basso. Più in generale, Clemente condanna il riso come cosa da buffoni, personaggi che la città cristiana deve espellere assieme a tutti i personaggi odiosi e scandalosi del teatro pagano: attori, mimi. Il cristiano dunque deve evitare con particolare attenzione di fare il buffone ridendo. Il ridere e il gesticolare sono condannati senza appello assieme a tutto ciò che è connesso al teatro. Il riso è la lordura del «più prezioso dei beni che ci sia nell’uomo»: la parola che si disonora nel riso1.

Dunque Clemente propone – pur ricordando la formula aristotelica del riso quale caratteristica dell’uomo – una severa regolamentazione del riso, al quale bisogna «porre freno», che bisogna rendere funzionale all’equilibrio dell’anima, non alla sua sregolatezza, che deve essere sottomesso alla ragione che ancor più è caratteristica dell’uomo. Il riso lecito è il sorriso (meidíama), «riso dei saggi». La donna deve evitare di ridere come una prostituta, l’uomo come un prosseneta. Clemente traccia tutta una casistica del riso che deve far fronte a cose vergognose o affliggenti, far posto alla vergogna e alla tristezza, che non deve essere continuo, che bisogna frenare in presenza di persone rispettabili o non familiari, in alcuni luoghi e in alcune circostanze e che è particolarmente sconveniente negli adolescenti e nelle donne. Sullo sfondo, il riso legato al libertinaggio, all’oscenità, all’ubriachezza. Il riso fa fuggire la ragione e risvegliare «le passioni mostruose». Il riso, associato dai cristiani agli eccessi di parola e di vino nei festini, porta l’antropologia cristiana a legare i «modi di ridere» ai «modi di comportarsi a tavola».

Clemente apparteneva al versante greco della cultura cristiana, ma i Greci hanno spesso formato i pensieri e i costumi cristiani dei Latini, anche se i loro scritti non sono stati tradotti in latino. In particolare, essi hanno modellato il monachesimo che dall’Oriente è passato in Occidente con i suoi ideali, la sua mentalità e le sue pratiche.

La repressione del riso è stata una delle principali preoccupazioni dei legislatori monastici. Il più celebre e il più influente di tali legislatori è san Basilio, le cui Grandi e Piccole regole (composte nel 357-58) sono state tradotte in latino a partire dal 397 da Rufino di Aquileia2. Nelle Grandi regole (capitoli 16-17), il riso appare come un aspetto dei piaceri carnali, conseguenza del peccato, che sono di grave ostacolo all’ascesi e alla salvezza; tuttavia Basilio, influenzato dall’idea greca di enkráteia, (temperanza, moderazione), raccomanda soprattutto un uso moderato del riso, ma non lo vieta. Nelle Piccole regole al contrario è molto più severo: «Non è assolutamente permesso ridere?». Risposta: «Il Signore ha condannato coloro che ridono in questa vita. È dunque evidente che non esiste circostanza in cui il cristiano possa ridere»3. In effetti, sembra proprio che sia questa opinione raccogliticcia e senza sfumature che il monachesimo occidentale ha recepito. Essa viene ripresa da Benedetto di Aniane all’inizio del IX secolo nel suo Codex Regularum, raccolta di regole antiche che da sola rimpiazzerà la regola di san Benedetto4.

San Basilio (assieme a san Giovanni Crisostomo) è colui che ha introdotto un topos che avrà grande successo anche in Occidente durante il Medioevo e sarà un valido argomento contro il riso: Gesù, modello che il cristiano deve imitare, non ha riso una sola volta durante la sua vita terrena, come attestano i Vangeli5.

