Congedo

Mentre stavo scrivendo i vari capitoli di questo libro, mi è capitato di parlarne con alcuni colleghi psicoanalisti. E mi è sembrato di notare in tutti sempre la stessa reazione.

Un primo breve momento di sorpresa. Poi una pausa di soprappensiero. Ed alla fine un atteggiamento conclusivo e stabile, che mi è sembrato di accettazione e consenso.

Provo a tradurre queste mie impressioni, esponendo in parole, le idee suscitate nell’interlocutore.

Dapprima: «Ma che cosa si è sognato, questo, adesso!».

Poi: «Effettivamente, l’analisi degli altri non la posso fare neppure io, se non guardando dentro me stesso, e rintracciando qualche situazione mia, da poter poi attribuire al paziente».

«Eh sì! Mi è accaduto anche col tale! Benché io, s’intende, sia molto diverso da lui, che costituisce un caso mica tanto bello!»

«Ma allora non è una trovata. Anzi, in complesso, è una cosa banale».

Con questo, il mio interlocutore ha liquidato quanto di problematico poteva apparire all’inizio.

La situazione si è ripetuta con vari colleghi. Perciò mi si è presentato un altro problema.

Dal momento che la faccenda è tanto semplice, e dunque banale, come pensano questi miei colleghi, per quale motivo, altri psicoanalisti non fanno qualche cosa di simile? Ed io stesso, ora, alla mia età, e quando più non esercito professionalmente l’analisi, mi son deciso a scrivere cose, diciamo pure – per intenderci – autoanalitiche?

Risaliamo al Maestro.

Che cosa ha raccontato Freud di se stesso in chiave analitica? Poche cose.

Il senso di smarrimento sull’Acropoli ad Atene.

Qualche lapsus. Rari accenni a quei rapporti col padre, di cui abbiamo notizie solo per via indiretta. E poco più.

Anche i problemi sorti dopo la sua morte, per gli epistolarii, sono dovuti al fatto che la figlia, ed a suo tempo Kris, hanno fatto di tutto per occultare alcuni elementi personali. Nello spirito cioè di quello che è stato l’atteggiamento tenuto dallo stesso Freud in vita.

Ciò si deve in gran parte al fatto che egli, pur avendo concorso in misura notevole ad aprire un’era nuova per la vita degli uomini, è – per proprio conto – appartenuto all’Ottocento. Ed ha quindi conservato, per quanto lo riguardava, un pudore corrispondente alla sua epoca.

In lui, e poi negli analisti che si sono succeduti, agiva però anche l’esigenza di una riservatezza imposta da obblighi professionali.

Se l’analista deve funzionare, con i propri pazienti, come uno schermo, su cui va a proiettarsi un contenuto di elementi carichi di valenze emotive, e se questo è necessario perché, attraverso i meccanismi transferenziali, ogni paziente tragga dal proprio inconscio, esplicitandoli, i vari elementi che determinano la sua patologia, occorre assolutamente che quello schermo sia del tutto neutro.

La neutralità dell’analista è costituita dalla sua impenetrabilità ed impersonalità (un’impersonalità che consenta tutte le personalizzazioni).

È una neutralità che ha qualche cosa a che fare con quella del confessore. Quest’ultimo, quando entra in confessionale, non è più il don Giuseppe, col quale si è giocato a briscola in osteria, o con cui si è litigato per la rete di un confine di proprietà. È un altro. Assolutamente un altro. Ignoto ed anonimo, con la sola investitura della sua funzione.

È ovvio che l’analogia riguarda soltanto questa faccenda dell’impersonalità; e che mi guardo bene dall’istituire parallelismi di altra specie.

Ecco dunque – per riprendere il discorso interrotto – che lo psicoanalista in attività di servizio non può scrivere una propria autobiografia, o qualche cosa che, come queste pagine, degli scritti autobiografici abbia i caratteri.

Ma fuori servizio si va ad una certa età. Magari anche meno ragguardevole della mia.

Con l’età tuttavia subentra un’altra esigenza di riserbo.

La persona anziana sì parla volentieri di sé, e delle vicende della propria vita – naturalmente se riesce a conservare una certa capacità di comunicare, e se non si rinchiude in una pudica riservatezza – ma tende pure a crearsi immagini astratte stereotipate, non più vivificate da partecipazione, ossia non più rivissute. Questo è il pericolo della memoria dell’anziano.

Ed è il motivo per cui le autobiografie (le quali ovviamente vengono scritte in età avanzata) difficilmente sono opere riuscite: come lo è invece – tanto per citare un esempio – quella di Bertrand Russell, che – in modo particolare per i capitoli riguardanti gli anni giovanili – è un vero capolavoro.

Il libro da cui ora mi congedo non è un’autobiografia. Ma ha necessariamente qualche carattere autobiografico. E quindi mi è stato presente il problema del riattivare cose personali passate.

Debbo anche giustificarmi col lettore per avere compreso in questa rassegna della mia psicopatologia personale, episodi e problemi che ho già esposto in altre pubblicazioni.

Ho senz’altro il difetto di ripetermi nelle cose che scrivo.

Ciò dipende in parte dal fatto che spesso non mi ricordo di aver già trattato un determinato argomento, o di avere comunque narrato qualche cosa in precedenti scritti od occasioni. Anche questo può essere imputato all’età.

Ma talora alla ripetizione, divenuta consapevole, sono stato costretto. Come è accaduto nella presente occasione.

Perché questo è stato per me, volutamente, un ripasso.

Allo scopo di rintracciare – per quanto era possibile – quelle mie esperienze personali, che mi sono state d’aiuto per capire le persone venute a chiedermi assistenza.