Sogni e simbolismo: il mio primo paziente

Subito dopo la morte del mio Maestro, venne a trovarmi un tale, che era stato mio compagno di Università, e che era divenuto professore di lettere in una scuola media inferiore. Si era laureato con una tesi sopra l’inconscio, con un professore di Filosofia morale. A questa tesi, che in qualche modo aveva riferimento con la psicoanalisi (allora, nel 1928, poco conosciuta in Italia) faceva spesso riferimento nei più diversi discorsi, soggiungendo, a mo’ di commento e usando il dialetto: «Ma po’, ghe xe l’inconscio, che lavora de soto» (Ma poi c’è l’inconscio che opera nel profondo).

Mi disse che Benussi gli aveva promesso di prenderlo in analisi, per determinate sue difficoltà. E aggiunse: «Ora che il tuo Maestro non c’è più, e che ne occupi il posto, devi prendermi tu in trattamento psicoanalitico». «Io?», risposi. «Ma neanche per sogno. Non ho mai praticato l’analisi, e conosco queste cose soltanto da un punto di vista teorico». Il mio amico tuttavia insisteva: «Non so a chi altro rivolgermi. E poi, almeno prova. Male non mi può fare. Vediamo se ne ottengo qualche beneficio. Se mai, ad un certo momento, sospenderemo».

Finii col dirgli di sì.

La situazione era tutt’altro che ortodossa. Un’analisi gratuita (perché fra vecchi compagni di studio non poteva esserci una questione di denaro). E poi… un’analisi per prova…

Comunque incominciammo.

Veniva in Istituto, si stendeva su un lettino, e cominciava a parlare. Soprattutto mi raccontava i sogni fatti durante la notte. Io registravo quei sogni e gli chiedevo che cosa questo o quell’elemento gli facesse venire in mente.

Erano sogni piuttosto monotoni. Si aggiravano tutti attorno a due o tre argomenti costanti. Sembravano riferirsi a situazioni reali.

Ad esempio, c’era la «questione dell’orologio». Il suo orologio si era effettivamente guastato, ed egli lo aveva portato dall’orologiaio, perché glielo aggiustasse. Ma non era mai pronto, e l’orologiaio lo rimandava ogni volta, dicendogli di ritornare fra una settimana. I sogni riproducevano spesso tutto questo.

Se non che la versione cambiava. E la descrizione del «banco dell’orologiaio» sembrava piuttosto riferirsi alla mia posizione dietro una scrivania, e al mio comportamento nei suoi confronti.

«Ma allora,» mi venne fatto di pensare, «sono io l’orologiaio?»

Sembrava proprio di sì. Mi feci quindi attento al modo come egli descriveva le operazioni che l’orologiaio si accingeva ad effettuare, ed a come lo stesso difetto di funzionamento, presentato dall’orologio, veniva descritto.

«Dure ad andare queste signore lancette!», ripeteva il mio paziente.

A questo punto, i suoi racconti cominciarono ad interessarmi.

Durante le mie letture psicoanalitiche, ero rimasto assai impressionato per la faccenda del simbolismo onirico.

Provenivo dalla matematica e dai problemi epistemologici, e l’idea che, sulla base di una semplice analogia formale, l’attività onirica potesse servirsi di un’immagine qualsiasi per indicare determinati elementi (che poi sono sempre gli stessi, e necessariamente appartenenti alla sfera della sessualità: organi maschili, organi femminili e via dicendo) mi sembrava qualche cosa di assolutamente arbitrario, e poco credibile.

Ma ora, con questo materiale di sogni che vengo raccogliendo, e che riguardano tutti un unico argomento, se riesco ad organizzare un lavoro di confronto fra questi vari sogni, cosicché l’interpretazione simbolica di un elemento in un solo sogno risulti confermata dall’interpretazione degli altri sogni…, se questo mi riesce, ottengo una prova che ha una certa sua validità.

Mi gettai nell’impresa, e mi ci appassionai, riprendendo il lavoro per altri elementi che potevano apparire simbolo di un unico oggetto.

Alla soddisfazione data dal fatto che mi si apriva la possibilità di ricavare materia di studio dal lavoro compiuto col mio amico-paziente, subentrò però presto una delusione.

Una mattina, mentre attendevo che mi raccontasse qualche sogno, mi fece questo discorso:

«Questa notte è entrata nella mia stanza una donna bellissima. Si è avvicinata al mio letto. Aveva in mano una rosa e l’ha messa nel bicchiere sul mio comodino».

«Ma come?», replicai io. «Hai fatto questo sogno?»

«No», rispose. «Non è stato un sogno. Questa donna bellissima è venuta veramente».

«E la rosa?»