Con Clemente Alessandrino e san Basilio notiamo come le sfumature delle attitudini dei filosofi greci pagani nei confronti del riso e la loro tolleranza nei confronti del riso si indeboliscano fino quasi a sparire. Talvolta si tratta di una vera e propria inversione di valori. È il caso della nozione di eutrapelía. Aristotele ha definito l’uomo eutrapelico anèr eutrápelos, nell’Etica Nicomachea (IV, 14, 1128 a), come colui che fa uso del riso, dello «scherzo gioioso», trovando il «mezzo tra il troppo e il troppo poco», a metà strada tra il buffone licenzioso e il balordo ombroso. L’eutrapelía per i Greci è la virtù dell’uomo che sa essere a un tempo serio e gioioso, dell’anèr spoudoghéloios. Poi, già presso i Greci e i Romani, l’eutrapelía, attraverso successivi scivolamenti, diventa peggiorativa e presso i cristiani l’inversione è completa. L’eutrapelía diventa sinonimo di scurrilitas, buffoneria maleducata, di stultiloquium, parola insensata. San Paolo, nella Lettera agli Efesini, 5, 4, cita l’eutrapelía tra i vizi da cui il cristiano deve guardarsi. Nel Pedagogo Clemente Alessandrino definisce con eutrapelía gli scherzi grossolani che avvengono durante i pasti: ecco l’alleanza malefica della tavola, del riso e dell’oscenità. E san Girolamo, commentando Efesini 5, 4, attribuisce a eutrapelía un altro nome che avrà grande fortuna nel Medioevo, jocularitas, per designare il linguaggio vile utilizzato da qualcuno «ut risum moveat audientibus»6.

Nel riso il cristianesimo condanna e congeda il mimo, il buffone, l’attore comico, il teatro, il gesticolatore e il commediante. Il nuovo eroe della società cristiana è un uomo che non ride, il monaco, che il Medioevo definirà come «colui che piange» – «is qui luget»7. Giovanni Cassiano, nelle sue Istituzioni cenobitiche, caratterizza il nono e il decimo segno dell’umiltà monastica attraverso la rappresentazione della lingua, della voce e del riso8. La Regola dei quattro Padri, composta probabilmente a Lérins verso il 400-10, dispone (5, 4): «Se qualcuno viene scoperto a ridere o a proferire scherzi9 – così come l’Apostolo dice ‘cosa che non conviene al sottomesso’ (Efesini 5, 4) –, ordiniamo che, per due settimane, tale uomo, in nome del Signore, sia represso in ogni modo con la frusta dell’umiltà»10. La regola orientale elaborata nel monastero del Jura di Condate, probabilmente tra il 480 e il 510, essendo abbate sant’Oyend, prescrive al monaco: «Che non si lasci dissipare dal riso degli stupidi o dallo scherzo» (cap. 17).

Accostando il riso al gioco secondo la tradizione biblica (cap. 11), mettendo in guardia contro la propensione delle donne e dei bambini, esseri deboli e inferiori, a ridere, la regola orientale prescrive: «Se uno dei frati viene sorpreso a ridere e a giocare volentieri con dei bambini […] verrà avvisato tre volte; se non cessa, sarà corretto con la punizione più severa» (cap. 36). La regola di san Ferréol d’Uzès (553-81), che si ricollega al monachesimo arlesiano, è più sfumata: «Il monaco deve ridere solo raramente» (cap. 24). Lo stesso vale per la regola di Paolo e Stefano, che è una rielaborazione della regola di Agostino, Basilio e Pacomio influenzata da san Benedetto: «bisogna astenersi dallo scherzo e dal riso immoderato» (cap. 37). La regola di san Colombano (morto nel 615) unisce il rigore delle punizioni corporali care agli insulari a una eventuale indulgenza: «Colui che avrà riso di nascosto durante l’assemblea, cioè durante l’uffizio, sarà punito con sei colpi. Se scoppia a ridere, digiunerà, a meno che non l’abbia fatto in un modo perdonabile»11.

Ma chiaramente, i testi più importanti sono la Regola del Maestro e la regola di san Benedetto. L’importanza della Regola del Maestro non deriva solo dalla sua influenza sulla regola di san Benedetto, ma anche dal modo in cui la condanna del riso vi si inserisce in una vera e propria etica antropologica cristiana. La domanda dei discepoli che porta il Maestro a proibire il riso riguarda la grande pratica spirituale del monachesimo, l’osservanza del silenzio o taciturnitas: «De taciturnitate qualis et quanta debeat esse?». Il Maestro risponde ricollocando la disciplina del silenzio in una antropologia cristiana che parte dalla considerazione del corpo. In effetti, l’interesse delle attitudini teoriche e pratiche nei confronti del riso mi sembra risiedere per lo storico in gran parte nel carattere misto del riso, fenomeno culturale che si esprime attraverso il corpo e il cui studio chiarisce anche la storia delle attitudini nei confronti del corpo12.

