KIM

QUEL GIORNO

«Credi che dovremmo svegliare la principessina?» Le sue parole rimasero sospese nell’aria fresca del mattino, in attesa di una risposta. Kim appoggiò i gomiti sul bancone di legno grezzo della cucina e bevve un sorso di caffè.

Gli occhi di Jeff non si staccarono dallo schermo del portatile. «È il suo compleanno. Lasciala dormire...»

Kim diede un’occhiata all’orologio digitale del forno Miele: le 8.37, un’ora irragionevole per chiedere a un’adolescente di alzarsi di sabato mattina, figurarsi il giorno del suo sedicesimo compleanno. Sedici anni... Santo cielo, com’era volato il tempo! Kim si concesse qualche istante di nostalgia, ripensando alla grigia giornata di marzo in cui Hannah era nata. Sembrava appena accaduto e allo stesso tempo lontano un secolo. Quella minuscola creaturina urlante che aveva dato alla luce con tanta fatica era diventata alta, bella, quasi una donna...

Anche Kim era cambiata. Sebbene le sue trasformazioni fisiche fossero meno evidenti – a quarantasei anni era fiera di dimostrarne quaranta, forse persino trentanove, grazie a un regime rigoroso a base di pilates, succhi spremuti a freddo e un uso moderato di filler antirughe –, non era più ingenua e piena di speranze come allora. Anche lei, come Hannah, era cresciuta.

Il ticchettio implacabile delle dita di Jeff sulla tastiera la strappò ai suoi pensieri. Che tortura! «Stai ancora lavorando a quella relazione?» Nella sua voce c’era una leggera punta d’irritazione, che Jeff tuttavia non notò. Quando si trattava di sua moglie, Jeff sembrava non notare quasi nulla. Kim avrebbe potuto attraversare la cucina nuda a testa in giù su un unicorno e lui avrebbe continuato imperterrito a battere sui tasti come un picchio sotto Ritalin.

«Già.» Era concentrato sul lavoro come se si trovasse nel suo ufficio di Palo Alto un martedì qualunque, e non nella cucina di casa sua, con sua moglie, di sabato mattina. Chissà se ricordava che era un giorno tradizionalmente dedicato al tempo libero e alla famiglia? Non che Kim smaniasse dalla voglia di passare del tempo con l’uomo con cui era sposata da diciotto anni. Dopo l’incidente dell’anno prima, era già un problema mantenere dei rapporti civili. Passare qualche momento felice assieme era un miraggio. Ciononostante Kim non riusciva a fare a meno di sentirsi trascurata. E invidiava l’ossessione di Jeff per lo sviluppo di software finanziari, la sua cieca fiducia nel fatto che la sua carica di viceresponsabile della strategia globale della Fin-Tech Solutions avesse davvero senso. Sembrava convinto che l’intera economia americana sarebbe crollata, se si fosse distratto un istante.

Kim si alzò dallo sgabello. «Vado a lavorare anch’io.»

Il ticchettio s’interruppe. Jeff si alzò e andò alla macchina del caffè. «Ne vuoi un altro po’?»

«No, grazie, sono a posto così. Chiamami quando Aidan si sveglia. Gli preparo delle uova.»

«Se si sveglia. Sarebbe capace di dormire per due giorni di fila.»

«Ha tredici anni. Sta crescendo.»

Con la sua tazza di caffè tiepido in mano, Kim oltrepassò le ampie vetrate del grande salotto incassato, da cui si godeva una vista mozzafiato sulla baia di San Francisco. Raggiunse il suo studio, una stanzetta piccola e ordinata tra la lavanderia e la cantina del vino, sul retro della loro casa di design. Era lì che svolgeva i suoi lavoretti come copywriter freelance. «È solo per restare in gioco. Quando i bambini saranno cresciuti potrei aver voglia di ricominciare», aveva replicato, quando Jeff le aveva detto che col suo stipendio non era necessario che continuasse a lavorare.