«La rosa questa mattina non c’era più».

«Capisco, capisco».

Invece non capivo proprio nulla. O, per dir meglio, capivo che mi ero cacciato in un bel pasticcio, prendendo, per così dire, in analisi il mio amico, senza essermi prima sincerato sulla natura delle sue difficoltà.

Andai a consultare il mio amico professor Belloni, allora assistente nella Clinica psichiatrica. Questa clinica era abbinata all’Ospedale psichiatrico, situato alla periferia della città, a Brusegana. Infatti la cattedra di Neuropsichiatria comportava anche la direzione dell’Ospedale psichiatrico.

Con Belloni mi ero già trovato qualche tempo prima, in occasione di una sua ricerca.

Aveva tentato di utilizzare uno stato di semisonno, per ottenere comunicazioni verbali da soggetti, che in condizioni normali non parlavano. Una specie di narcoanalisi ante litteram. Non esisteva ancora il Pentothal; e Belloni aveva provato con gli stati terminali di una narcosi da cloroformio.

A Benussi ed a me chiese di partecipare alla sua ricerca, per trarre un senso dalle scarne espressioni verbali ottenute in questo modo particolare con determinati soggetti: che erano tutti individui ricoverati in ospedale psichiatrico.

I risultati furono assai scarsi. Sia per il tipo dei soggetti, che erano ammalati assai gravi, sia perché lo stato di incipiente risveglio aveva una durata limitata, che non poteva essere protratta.

Chiesi adesso a Belloni di esaminare il mio amico-paziente per ottenere una diagnosi.

Quando rividi Belloni, mi disse: «Per carità. Sospendi tutto. È uno schizofrenico ed incurabile. Fra non più di due mesi, verrà da noi a Brusegana, per restarci finché campa».

Mi ero ingannato su questo mio primo paziente. Però anche Belloni (che in seguito fu un brillante Maestro, in campo psichiatrico) prese un abbaglio.

Il mio amico-paziente non finì in Ospedale psichiatrico, e continuò la sua carriera di professore statale, fino all’età della pensione. Sempre in bilico, questo sì, e sempre sotto la minaccia di finire a Brusegana.

Molti anni dopo lo incontrai. Aveva stipulato un’assicurazione contro il pericolo di malattie. E specificò: «Sai, anche per le malattie mentali. Così se mi capitasse di aggravarmi, non finirei in manicomio, ma in una clinica privata, dove potrei essere curato meglio».

Negli anni successivi l’ho perduto di vista. Quando penso a lui, mi viene in mente quella donna bellissima e quella rosa notturna: una breve luce in un mondo di tenebre.

Rimasi alquanto avvilito per la conclusione di questa mia prima esperienza psicoanalitica. La mentalità del ricercatore scientifico prese però in me il sopravvento.

Utilizzai il materiale raccolto per scrivere uno studio, che intitolai: Simbolismo onirico e sogni ricorrenti.

Lo pubblicai, e mi si presentò un nuovo paziente il quale, avendo letto il mio lavoro, mi chiese di prenderlo in analisi.

Questa volta andò meglio. Cercai di adeguarmi alla tecnica ormai consolidata della psicoanalisi, e cominciai a comportarmi correttamente.

Il mio interesse però continuò ad essere sempre soltanto scientifico. E non mi sognavo affatto di divenire uno psicoanalista in senso professionale.

Il sistema di seguire un paziente ricavandone un lavoro scientifico che, pubblicato, mi procurava un nuovo paziente, si prolungò per qualche anno.

Nel biennio 1933-34 e 1934-35, tenni all’Università di Padova, dove continuavo ad insegnare Psicologia (anzi Psicologia sperimentale, come allora veniva detta), due corsi monografici: Le tecniche esplorative della psicoanalisi e La dottrina psicoanalitica degli istinti. Di esse furono pubblicate le dispense.

Su suggerimento di Concetto Marchesi, ricavai da tali dispense il mio Trattato di psicoanalisi.

Finii di scriverlo nel 1938, quando, per effetto delle leggi razziali, fui sospeso dall’insegnamento universitario, ed escluso dalla possibilità di dare alle stampe alcunché.

Così il mio Trattato poté essere pubblicato soltanto dieci anni più tardi.

Debbo aggiungere che esso fu composto sulla esperienza di soli sette casi avuti in analisi.

Sette, oppure – se si vuole – otto, quando si aggiunga l’autoanalisi, che in quegli anni ho continuato a svolgere personalmente su me stesso.

Soltanto dopo il 1945, caduto l’ostracismo decretato dal fascismo nei confronti della psicoanalisi, ho esercitato un’attività psicoanalitica in modo continuativo e professionale.