Il punto di partenza del Maestro è questa affermazione: «Lo strumento del genere umano è il nostro povero piccolo corpo». Il corpo è la dimora dell’anima, sua sede è il cuore. Il cuore è la radice da cui partono due rami superiori che ci mettono in rapporto con l’esterno grazie alle finestre degli occhi e alla porta della bocca. Ma questi fori possono anche essere accessi del peccato. Gli occhi possono lasciar penetrare le brame, la bocca lasciar uscire discorsi perversi. La bocca è una porta dotata di chiavistelli, i denti. L’uomo, e più particolarmente il monaco, deve chiudere i chiavistelli per realizzare la taciturnitas, il silenzio, rifiuto del peccato. E se deve aprire la porta della sua bocca, rompere «questo steccato così alto del silenzio», lo deve fare solo nelle ore permesse o con il permesso dell’abbate e solo per emettere parole oneste. Il monaco deve attentamente fermare e reprimere tutto ciò che potrebbe lasciar passare la porta della bocca, la barriera dei denti (come diceva Omero).

Questa lunga descrizione della struttura corporea della comunicazione umana e del funzionamento del controllo della bocca si conclude con una condanna perpetua, senza appello, delle parole che fanno ridere e del riso stesso, che scoppia come una oscenità minacciosa alla fine del lungo sviluppo del Maestro: «Quanto alle buffonerie, alle parole oziose e che portano al riso, le condanniamo a reclusione perpetua e non permettiamo al discepolo di aprire la bocca per tali propositi»13. Punto estremo della condanna monastica del riso, ecco il riso in prigione, condannato all’ergastolo nel carcere del nostro povero piccolo corpo (corpusculum).

Seguendo una delle sue principali caratteristiche, san Benedetto, grande moderato, è più sfumato del Maestro14. Nella regola evoca il riso quattro volte. Nel capitolo IV, Gli strumenti delle buone opere, proibisce ben due volte il riso: dapprima lo associa a propositi cattivi o depravati e alle chiacchiere immoderate, stabilendo che bisogna astenersi da parole che possano provocare il riso15; poi condanna il riso troppo frequente o eccessivo e raccomanda la preghiera quotidiana mescolata a pianti e gemiti16. Nel capitolo VI, sulla taciturnitas, riprende la condanna perpetua del riso negli stessi termini del Maestro17. Infine, nel capitolo VII, sull’umiltà, san Benedetto definisce il decimo grado di umiltà del monaco con il rifiuto di lasciarsi andare facilmente al riso18 e l’undicesimo con una parola dolce, umile, seria, rara, ragionevole, senza clamore e senza riso19.

Si noterà che fin dall’inizio nei Padri greci del monachesimo il divieto di ridere era legato all’umiltà. Il Maestro l’aveva fatta scivolare al capitolo sulla taciturnitas, situandola, anche se il silenzio era una ascesi spirituale, in un contesto più rituale, più formale. San Benedetto la restituisce ad una ascesi più interiore e più profonda, quella dell’umiltà.

Come ogni prescrizione religiosa e morale, la repressione monastica del riso era fondata sulle Scritture. Accanto all’esempio di Gesù, che secondo i Vangeli non aveva mai riso, un intero dossier di citazioni bibliche nutriva la condanna monastica del riso. Nelle Grandi regole di san Basilio, testo quasi fondativo, il dossier scritturale del riso comprendeva le seguenti citazioni:

Genesi, 21, 6: Dixit Sara: Risum fecit mihi Deus;

quicumque audierit, corridebit mihi.

Giobbe, 8, 21: Deus non projicit simplicem

nec porriget manum malignis

donec impleatur risu os tuum

et labia tua jubilo.

Proverbi, 15, 13: Cor gaudens exhilarat faciem;

in moerore animi dejicitur spiritus.

Ecclesiaste, 2, 2: Risum reputavi errorem

et gaudio dixi: quid frustra deciperis?

Ecclesiaste, 7, 6: Quia sicut sonitus spinarum ardentium sub olla

sic risus stulti

sed et hoc vanitas.

Luca 6, 21: Beati qui nunc fletis, quia ridebitis.

Luca 6, 25: Vae vobis qui ridetis nunc, quia lugebitis et flebitis.