Sebbene a sedici e tredici anni i bambini potessero considerarsi cresciuti, Kim non aveva ancora fatto nulla per tornare nel mondo della pubblicità. Era un lavoro da ventenni, pensato per persone che potevano fermarsi in ufficio fino a tardi, poi uscire a bere in qualche locale notturno e concludere con una notte di sesso sfrenato con qualche collega, di cui pentirsi il giorno dopo. Era stato divertente finché era durato, ma ormai quei giorni erano solo un lontano ricordo. Al loro posto Kim aveva un marito ossessionato dal lavoro, due figli alti e con un eccellente rendimento scolastico e una casa in stile Mid-century modern di quasi trecento metri quadri a Potrero Hill, sull’ambitissimo versante nord, le cui vedute panoramiche facevano schizzare il valore degli immobili verso cifre a sei zeri. Aveva scambiato quella vita massacrante, stimolante e vagamente dissoluta con la placidità rassicurante di una famiglia perfetta. E la maggior parte del tempo non se ne pentiva.

Prese posto sulla sedia ergonomica e accese il computer. Non appena lo schermo s’illuminò, sentì una lieve fitta allo stomaco, un misto di senso di colpa e di eccitazione. Rimaneva sempre sbalordita di fronte a quella scatola che le permetteva di starsene a una decina di metri da suo marito, in vestaglia e pantofole, coi capelli in disordine e senza un filo di trucco, e scrivere a Tony all’altro capo della città. Aprì la chat e digitò:

 

Kim: 6 al lavoro?

 

L’abbreviazione la fece sentire giovane e frivola come una tredicenne che scrive a un ragazzino per cui si è presa una cotta.

 

Tony: Faccio finta. Tu?

 

Il cuore le balzò in gola di fronte a quell’ammissione sfacciata.

 

Kim: Sto finendo 1 paio d cose.

 

Era una bugia. Il suo «restare in gioco» si era ridotto a un unico contratto, la stesura del volantino bisettimanale del terzo più importante rivenditore di abbigliamento sportivo di San Francisco. Le descrizioni di due righe degli impermeabili e delle scarpe da trekking le occupavano più o meno sette ore a settimana, anche se lei ne fatturava quindici. Ma non avrebbe mai ammesso che la sola ragione per cui si era chiusa nel suo studio di sabato mattina era flirtare col suo grafico, Tony.

Un messaggio apparve sullo schermo.

 

Tony: Cs fai d bello oggi?

 

Kim: È il compleanno d Hannah. 16 anni

 

Tony: Tanti auguri Hannah

 

Kim sentì un’altra fitta allo stomaco. Tony non conosceva Hannah, a che titolo le faceva gli auguri? Non gli aveva mai dato il permesso d’intromettersi nella sua vita privata, non lo aveva mai presentato a suo marito e ai suoi figli. Sul serio si aspettava che lei facesse gli auguri a Hannah da parte sua, come se fosse un amico di famiglia? Sarebbe stato del tutto fuori luogo... oltre che un po’ inquietante.

Di norma Tony e Kim s’incontravano due volte al mese, alla luce del sole, però negli ultimi tempi gli incontri erano raddoppiati a mano a mano che il loro legame si faceva più stretto. La natura del loro rapporto tuttavia era ancora incerta... Non si scrivevano nulla d’inopportuno o di scandaloso, si limitavano perlopiù a flirtare in modo innocente e scherzoso, come due tredicenni, appunto. Quando s’incontravano, il contatto fisico si limitava a un breve abbraccio per salutarsi, a una mano su una spalla o a un pugno sul braccio quando uno dei due faceva una battuta. La loro disinvoltura era un tantino forzata, si comportavano come se fossero compagni di college, o fratello e sorella... L’unica cosa peccaminosa nel loro rapporto era l’accelerazione nel battito di Kim ogni volta che sentiva la voce di Tony, riceveva un suo messaggio o pronunciava il suo nome. Era il piacevole calore che infiammava le guance e il basso ventre.

Ipotizzava che Tony provasse lo stesso, anche se, a volte, certi suoi comportamenti la lasciavano interdetta. Come fare gli auguri a Hannah, per esempio. Quelle tre parole indicavano che sapeva che Kim era una madre, una moglie, una donna con una vita familiare al di fuori del loro rapporto. Lei sapeva che anche Tony aveva una vita così, ma non le piaceva pensarci. Non le interessava sapere i nomi dei suoi figli (Declan e Ruby). Non le interessava sapere che sua moglie (Amanda) era un avvocato di successo che spesso lavorava fino a tardi, delegando a Tony il compito di andare a prendere i figli a scuola, accompagnarli alle attività extrascolastiche e preparare la cena quasi ogni sera, il tutto senza trascurare le scadenze del suo lavoro di grafico freelance. Kim preferiva pensare a Tony come a un’isola. Sullo schermo apparve un nuovo messaggio.

