Cerimoniali, e il dramma di Caino
Durante la mia infanzia, mio padre mi portava qualche volta da Venezia, dove abitavamo, a Roma dalla mia nonna materna.
Essa abitava in centro, in vie che oggi sono considerate di lusso, ma che allora erano piuttosto malfamate, come via Frattina e via Bocca di Leone. Un mio zio mattacchione mi faceva salire sul tram a cavalli che percorreva il corso Umberto, da piazza di Spagna a piazza Venezia, e poi scendeva di nascosto, seguendo a piedi la vettura, in modo da farmi credere di essere rimasto solo, e spaventarmi. Gliene voglio ancora un po’ adesso, a tanti anni di distanza.
Non era stato ancora aperto il Traforo sotto il Quirinale, né erano finiti di costruire l’Altare della Patria e il Palazzo di Giustizia.
La stazione Termini non era stata spostata, e piazza dei Cinquecento era accessibile ai pedoni.
Là mi capitava di assistere ammirato al passaggio dei ragazzini del Collegio Massimo, in frac e tuba, e in fila per due. Non erano mascherati come si sarebbe potuto credere, ma nella divisa indossata per il passeggio.
Un paio d’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, giunsero, uno dopo l’altro, da me, per sottoporsi ad un trattamento analitico, tre studenti universitari che provenivano da quel Collegio Massimo. Erano vestiti normalmente, anche se io me li immaginavo ancora con la vecchia divisa che avevo ammirato da bambino.
Uno di loro era Francesco Caracciolo, dolce e cara persona. A lui però, dopo un anno, consigliai di mutare analista. Ed anzi di rivolgersi preferibilmente ad un analista junghiano. Un’analisi junghiana mi sembrava infatti più adatta per un individuo con accentuate tendenze mistiche, quali erano presenti in lui.
Seguì il mio consiglio e divenne col tempo egli stesso un analista molto apprezzato della scuola junghiana.
Un altro, di questi tre, fece, dopo il rapporto avuto con me, lo psicologo. E in seguito acquistò buona fama come scrittore e romanziere.
Col terzo l’analisi fu di maggiore durata. Il suo caso credo di averlo a suo tempo già narrato da qualche parte.
Qui voglio soltanto occuparmi di una sua sintomatologia particolare. Si tratta di un complesso cerimoniale riguardante il rincasare serale e il coricarsi per la notte.
Per cerimoniali si intendono serie fisse di comportamenti, a cui un individuo si attiene in determinate circostanze.
La fine della giornata, e la chiusura della propria attività nell’imminenza del riposo notturno, implicano determinate operazioni che, per una stessa economia di comportamento, tendono ad automatizzarsi.
Se si chiede ad una persona: «Tu, quando la sera vai a letto, che cosa fai precisamente?», l’interpellato magari neppure sa che cosa rispondere. Oppure dice di non farci caso, di non ricordare; e che insomma fa quello che è necessario per infilarsi nel letto e dormire.
Non ci sono problemi. Tutt’al più c’è la questione dell’automatizzazione del comportamento serale. Ma, questa del rendere automatiche le nostre azioni, è una questione generale.
Quando determinate operazioni, in circostanze date, vengono ripetute, si automatizzano; così da risparmiare una persistente attività decisionale.
Accade tuttavia che questi comportamenti semiautomatizzati si arricchiscano di elementi non necessari per la finalità a cui sono rivolti, e che acquistino una loro fissità, per cui, se non vengono attuati secondo uno schema stabilito, debbono essere ripetuti. Ed eventualmente ripetuti più volte, con un determinato ritmo. Diventano in tal caso cerimoniali ossessivi.
È talora possibile individuare un significato o una intenzione, nelle caratteristiche che un cerimoniale ossessivo viene assumendo: ed esso può allora essere trattato come un sintomo nevrotico, suscettibile di venire analizzato perché risulti il suo significato. Un significato allusivo, che viene ad aggiungersi alla finalità originaria del comportamento.