Dossier equilibrato, giacché se l’Ecclesiaste discredita il riso, nel Genesi Sara riconosce la saggezza di Dio che le ha dato il figlio tardivo, che ha ricevuto il nome di Isacco, cioè Riso, a causa del riso con cui ella aveva accolto la predizione del Signore e Giobbe evoca il momento in cui Dio riempie la bocca di riso giusto e fa affiorare sulle sua labbra la gioia. I Proverbi mettono sulla bilancia il cuore gioioso che rende il viso ridente e la tristezza dell’anima che abbatte lo spirito, e i due versetti di Luca rispondono che bisogna considerare felici coloro che quaggiù piangono poiché rideranno nell’aldilà.

San Benedetto fonda la sua condanna del riso solo su tre citazioni scritturali, di cui solo una parla esplicitamente del riso: «in multiloquio non effugitur peccatum» (Proverbi, 10, 19); «vir linguosus non dirigitur super terram» (Salmi, 139, 12); «stultus in risu exaltat vocem suam» (Ecclesiaste, 21, 20). Tutte e tre sono critiche nei confronti del riso. Nel VII secolo il Liber scintillarum di Difensore di Ligugé riunisce al capitolo 55, De risu et fletu, il dossier indubbiamente più fornito del monachesimo alto-medievale sul riso. A dodici citazioni scritturali aggiunge due citazioni di Agostino, tre di Girolamo, due di Gregorio Magno, due di Isidoro di Siviglia, una, nettamente più lunga delle altre, di Basilio20. Difensore, come san Basilio, mescola le citazioni che esaltano la gioia e, perlopiù implicitamente, il riso, a quelle che lo condannano, molto spesso esplicitamente21.

Non è qui il luogo in cui presentare un saggio statistico completo delle citazioni scritturali che riguardano il riso nella regolamentazione e negli scritti monastici dell’alto Medioevo. Accontentiamoci di segnalare che una ricerca in corso mostra una netta maggioranza di citazioni ostili al riso. Secondo una tecnica abituale e rivelatrice dell’evoluzione delle mentalità e delle sensibilità del Medioevo, in cui ciascuno sceglie nella Bibbia più o meno ciò che serve alle proprie opinioni, gli incitamenti alla gioia e al riso sono spesso passati sotto silenzio.

Le citazioni più frequenti sembrano essere quelle critiche presenti in san Basilio: la condanna del riso come errore e della gioia come inganno (Ecclesiaste, 2, 2), il rumore del riso vano dell’insensato paragonato al crepitio delle spine affocate sotto la marmitta (Ecclesiaste, 7, 6), la maledizione di Luca verso coloro che ridono perché piangeranno (Luca 6, 25) e la benedizione di coloro che piangono in una citazione sovente troncata di Luca 6, 21, di cui si cita «beati qui nunc fletis», dimenticando «quia ridebitis». Lo stesso gioco di citazioni troncate fa spesso apparire a quest’epoca la prima parte di Ecclesiaste, 3, 4, «vi è un tempo per piangere», senza completarla con la seconda, «e un tempo per ridere».

A queste citazioni bisogna aggiungerne altre molto diffuse che si trovano nella regola di san Benedetto («Stultus in risu exaltat vocem suam», completata dal seguito della citazione da Ecclesiaste, 21, 20: «vir autem sapiens vix tacite ridebit») e in Difensore di Ligugé; il passo della lettera di Giacomo 4, 9: «miseri estote et lugete et plorate, risus vester in luctum convertetur et gaudium in maerorem»; questo versetto di Proverbi, 14, 13: «risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat» e quest’altro (Proverbi, 10, 23): «Quasi per risum stultus operatur scelus».

