Il Rubicone e i valichi di alta montagna
Quando facevo ancora passeggiate e gite in montagna, mi capitava frequentemente di provare una strana impressione.
Questa era legata ad una situazione particolare: e cioè il passaggio da una vallata all’altra.
Mi accadeva cioè che, dopo aver camminato in salita sui pendii di una montagna, ed averne raggiunta la vetta, oppure essere arrivato ad un passo da cui ci si affacciava ad un’altra vallata, venivo preso da un lieve turbamento.
Non era proprio angoscia, o paura. Ma come un leggero stordimento, quasi un momento di assenza.
Ne restavo sempre meravigliato. Mi sembrava infatti che avrei dovuto sentirmi soddisfatto, e quasi fiero. Per aver raggiunto una meta. Invece questa soddisfazione non si produceva per nulla. No, tutto all’opposto, mi sentivo a disagio.
Ho pensato spesso a queste impressioni. Ci penso anche ora che i passi, o colli, li raggiungo soltanto in macchina. Ma in macchina è diverso, e tutto è fuggevole. E poi sono condotto da altri, dal guidatore; e non c’è il tempo per vivere il passaggio da un paesaggio ad un altro.
Il passaggio: sì, questo era l’elemento determinante dell’impressione di estraneità, che mi coglieva. Il passaggio. Il passaggio del Rubicone, mi venne fatto di dire, mentre cercavo di rivivere lo stato d’animo particolare di questa situazione.
Ma subito «Rubicone» suscita in me il preciso ricordo di un fatto risalente all’età fra l’infanzia e l’adolescenza.
A scuola, in seconda ginnasio credo, mi accadde un giorno di non vedere ciò che il professore di matematica scriveva sulla lavagna. Me ne lamentai coi miei. E mia madre mi portò da un oculista, amico di famiglia.
Là accadde che il medico si mostrasse alquanto preoccupato. Mi lasciò tornare a casa. Ma avvertì poi mio padre che a suo parere si trattava di una irite. Una malattia dell’occhio abbastanza seria, e che è inoltre per lo più dovuta ad una infezione luetica. Per cui c’era il caso che io mi fossi presa la sifilide.
A mia madre l’oculista non manifestò questo suo sospetto (perché a quei tempi non si parlava di tali cose con una signora). Si rivolse soltanto a mio padre.
D’urgenza si chiamò allora il medico di famiglia, mentre io fui trattenuto da scuola, e, ad ogni buon conto, messo a letto.
Nostro medico era il dottor Coen Porto, antico compagno di scuola di mio padre.
Medico dunque, ma anche amico di famiglia. Lo ricordo sempre con affetto. Dopo essere stato catturato dai nazifascisti, perché ebreo, finì nei forni della Risiera di Trieste.
Ai tempi felici del primo Novecento, veniva in casa mia quando c’era qualche ammalato.
Lo si mandava a chiamare con i metodi di allora. Non si usava ancora il telefono (in tutta Venezia c’erano circa cinquecento apparecchi: mio nonno aveva il 422; mentre mia zia, che non usciva di casa, il 376).
Allora si portava in una data farmacia (per noi quella in campo S. Stefano) un biglietto per il dottore. Questi al mattino passava in farmacia, faceva qualche chiacchiera con colleghi e con il farmacista, e poi veniva dove era chiamato.
Le visite del dottor Coen Porto, a casa nostra, duravano parecchio tempo. Qualche volta anche più di un’ora, perché il dottore, dopo il caffè, parlava con mia madre delle cose più diverse: gli avvenimenti politici, i pettegolezzi della città, le novità del mondo artistico e culturale.
La visita del malato, quando non si trattava di cose urgenti, passava in seconda linea.
Quella volta, dopo avermi palpato ben bene, si rivolse, in modo appartato, a mia madre, e le chiese sotto voce: «Ha passato il Rubicone?».
Io sentii. Facevo la seconda ginnasio e la storia del Rubicone la sapevo. Anche perché, fin da allora, a cagione del mio nome, Giulio Cesare mi sembrava un po’ mio progenitore.
Sentii, ma non capii bene, e comunque non fiatai.
Il dottore si rivolse allora direttamente a me. E, guardandomi con gli occhi spalancati, mi sembra, ma anche come roteanti, mi chiese: «Sei stato con d-o-n-n-n-ne?». Sì, quattro n almeno, lo giuro.
Rimasi smarrito. Scossi la testa e balbettando dissi di no.
In verità non sapevo neppur bene che cosa propriamente il dottore mi domandasse.
Le do-n-n-n-ne? Sì, c’era quella faccenda che mi aveva mostrato la mia cuginetta Adele, un paio di anni prima.
