L’amaro tè del generale Yen

Il mio matrimonio con Silvia De Marchi durò poco. Anch’essa, dopo che era nato nostro figlio, venne a mancare in giovane età.

Rimasto ancora vedovo, mi sposai una terza volta nel 1937 con una mia allieva, Carla Rapuzzi. Poco dopo mi sono trovato vittima di una strana fobia cinematografica.

Mi spiego: mi accadeva, frequentando un cinema (situato nelle vicinanze di piazza dei Signori a Padova, non lontano dall’Istituto di Psicologia dove lavoravo), di essere improvvisamente preso da un attacco di angoscia. Questo era in qualche modo in relazione con quanto appariva sullo schermo, e mi costringeva ad uscire dal locale per andare all’aperto.

La cosa appariva particolarmente connessa alle scene – allora frequenti nel cosiddetto «Giornale Luce» – di episodi bellici riguardanti in Cina le lotte fra i «Signori della guerra». Questi erano generali che, dopo il crollo dell’Impero cinese, si contendevano il potere delle varie province dell’immenso paese. E ciò mentre i giapponesi, sbarcati sul continente, venivano progressivamente impadronendosi dell’intera Cina.

Ma la mia angoscia (con la conseguente necessità di fuggire dal locale), si provocava per «qualunque episodio di guerra»: in modo specifico se aveva un qualche riferimento al mondo asiatico.

Dovetti uscire dal cinema, col cuore in tumulto, durante la proiezione della Carica dei seicento: un film prodotto nel 1936. Si tratta della carica della Cavalleria inglese contro i cannoni di Balaclava. Questa scena si svolge in Crimea e non in Asia. Ma asiatico è tutto il clima del film.

Perché gli episodi di guerra in Cina (e poi per estensione quelli in genere collocati in ambiente asiatico) proiettati al cinema, dovevano procurarmi attacchi di angoscia?

Non riuscivo a comprendere. Quando mia moglie Carla, la quale conosceva tutte le vicende della mia vita, attirò la mia attenzione sopra un altro film che mi aveva fatto una particolare impressione. Un film bello sì, ma fonte per me di turbamento. Era L’amaro tè del generale Yen, prodotto nel 1933 e proiettato sui nostri schermi.

Si tratta della vicenda di una giovane donna inglese, o americana, che – a Shangai, dove si trova con una missione umanitaria – alla vigilia delle nozze con un concittadino, finisce, nella confusione degli episodi bellici, nella residenza di uno dei generali contendenti, il generale Yen appunto. Là viene a trovarsi in una condizione ambigua di prigioniera e di rifugiata, separata dal fidanzato.

Fra lei e il generale Yen si stabilisce – nel breve periodo di due o tre giorni, quanto dura la prigionia – un’atmosfera di sentimenti vagamente amorosi.

Questa atmosfera viene interrotta per l’improvvisa sconfitta militare del generale Yen: che, abbandonato dai suoi seguaci e rimasto solo, si uccide con una dose di cianuro sciolta in una tazza di tè.

Perché questa vicenda cinematografica avrebbe dovuto impressionarmi tanto?

Il suicidio del generale Yen, con una tazza di tè contenente il cianuro, corrispondeva al modo in cui si era tolta la vita il nostro professore e Maestro Benussi.

Noi avevamo occultato il suicidio, facendone scomparire le prove, e lasciando che fosse accettata la versione del medico, il quale aveva rilasciato un certificato di morte naturale per paralisi cardiaca. Ma conoscevamo la situazione reale e sapevamo che il suicidio era dovuto ad una fase acuta di depressione in una persona affetta da gravi disturbi psichici.

Inoltre si era determinato un rapporto sentimentale fra lui e la De Marchi. Si trattava di un legame affettivo, quale si stabilisce facilmente fra un maestro ed un’allieva, e che a me, allora felicemente sposato con la mia prima moglie, non dava alcun fastidio.

Ma, morto Benussi tragicamente, io mi ero in certo modo impadronito del suo «trono», succedendogli nella direzione dell’Istituto. In più mi ero, per così dire, impadronito della donna del padre. Un Edipo in piena regola dunque.

Si comprende quindi come ogni accenno anche larvato a questa situazione dovesse sconvolgermi.

Non fu però direttamente L’amaro tè del generale Yen a scatenare l’angoscia. Lo furono invece quelle situazioni (guerre in Cina, o genericamente in Asia), che in modo indiretto potevano avere riferimento alle vicende del generale Yen.

È stata questa mia nuova compagna ad aiutarmi nella comprensione della mia angoscia cinematografica.

Si può dire che tale comprensione mi ha stabilmente guarito dalla mia angoscia nevrotica? Sì e no.

Sì, perché al momento riuscii a «tollerare», senza reazioni particolari, le situazioni cinematografiche che prima mi avevano provocato gli attacchi di angoscia.

No, per qualche strascico che quelle situazioni hanno avuto.

Dopo molti anni dai fatti sopra riportati, mi capitò, nel 1955, di fare un lungo viaggio di studio nella Cina popolare.

Visitai fra l’altro anche Shangai.

Ma quando giunsi col treno da Pechino in quella città, proprio mentre uscivo dalla stazione e stavo prendendo un tassì, per recarmi in albergo, fui colto da un terribile attacco d’asma. Credevo di soffocare, e stetti proprio male.

Mi misero a letto e chiamarono un medico.

Era un medico cinese, che aveva studiato negli Stati Uniti. Mi diede egli stesso – secondo l’uso americano – alcuni farmaci da prendere per via orale.

Poi, dopo essersi allontanato, mi mandò a dire con un interprete, che non dovevo fumare, né prendere alcolici, e neppure ballare. L’ultima prescrizione – date le condizioni in cui mi trovavo, inchiodato al letto – era alquanto incomprensibile. Ma essa era semplicemente dovuta alla finezza del modo di esprimersi cinese: si trattava infatti di un invito ad astenermi da ogni attività sessuale.

Perdetti, con mio grande dispiacere, due giornate della visita alla città, ed attribuii l’attacco d’asma alle forti sigarette cinesi, ed al raffreddore che mi ero beccato in Manciuria. Tuttavia una qualche incertezza mi rimase.

Quando tornai a casa, raccontai a mia moglie Carla ciò che mi era capitato a Shangai. Ed essa esclamò subito: «L’amaro tè del generale Yen»! Con mia grande meraviglia, dirò; perché a me non era affatto venuto in mente.

Ritengo che la sua interpretazione fosse giusta. Non ho infatti mai sofferto d’asma, né prima né dopo il mio viaggio in Cina.

E l’asma può essere considerata un equivalente somatico dell’angoscia.

Che io, arrivando a Shangai, non abbia minimamente pensato al film che mi aveva indirettamente angosciato in passato, si spiega con la tendenza a coprire col velo dell’oblio tutta la situazione.

Mi è riuscito di rivedere recentemente i due film. Tanto La carica dei seicento, quanto L’amaro tè del generale Yen.

Entrambi niente male, per l’epoca in cui sono stati prodotti. Mi hanno però ora lasciato del tutto indifferente.

Con un certo mio rammarico, mi vien da dire. Perché nel mio ricordo quei due film erano rimasti come qualche cosa di importante, e per me fondamentale.

Giacché – anche se la cosa può apparire impossibile – ai propri sintomi nevrotici, si rimane affezionati.