Se dunque si cerca di valutare le citazioni bibliche che riguardano il riso nel monachesimo dei secolo V-VII, si percepisce una netta tendenza all’accentuazione della negatività del riso, cui viene opposto il valore salutifero del pianto. Tale tendenza appare ancora più forte se si paragona il dossier utilizzato dai monaci dell’alto Medioevo a quello che si può costituire a partire da un’analisi esaustiva dei passaggi biblici che trattano del riso22. Indubbiamente la regolamentazione monastica introduce a volte attenuanti nella condanna del riso: è il riso accompagnato da sghignazzi e sussulti (subsannatio, risus cum cachinnis), il riso eccessivo, il riso intempestivo che rompe il silenzio, il riso grossolano, a essere condannato senza appello; ma la tendenza alla proibizione del riso è netta. È notevole inoltre il fatto che non si trova in queste definizioni una distinzione che invece appare fondamentale nella Bibbia: la distinzione tra riso lecito, semplice espressione di benessere e di gioia ovvero prefigurazione della felicità paradisiaca, e riso negativo, che prende in giro, denigratorio, espresso soprattutto nella Vulgata con i composti irridere o deridere, riso contrario alla carità, derisione. Due parole, due concetti avevano in origine distinto, nella versione ebraica dell’Antico Testamento, questi due tipi di riso: sâkhaq e lâag.

La scolastica del XIII secolo riprenderà, dandogli un nuovo contenuto – riso semplicemente naturale o annunciatore della visione beatifica e riso di derisione, intenzionalmente cattivo –, la distinzione originaria tra due tipi di riso, uno buono e uno cattivo. La scolastica ritroverà anche i legami positivi tra il riso e il gioco – homo ridens, homo ludens – che l’alto Medioevo aveva sottoposto alla medesima condanna.

Resta ancora da porsi una domanda che qui può solo essere evocata. Questa condanna teorica del riso, incontrata essenzialmente nei testi normativi, corrispondeva alla realtà concreta? Lo storico non si può accontentare di studiare gli ideali, di reperire i valori, senza chiedersi come hanno funzionato nella realtà sociale. Per limitarci all’ambiente monastico, i monaci dell’alto Medioevo non ridevano? O se ridevano, se ne pentivano? Una prima risposta si trova in alcuni testi ancora decisamente normativi, le vite di santi monaci. Due esempi: san Martino e uno dei Padri del Giura, sant’Oyend.

La testimonianza di Sulpicio Severo su san Martino è duplice. Il suo esempio è quello di un essere appena umano, che non esprime mai le emozioni proprie della natura umana: mai arrabbiato e mai commosso, mai triste, mai colto dal riso23. Ma il suo è anche un comportamento improntato a umiltà e penitenza, che ne fa, per acquistare meriti, un oggetto di derisione, un martire del riso. Bisogna ridere di lui quando dà la metà del suo mantello al povero. La sua aria ridicola, i suoi vestiti sporchi, i suoi capelli in disordine sono additati dai suoi nemici che vogliono impedire la sua elezione all’episcopato24. Sant’Oyend offre lo stesso topos agiografico di impassibilità di san Martino. «Illuminato dall’ospite che dimorava in lui [il Cristo], egli portava sul suo viso una grande allegrezza: come non lo si vide mai triste, così non si vide mai nemmeno che ridesse»25. La sua rinuncia alle false forme di gioia come il riso era ricompensata dall’intensa felicità dell’estasi.

Una testimonianza più vicina alla realtà ci è offerta, infine, da un’immagine dei monaci dell’alto Medioevo diversa da quella di uomini imperturbabilmente seri, se non di eterni piangenti. La troviamo in numerosi manoscritti che ci sono pervenuti sotto il nome di joca monachorum26. Questi «giochi di monaci», queste «belle storie» sono liste di indovinelli, domanda e risposta, che si ponevano al di fuori delle ore di silenzio obbligatorio i nostri monaci, che il rigore delle regole non aveva privato di ogni divertimento. Questi indovinelli hanno soprattutto un fine didattico, sono una specie di catechismo gradevole, un esercizio di memorizzazione con il gioco che riguarda soprattutto la Bibbia, catalogo di fatti incredibili e meravigliosi, tuttavia non sono soltanto testimonianza di tecniche intellettuali tradizionali – il vecchio gioco dell’enigma, meno pericoloso che ai tempi della Sfinge o di Sansone (Giudici, 14). Infatti attestano che anche questi atleti di Dio non erano completamente sfuggiti a un’altra concezione del ridere che il cristianesimo aveva ereditato da Aristotele, cioè che il ridere è proprio dell’uomo. Il monaco, homo lugens, uomo di pianti, lasciava a volte apparire il suo volto ilare di homo risibilis, uomo capace, a differenza dagli animali, di ridere.