Il cerimoniale serale dell’ex allievo del Massimo consisteva in una serie di operazioni, di apertura e chiusura di tutti gli interruttori, sia elettrici, che di porte e rubinetti (acqua e gas) esistenti in casa. Tali procedure dovevano essere ripetute più e più volte. Inoltre vi erano altre operazioni, fra le quali avevano maggior spicco le seguenti: il dover bere tutta l’acqua di una grossa caraffa, ed una sistemazione del pigiama da notte, tale che, ruotando i pantaloni all’altezza della cintura, l’apertura del pigiama venisse a trovarsi di lato e non davanti alla persona. Questo comportamento poté essere compreso con la tecnica normale dell’analisi; risultò allora chiaro il suo significato simbolico. Era collegato ad una storia di contrasti infantili col fratello minore di un anno.
Quand’erano ancora bambini, quest’ultimo soleva prendere in giro il fratello maggiore, che soffriva di enuresi notturna.
Nel cerimoniale serale del mio paziente, la ripetuta e controllata apertura e chiusura di ogni rubinetto, o apparato equipollente, esistente in casa, significava una assicurazione di non lasciar via libera al proprio apparato di minzione. Eguale significato aveva la posizione fatta assumere ai pantaloni del pigiama.
La grande quantità d’acqua ingerita esprimeva il pensiero: «Posso bere quanta acqua voglio, senza che mi accada l’incidente di bagnare il letto».
Raggiunta questa spiegazione, il paziente si accinse a liberarsi dal cerimoniale ossessivo, rinunciando alle varie operazioni prima eseguite: le quali, nel loro insieme, richiedevano ben più di un’ora.
Quando però, tre giorni dopo la decisione presa, tornò da me per la seduta, arrivò nel mio studio in preda all’orrore.
Aveva avuto, durante la notte, la visione (telepatica, egli diceva) del fratello – che in quell’epoca prestava servizio militare in un reparto di carri armati – sfracellato (egli diceva: lacerato) sotto i cingoli di una di queste macchine da guerra.
La visione si era prodotta durante la notte, ed egli aveva cercato al mattino presto di mettersi in contatto telefonico con il reparto dove il fratello prestava servizio, per avere sue notizie.
Tutto per vendicarsi del fatto che, quando erano ancora bambini, il fratello gli aveva dato del piscia-in-letto?
No, c’è dell’altro. Fatti più recenti.
Nell’ultimo periodo di guerra, la sua famiglia si era rifugiata in un paese dell’Appennino toscano, per attendere là che avvenisse il passaggio del fronte. In una villa accanto c’erano pure altri conoscenti, tra i quali una graziosa ragazza. Di questa egli si era innamorato, e riteneva di essere ricambiato.
Una notte si ebbe una incursione dell’aviazione americana, e il luogo fu bombardato, benché non fossero più presenti militari tedeschi.
La villa della ragazza fu colpita da una bomba incendiaria, e si svilupparono alte fiamme.
Gli occupanti fuggirono all’aperto. Ma la ragazza, presa dal panico, rimase intrappolata, correndo il rischio di divenire vittima dell’incendio.
Il mio paziente e i suoi familiari erano accorsi alla villa vicina in fiamme; egli però rimase impietrito di fronte alla vista dell’incendio.
Il fratello minore invece entrò coraggiosamente nella villa, e riuscì a portar fuori in salvo la ragazza.
Ci furono le conseguenze che si potevano prevedere. Lei si legò affettivamente al proprio salvatore. E il paziente si vide così soffiar via la sua bella da parte del fratello.
Esiste un rapporto fra l’enuresi infantile e l’episodio della ragazza salvata dalle fiamme?
Sembrerebbe di no. E invece sì.
Gli psicoanalisti in genere, e Freud in modo specifico ed esplicito, hanno constatato che, nei sogni, si verifica una certa connessione fra scene di incendio e minzione.