 

Tony: Stasera festa?

 

Kim: Sì, amiche, pizza e torta

 

Tony: Pizza e torta, LOL

 

Kim: ???

 

Tony: Hanno 16 anni. S ubriacheranno e inviteranno dei ragazzi

 

Kim s’innervosì. Tony non conosceva Hannah. Come si permetteva di equipararla ai sedicenni che si vedevano in tv? A quei ragazzini sorpresi a impasticcarsi, che partorivano in bagno, che uccidevano una famiglia intera alla guida della station-wagon della madre? Kim prendeva molto sul serio il suo ruolo educativo, e i suoi figli ne erano la prova. Leggeva manuali di pedagogia e partecipava agli incontri organizzati dall’Associazione genitori e insegnanti. Era consapevole di quanto fosse difficile trovare il giusto equilibrio tra stabilire dei limiti e lasciare che i figli esprimessero la propria personalità, tra essere esigenti e caricarli di aspettative. Inoltre lei e i suoi figli parlavano di tutto. Con Hannah avevano discusso di ogni genere di trasgressione adolescenziale, dall’autolesionismo alla marijuana, dai disturbi alimentari all’ecstasy. Naturalmente avevano parlato anche dell’abuso di alcol e dei suoi pericoli. Qualche tempo prima, suo nipote in Oregon aveva bevuto così tanto a una festa da farsi la pipì addosso davanti ai suoi amici e passare la notte in ospedale attaccato a una flebo. Kim aveva proibito a Hannah di consumare alcol alla festa.

«Certo, mamma», aveva risposto lei, sospirando e alzando gli occhi al cielo. Non avrebbe bevuto comunque. Forse Declan e Ruby erano adolescenti problematici, che bevevano e fumavano e si ribellavano a una madre ossessionata dal lavoro e a un padre che fingeva di disegnare brochure pubblicitarie mentre in realtà chattava con una collega. Ma i figli di Kim no. Lei faceva il suo dovere.

 

Kim: Vado c sent + trd

 

Reprimendo l’irritazione, cancellò la chat e tornò in cucina. Tony era attraente, affascinante, spiritoso... e il suo interesse per lei la faceva sentire lusingata, soprattutto alla luce del fatto che suo marito sembrava non mostrarne affatto. Però quell’osservazione le aveva ricordato che in realtà non si conoscevano affatto. Lavoravano assieme da quasi sei mesi e non avevano mai discusso seriamente di figli o di principi educativi. Si limitavano a parlare di lavoro e a flirtare come due ragazzini. Aveva appena troncato la conversazione digitando «c sent + trd» come un’adolescente troppo pigra per scrivere «ci sentiamo più tardi». Ma cosa le prendeva?

Quando entrò in cucina, Jeff fissava lo schermo. «Già fatto?»

«Non avevo molto da fare.» Kim si diresse verso la macchina del caffè. «Hai lasciato la caffettiera vuota e la macchina accesa.»

«Hai detto che non ne volevi più.»

«Sì, ma non per questo voglio che la caffettiera si rompa. O che la casa prenda fuoco.»

Jeff staccò gli occhi dal computer e la guardò. «Com’è che sei così nervosa?»

«Non sono nervosa», sbottò, contraddicendosi. S’incamminò verso la scala a giorno che conduceva nella loro camera da letto. «Vado a farmi una doccia.»

«Ti serve una mano per preparare il party?»

L’offerta di Jeff – una rarità da parte sua – la calmò e le ricordò che in fondo erano ancora una squadra. E che, per quanto si fossero allontanati, per quanto lui l’avesse fatta soffrire, erano ancora assieme ed erano ancora una famiglia. Indugiò sui suoi capelli biondo cenere spettinati, sul velo di barba che ricopriva il suo viso giovanile, anche se aveva quarantotto anni. In cuor suo Kim nutriva ancora un’esile speranza che ciò che avevano perduto fosse recuperabile. All’improvviso si pentì dei dieci minuti trascorsi nel suo studio a scrivere a un altro uomo. «Ho promesso a Hannah che le avrei comprato una torta al cioccolato e al burro di arachidi alla pasticceria su Cesar Chavez. Potremmo fare due passi assieme, che ne dici? Credo che stia spuntando un po’ di sole.»