Note

1 Clemente Alessandrino, Le Pédagogue, 2, 5, Du rire, a cura di C. Mondésert, H.I. Marrou, Paris 1965, pp. 98-103.

2 San Basilio, Les Règles monastiques, a cura di L. Lèbe, Maredsous 1969. Testo greco delle Grandi regole e traduzione latina di Rufino in Patrologia Graeca, vol. XXXI, coll. 962-66 («Interrogatio XVII: Quod oportet etiam risum continere»). Cfr. V.D. Amand, L’Ascèse monastique de saint Basile. Essai historique, Maredsous 1948, p. 199; B. Steidle, Das Lachen im alten Mönchtum, in BM 20, 1938, p. 274; P.M. Alexander, La prohibición de la risa en la Regula Benedicti, in «Regulae Benedicti Studia. Annuarium Internationale», 5, 1977, pp. 240-42.

3 Alexander, La prohibición de la risa cit., p. 241.

4 Benedetto d’Aniane, Codex Regularum, XI, in Patrologia Latina, vol. CIII, col. 515 («S. Basilii episcopi Caesariensis, Interrogatio LIII: Si ex toto ridere non licet. Responsio: Cum Dominus eos qui nunc rident condemnet, manifestum est quia numquam tempus est risus fideli animae»).

5 «Il Signore, come ci insegna il Vangelo, si è fatto carico di tutte le passioni corporali inseparabili dalla natura umana, come la fatica. Si è anche rivestito dei sentimenti che testimoniano la virtù di una persona, per esempio ha manifestato una passione per gli afflitti. Tuttavia, come attestano i racconti evangelici [Basilio fa allusione a Luca 6, 25: ‘Vae vobis qui ridetis nunc, quia lugebitis et flebitis’], non ha mai ceduto al riso. Al contrario, ha definito infelici coloro che si lasciano dominare dal riso» (Grandi regole, 17). Sul tema «Gesù non ha riso una sola volta nella vita», cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. a cura di R. Antonelli, Firenze 1992, pp. 468 sgg. (La Chiesa e il riso).

6 Patrologia Latina, vol. XXVI, col. 520 a. H. Rahner, Eutrapelie, eine vergessene Tugend, in «Geist und Leben», 27, 1954, pp. 346-53 e Dictionnaire de Spiritualité, vol. IV/2, Paris 1961, coll. 1726-29. La sua dignità antica, ma cristianizzata, verrà resa all’eutrapelía nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino nel suo commento all’Etica Nicomachea di Aristotele (IV, 6), spiegando la parola greca: «la qualità di volgersi al bene», di essere un onest’uomo: «modeste autem ludentes eutrapeli appellantur, puta, bene vertentes» e ancora «qui concinne et lepide iocis utuntur, eutrapeli, id est faceti et urbani nominantur, quasi eutropoi, id est flexibili ac versatili ingenio praediti». Giovialità e urbanità, che riabilitazione del riso onesto!

7 V.I.M. Resnick, «Risus monasticus». Laughter and Medieval Monastic Culture, in «Revue Bénédictine», 92, 1987, pp. 90-100; G. Schmitz, «…quod rident homines, plorandum est». Der «Unwert» des Lachens in monastisch geprägten Vorstellungen des Spätantike und des frühen Mittelalters, in Stadtverfassung, Verfassungsstadt, Presspolitik. Festschrift E. Maujoks, Sigmaringen 1980, pp. 3-15 e Steidle, Das Lachen cit.

8 Giovanni Cassiano, Institutions cénobitiques, a cura di J.-C. Guy, in «Sources chrétiennes», 109, 1965, IV, 39, 2, p. 180: «Humilitas vero his indiciis conprobatur: […] nono si linguam cohibeat vel non sit clamosus in voce, decimo si non sit facilis ac promptus in risu». Sui peccati di lingua e la loro repressione nel Medioevo cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma 1987.

9 Regola dei quattro Padri: «in risu vel in scurrilitate», in Patrologia Latina, vol. CIII, col. 440.

10 Per le regole dei quattro Padri, orientali, di san Ferréol e di Paolo e Stefano cfr. Règles monastiques d’Occident (IVe-VIe siècle) d’Augustin à Ferréol, a cura di V. Desprez, prefazione di A. de Vogüé, «Vie monastique», 9, Maine-et-Loire 1980.