Nel caso particolare di questo paziente, è alquanto difficile rintracciare un legame logico fra i suoi disturbi infantili e l’episodio recente della fanciulla salvata dalle fiamme. Ma i processi psichici inconsci trovano tante vie per stabilire collegamenti, e non si può escludere che il sintomo ossessivo, esprimente l’aspirazione a dimostrarsi padrone del proprio regime idrico (ed ora mi viene in mente il Magistrato delle acque che dal tempo della Repubblica esiste a Venezia), sia stato anche sopradeterminato dall’episodio della fanciulla minacciata dalle fiamme.1
Comunque l’aggressività verso il fratello, esplosa (quando i vari sintomi ossessivi sono stati inibiti) con l’attesa delirante della notizia della sua morte sotto i cingoli del carro armato, risulta in modo chiaro sotto il manto di atteggiamenti affettuosi e premurosi, quali convengono ad ogni persona civile.
L’amore fraterno! Che cosa si nasconde dietro questa espressione convenzionale!
Gli onirologi greci avevano intuito la componente aggressiva che si annida nei sentimenti provati verso i fratelli. E Artemidoro di Daldi afferma che sognar fratelli significa sognare nemici.
Ma che cosa posso trarre io stesso dalla mia autobiografia, per suffragare l’interpretazione delle vicende di questo antico paziente?
La possibilità c’è. E ne ho ampiamente parlato in uno scritto riguardante un mio sogno abbastanza recente.
Ne riferirò brevemente la trama e ciò che ne ho potuto ricavare.
La scena onirica è essenzialmente questa.
Nell’oscurità della notte, vedo mio fratello (morto, poco più che ventenne, sessant’anni fa) che si avanza verso di me, brandendo un coltello nascosto dietro la schiena. Viene per pugnalarmi, ed io mi rifugio spaventato accanto a mia madre, anch’essa da molti anni defunta.
Trascuro la narrazione degli elementi recenti che hanno dato materia alla scena del sogno, e riferisco invece i vari pensieri che mi si son presentati, quando ho cercato di capirne il significato nascosto.
I rapporti con mio fratello, nel periodo della mia adolescenza e giovinezza, fino a quando egli morì, furono apparentemente assai buoni. Ma ho dovuto persuadermi che, in modo per così dire sotterraneo, sono stato geloso di lui, senz’altro prediletto dai miei genitori. Come sono stato geloso di un altro fratellino nato prima di me, e morto bambino, che i miei genitori mi hanno sempre ricordato come un bambino prodigio, mentre io ero considerato un ragazzino alquanto ritardato, che dava scarse soddisfazioni.
Ho avuto anche un cuginetto, della mia precisa età, e mio compagno di giochi, che pure è morto bambino.
In tal modo, nella grande famiglia patriarcale dei discendenti dai miei nonni paterni, tutti abitanti in case contigue in campo Santa Maria del Giglio a Venezia, dei quattro maschietti, nati nel giro di tre o quattro anni, io che – fisicamente e mentalmente – apparivo il più fragile, sono sopravvissuto agli altri, giungendo a questa mia tarda età.
Gli altri tre – prediletti nel gruppo familiare – io nella mia fantasia li ho fatti fuori, acquistando il piglio spavaldo e un po’ prepotente, che mi è stato proprio.
Ed ecco che, nel buio della notte, giunge vendicatore, con un volto ed un’età non definiti, mio fratello.
Era morto dissanguato per una emorragia interna, dopo aver subito un’estrazione di sangue dal cavo toracico.
Giunge ora con un coltello nascosto, per piantarmelo nella schiena, così come nella schiena era stato colpito egli stesso.
Ed io, Caino colpevole – quanto il paziente arrivatomi tanti anni fa dal Collegio Massimo –, mi rifugio, come quando ero bambino, fra le sottane e dietro la figura di mia madre, in cerca di protezione e salvezza.