«Io però devo vedere Graham. Andiamo a farci una nuotata e poi a correre.»

Kim strinse la mandibola e iniziò a salire le scale. «Va be’, lascia stare.»

«Cosa c’è? La gara di triathlon è ad agosto!»

 

 

Alle 10.40, l’Audi di Kim era carica di snack senza grassi idrogenati, bibite dietetiche, vassoi di verdure affettate e tre mazzi di tulipani viola, il colore preferito di sua figlia. Nascosta nella sua borsetta Gucci c’era la scatoletta quadrata con dentro il bracciale di diamanti che lei e Jeff avevano deciso di regalarle. Era costato più di cinquemila dollari, ma in fondo era il suo sedicesimo compleanno. E, nel loro ambiente, le aspettative erano alte. Una delle amiche di Hannah aveva ricevuto un’auto per il suo compleanno. Certo, il padre di quell’amica era scappato con la sua igienista dentale, quindi il senso di colpa aveva avuto un ruolo determinante nell’acquisto. Kim era convinta che un bracciale di diamanti e oro bianco fosse un ottimo modo per dimostrarle il loro amore senza viziarla troppo.

L’ultima tappa era Tout Sweet, una pasticceria arredata in tinte pastello per cui Hannah e le sue amiche andavano matte. I macaron, i marshmallow e le meringhe che vendeva erano così popolari che stava aprendo filiali in tutta la città: un’invasione di dolcezza.

Aveva appena ordinato la torta preferita di sua figlia quando sentì qualcuno che la chiamava. Si voltò e si ritrovò stretta in un abbraccio.

«Kim? Oddio! Come stai?» Era Lisa, la madre di Ronni, un’amica di Hannah.

Un tempo, quando le ragazze erano piccole, erano molto vicine. O forse era stata la vita a farle avvicinare loro malgrado, mentre guardavano le bambine arrampicarsi sulle reti pericolanti del parco giochi, tuffarsi in una piscinetta piena di pipì e saltellare su un castello gonfiabile. A volte, quando Lisa passava a prendere Ronni a casa loro, Kim le offriva un bicchiere di vino bianco. Avevano legato nonostante le differenze: Lisa era una madre single con una passione per il New Age, che faceva qualche lavoretto saltuario e viveva con la sua unica figlia in un appartamento sul versante sud di Potrero Hill. Non erano case popolari, ma si trattava di un quartiere molto meno esclusivo di quello in cui abitavano i Sanders. Kim non voleva che i suoi figli crescessero sotto una campana di vetro, per quello li aveva iscritti a una scuola privata che concedeva molte borse di studio agli studenti meno abbienti e aveva dato il buon esempio facendo amicizia con una persona di estrazione socioeconomica inferiore. Noblesse oblige.

«Lisa. Quanto tempo.»

«Davvero! Ora che le ragazze sono autonome, non ci vediamo mai.»

Kim guardò i lunghi capelli ondulati di Lisa e la sua pelle abbronzata. Aveva solo pochi anni meno di lei, però si vestiva in modo molto più informale, bohémien, quasi come una ragazzina. La sua camicia di Tory Burch e le sue ballerine le sembravano matronali, al confronto. «Ti trovo benissimo.»

«Ho iniziato a fare surf. Il mio nuovo compagno, Allan, è un vero mago tra le onde. È uno chef, perciò è davvero creativo e sensibile. Ma è anche molto passionale...» – Lisa si avvicinò e posò una mano sul braccio di Kim – «... non so se mi spiego.»

Altroché. Kim inarcò le sopracciglia e si sforzò di sorridere nonostante il disagio. Era un’osservazione troppo intima... e le ricordò che lei e Jeff non facevano sesso da quasi un anno.

«Però da maggio mi rimetto sotto col lavoro. Sto facendo un corso di tocco terapeutico e guarigione Reiki.»