11 Regola di san Colombano, in Patrologia Latina, vol. LXXX, col. 217: «Et qui subridens in synaxi, id est in cursu, sex percussionibus; si in sonum risus eruperit, suppositione, nisi veniabiliter contigerit».

12 Regola del Maestro, a cura di A. de Vogüé, 3 voll., «Sources chrétiennes», 105-107, Paris 1964-65.

13 Ivi, De taciturnitate, cap. 8 e 9, vol. I, pp. 398-417. «Scurrilitas vero vel verba otiosa et risum moventia aeterna clusura damnamus et ad talia eloquia discipulum non aperire os permittimus» (pp. 416-17).

14 La Règle de Saint Benoît, a cura di A. de Vogüé, J. Neufville, 6 voll., «Sources chrétiennes», 181-86, con un volume fuori serie di Commentaire doctrinal et spirituel, Paris 1971-72. Il commento di Alexander, La prohibición de la risa cit., è eccellente.

15 «Os suum a malo vel pravo eloquio custodire / Multum loqui non amare / Verba vana aut risui apta non loqui» (VI, 61-64).

16 «Risum multum aut excussum non amare / Mala sua cum lacrimis vel gemitu cotidie in oratione Dei confiteri» (IV, 67-68).

17 «Scurrilitates vero vel verba otiosa et risum moventia aeterna clusura in omnibus locis damnamus, et ad talia eloquia discipulum aperire os non permittimus» (VI, 20-23).

18 «Decimus humilitatis gradus est, si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: ‘stultus in risu exaltat vocem suam’» (VII).

19 «Undecimus humilitatis gradus est, si cum loquitur monachus leniter et sine risu, humiliter cum gravitate vel pauca verba et rationabilia loquatur, et non sit clamosus in voce» (VII).

20 Difensore di Ligugé, Liber scintillarum, II, 55, De risu et fletu, a cura di H. Rochais, «Sources chrétiennes», 86, Paris 1962.

21 Le citazioni scritturali sono: Matteo 5, 5; Luca 6, 25; II Corinti, 13, 11; Giacomo 4, 9; Proverbi, 15, 30; 15, 13; 17, 22; 14, 13; 10, 23; 14, 6; 19, 29; Ecclesiaste, 21, 23.

22 V.G. Webster, Laughter in the Bible, Saint Louis 1960; C.W. Reines, Laughter in Biblical and Rabbinic Literature, in «Judaism», 21, 1972, pp. 176-83; Resnick, Risus monasticus cit., III, Laughter and the God Incarnate, pp. 96-97; Dictionnaire encyclopédique de la Bible, Paris 1960, s.v. Rire, pp. 572-73; X. Léon-Dufour (a cura di), Vocabulaire de théologie biblique, s.v. Rire, di P. Beauchamps, Paris 1970, coll. 1131-32; Id., Rire, in Dictionnaire du Nouveau Testament, Paris 1975, p. 470. Dossier personale a partire dalle Concordanze del Nuovo Testamento.

23 «Nemo unquam illum vidit iratum, nemo commotum, nemo maerentem, nemo ridentem; unus idemque fuit semper: caeleste quodammodo laetitiam vultu praeferens, extra naturam hominis videbatur. Numquam in illius ore nisi Christus» (Sulpicio Severo, Vie de saint Martin, a cura di J. Fontaine, Paris 1967-69, 27, 1, vol. I, pp. 314-15).

24 Ivi, 3, 2 e 9, 3-4.

25 Vie de saint Oyend, in F. Martine (a cura di), Vies des Pères du Jura, «Sources chrétiennes», 142, Paris 1968. «Habebat autem, nimirum habitatore illustrante, magnam et in vultu laetitiam; nam sicut illum tristem nemo unquam vidit, ita ridentem nullus adspexit» (cap. 168, p. 418).

26 Sui joca monachorum cfr. F. Brunhölzl, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München 1975, vol. I, pp. 147 sgg. e 527 sgg.; P. Lehmann, Die Parodie im Mittelalter, Stuttgart 19632, pp. 10 sg.; J. Dubois, Comment les moines du Moyen Âge chantaient et goûtaient les Saintes Ecritures, in P. Riché, G. Lobrichon (a cura di), Le Moyen Âge et la Bible, Paris 1984, pp. 264-70.