Quella faccenda importante e strana.
Così pensai allora, di fronte agli occhi roteanti del dottor Coen Porto.
Ma di che cosa si trattava propriamente?
Della scoperta della donna.
Io non ho avuto sorelle, e da bambino non ci sono state per me occasioni di vedere esseri femminili nella loro nudità. Per lo meno non ne ho alcun ricordo.
Vigeva una certa riservatezza in quegli anni del primo Novecento. Anche fra i bambini.
Avevo avuto in casa, dai sei ai dodici anni, istitutrici di lingua tedesca: le Fräulein. Dormivano nella mia stanza, la stanza dei bambini, con me e con mio fratello dunque.
Ma io non ho, in tutto quel tempo, mai veduto le ragazze, che si sono succedute, se non col loro abitino carinziano. Non capisco ora come facessero. Forse si spogliavano e si vestivano al buio. Per me erano come quelle bambole da pochi soldi che hanno il vestito attaccato con la colla al corpo.
Non avevo curiosità. Mi affezionavo molto, e quando la prima Fräulein, Bertha Plunger, dopo un paio di anni ci lasciò, ebbi una crisi di disperazione.
Qualche elemento erotico esisteva senz’altro, ma in forme tali da non provocarmi curiosità particolari. Al mattino, la Fräulein metteva un grosso asciugamano sopra il mio letto, mi denudava, e mi faceva una spugnatura, voltandomi e rivoltandomi in modo alquanto rude, come un pesciolino da infarinare. Era per me una piacevole passività corporea. Tutto qui.
La scoperta della costituzione femminile avvenne in altro modo, comunque prima della visita oculistica.
D’estate i bambini della nostra famiglia venivano portati sulla spiaggia del Lido. Mio nonno, che era stato il primo presidente della Società dei Bagni del Lido, e che, verso il 1875, aveva fatto costruire su quella spiaggia due prototipi di capanne balneari (una per la famiglia reale, così che ci venne, bambino, il futuro Vittorio Emanuele III, ed una per la famiglia propria), prendeva ogni anno, anche all’inizio del nuovo secolo, una capanna per i nipoti.
Così io mi ci trovavo con i miei cugini.
Un giorno di bassa marea, quando affioravano al di là della spiaggia varie successive secche, e bagnandosi soltanto le gambe e non il corpo, era per noi bambini possibile raggiungere vari successivi rialzi del fondo marino, mi ero inoltrato, con una mia cuginetta coetanea, molto avanti nel mare.
Essendomi venuto un bisognino, dissi a mia cugina che dovevo tornare in spiaggia, per raggiungere la nostra capanna.
Lei però mi suggerì di fare pipì in acqua, semplicemente spostando il costumino che avevo addosso.
Poco dopo però anch’essa fu presa dalla stessa necessità, e quando le suggerii di fare come avevo fatto io, mi spiegò che questo non era possibile, perché lei era fatta in modo diverso da me. Poiché non capivo, mi invitò a seguirla nella capanna.
Là si tolse il suo costume e, in una posizione che ho ancora ben presente, con un piede a terra e l’altro poggiato su una sedia, mi esibì ciò che io avrei dovuto vedere.
Mi accadde allora un fatto strano: non vidi nulla.
Non constatai cioè che non c’era quel qualche cosa che fino allora avevo ritenuto dovesse esserci. Ma non percepii alcunché, come se uno schermo avesse coperto il sesso della mia coetanea. Nei giorni successivi, con la cuginetta, feci sulla sabbia e su pezzi di carta, esercizi di disegni anatomici: per comprendere la diversa costituzione del corpo femminile. So bene che faccio ridere, se affermo che ancora oggi, alla mia età, avendo avuto una normale vita con più mogli, figli e nipoti, bene… del tutto sicuro non mi sento.
Cosicché, avendo dovuto fare un commento alla pubblicazione di una serie di disegni erotici di Guttuso, dove sono presentate numerose donne che esibiscono le loro nudità, sono rimasto un po’ disorientato come se continuasse a funzionare un rifiuto ad accettare, visivamente, la struttura corporea femminile.
Ma perché mi viene in mente ora tutto questo? Ed a proposito di che cosa?
Il disagio di fronte all’«altro versante», in montagna nel passaggio da una vallata all’altra: il passaggio, il passaggio del Rubicone («Sei mai stato con d-o-n-n-n-ne?»). L’altro versante: l’altra versione della struttura corporea dell’essere umano.
Non mi è più possibile controllare, perché passeggiate in montagna, passando da una vallata a un’altra, non ne faccio più.
E in macchina?
No: in macchina è tutto diverso; e i mutamenti di paesaggio sono troppo rapidi e frequenti.