«Bello», disse Kim nel tono più convincente che riuscì a trovare. Sapeva che Lisa aveva azzeccato alcuni investimenti immobiliari in passato, ma la guarigione Reiki? Non le sembrava che fosse il campo migliore in cui specializzarsi, coi tempi che correvano... Ed era col tocco terapeutico che pensava di mandare sua figlia al college? Anche se Ronni non era mai stata molto portata per lo studio...

Fu in quell’istante che Kim si ricordò perché l’amicizia con Lisa non era mai sbocciata. Quella donna era strana, eccentrica, inaffidabile. Kim sapeva che aveva avuto una vita difficile, perciò cercava di essere comprensiva. Però Lisa era davvero un po’ fuori. Kim invece era concreta, seria, aveva i piedi per terra. Quando le figlie avevano smesso di frequentarsi, le madri le avevano imitate. Ma di recente Ronni era tornata nella cerchia di Hannah... «Ronni viene alla festa di Hannah stasera, vero?»

«Non vede l’ora. Sono così contenta che si siano riavvicinate.»

«Anch’io», mentì Kim. Anche quand’era una bambina, Ronni le era sempre sembrata un po’ troppo precoce, oltre che dispotica nei confronti della sua piccola e dolce Hannah: era la tipica figlia unica cresciuta da un genitore single. Ora che aveva sedici anni, aveva un’aria esperta e smaliziata, e sfoggiava quell’atteggiamento annoiato e sprezzante così in voga tra gli adolescenti.

La commessa le interruppe: «Ehm, scusi... Vuole una scritta sulla torta?»

Kim la osservò. Le ricordava proprio Ronni: spesso strato di fondotinta, sopracciglia disegnate, ciglia nere lunghissime e un velo di lucidalabbra trasparente sulla bocca. Le ragazze ormai si conciavano come bamboline... bamboline sexy. Era inquietante. Si rivolse a Lisa. «Secondo te le ragazze troverebbero infantile una torta con scritto sopra: ’Auguri per i tuoi 16 anni’?»

«No, gli piacerà. Fanno le indifferenti per darsi un tono a scuola, però sotto sotto sono ancora delle bambine.»

Kim sorrise e le strinse la mano. Era un po’ strana, sì, ma anche gentile. «Mi ha fatto davvero piacere rivederti. Prendiamoci un caffè assieme, uno di questi giorni.»

«Volentieri.»

Mentre tornava alla macchina con la pesante scatola della torta, d’un tratto Kim si sentì fragile, senza forze, come se avesse molto più di quarantasei anni. Era felice di avere incontrato Lisa – nonostante gli anni e le differenze, la considerava ancora una cara amica –, però la sua vita le era sembrata di colpo così ordinaria. Lisa si preparava ad affrontare una nuova carriera, aveva un nuovo compagno che faceva surf... Nella vita di Kim non era successo nulla di nemmeno lontanamente emozionante dalla nascita di Aidan... a meno di non considerare «emozionante» l’incidente dell’anno prima, il che era da escludere. Un conto era l’emozione, un altro la catastrofe.

Posò la torta nel bagagliaio e guardò l’ora. Hannah non si sarebbe alzata prima di mezzogiorno; doveva trovare qualcosa da fare nel frattempo. Una pulizia del viso? No, l’aveva già fatta la settimana prima, meglio non esagerare o si sarebbe rovinata la pelle. Una manicure e pedicure, forse... Ma non aveva con sé le infradito. Esitò un istante prima di tirare fuori il cellulare. Il cuore batté forte mentre partiva la chiamata.

«Tony Hoyle.»

Come sempre, al suono della sua voce fu percorsa da un brivido delizioso. «Ciao, sono io.»

«Ciao, Kim. Come va la stesura dei testi?» Il suo tono era professionale, pure troppo. Ruby e Declan dovevano essere a portata d’orecchio... e magari anche sua moglie.

«Ho qualche problemino, a dirla tutta. Stavo pensando che magari potremmo incontrarci e discuterne un po’.» Era arrossita e stava sudando. Non era abituata a quei giochetti... ma la situazione era così eccitante...

«Buona idea. Quando ci vediamo?»

«Mmm... adesso. Da Farley’s.»

«Ottimo, prendo il computer e arrivo. Vediamo di sistemare la faccenda.» E riagganciò.

Mentre Kim si allontanava dal parchimetro, sorrise. E, all’improvviso, si sentì di nuovo una tredicenne.