Una sola notte in un «Lager»
Nel 1948, dopo diciassette anni da quando per la prima volta avevo vinto un concorso universitario, senza però ottenere la cattedra, ho potuto, con un nuovo concorso, essere nominato professore di Psicologia nell’Università di Milano.
Con la mia famiglia avevo passato un lungo periodo di difficoltà. Liberato ora da queste, mi accinsi in estate a portare moglie e figli in villeggiatura.
Andammo a Steinach, nel Tirolo, poco oltre il Brennero.
Là, in una sera d’agosto, incontrai una giovane dottoressa romana, mia conoscente.
Sapevo che durante gli ultimi anni del fascismo, appena laureata giovanissima, era stata arrestata dalla polizia fascista, perché indiziata di attività contro il regime, e poi consegnata – in quanto di religione ebraica – ai nazisti, e deportata ad Auschwitz. Si era salvata ed aveva potuto, alla fine della guerra, rientrare in Italia.
Le chiesi come mai era venuta a Steinach. Ed essa mi rispose che aveva voluto rifare il percorso per cui, in vagone piombato, era stata portata dall’Italia al campo di sterminio.
Era angosciata. Steinach era la prima stazione in territorio tedesco, dove il treno, che la portava via dall’Italia verso un destino allora ignoto, si era fermato. E qui aveva voluto anche ora fermarsi e scendere.
Ebbi l’impressione che avesse bisogno di parlarmi. Mi conosceva per il mio mestiere, e mi adottò subito come ascoltatore.
All’albergo dove pernottava era annesso, a pian terreno, un caffè: che rimaneva aperto anche a notte inoltrata. E lì ci fermammo a parlare fino alle tre del mattino.
Così essa mi narrò l’intera sua vicenda, ed i particolari della sua vita nel Lager.
Mi descrisse l’ambiente, le compagne di prigionia, e il vario comportamento di queste. Soprattutto la tendenza a lasciarsi andare: per disperazione, per incapacità a conservare la propria identità di persone civili, per la convinzione che era inutile tentare di resistere a condizioni inumane di vita. Perfino l’arresto delle mestruazioni – che si produceva in tutte nelle prime settimane dopo l’arrivo, per la scarsità dell’alimentazione, ma forse anche per fattori d’ordine psicologico – concorreva a creare una atmosfera di disumanizzazione. Era difficile lavarsi e mantenersi pulite. Ma per lo più le stesse scarse possibilità esistenti venivano lasciate cadere.
Essa aveva deciso che sarebbe sopravvissuta e che sarebbe tornata a casa. Mi raccontò proprio che si era impegnata con se stessa in questo senso.
Meticolosamente fece tutto quello che era possibile per conservare una propria dignità: per restare cioè una persona e non soltanto quel numero che le era stato impresso sull’avambraccio.
Poco prima di essere arrestata, aveva conseguito la laurea in medicina, e medico si era dichiarata ai suoi carcerieri.
Fu allora messa a disposizione del medico del Lager. L’assistenza sanitaria era pressoché nulla. Più che altro si trattava di constatare le morti e di isolare malate che avrebbero potuto contagiare altre recluse.
C’era sì un’altra cosa importante e orrenda. Individuare le donne ormai inidonee a svolgere i lavori assegnati, per debolezza, per malattia, o per incapacità.
Il destino di queste era costituito dai «bagni». Di cui nel campo si sapeva che erano camere a gas.
Le selezioni venivano fatte dal medico del Lager. Ma egli aveva ordinato a lei di aiutarlo nell’opera di selezione.
Quando inorridita fece cenno di rifiutarsi, le disse che se non avesse collaborato, sarebbe stata lei stessa compresa nella lista delle donne destinate all’eliminazione.
Mentre mi raccontava questo, fu presa dall’angoscia.
Dovetti farle bere qualcosa di forte, perché potesse continuare a parlare.
Intanto io soffrivo le pene dell’inferno. Perché c’ero anch’io nel Lager.
L’abitudine di convivere con i pazienti (a quell’epoca cominciavo ad averne) agiva anche là, nell’alberghetto di montagna di Steinach, ed io mi sentivo nell’atmosfera del Lager, ed ero oppresso dall’orrore.
Lei continuò imbarazzata a parlare.
Sapeva poche parole di tedesco, ma si era sforzata per aumentare le proprie possibilità di comunicare in quella lingua.
Giunse a dire, al medico da cui dipendeva, alcune parole gentili: di saluto, di augurio, di amicizia. Ed egli corrispose.
No, no, no. Nulla ci fu, all’infuori di qualche breve frase e di qualche sorriso.
Ma nello squallore estremo di quelle condizioni di vita, quel filo di umanità acquistava un senso.
Quando molti anni dopo ho veduto il film della Cavani Portiere di notte, mi sono ricordato delle frasi con le quali la giovane dottoressa mi aveva narrato – in quella notte per me tragica – la propria storia e i suoi rapporti col medico del Lager.
Alcuni mesi fa, a Roma, ho incontrato la dottoressa, che ora è un’anziana signora. Ci siamo fatti, l’un l’altro, molta festa. Ed io, che avevo in animo di raccontare la storia della nostra notte di Steinach, glielo comunicai. Vidi che lei restava un po’ smarrita, ma non ci feci caso.
Ritornato a Milano, mi sentii il giorno dopo chiamare al telefono da lei.
«Senta professore, mi ha fatto molto piacere incontrarla ieri qui a Roma. Però non ho capito a che cosa lei si riferisse col suo discorso». Le spiegai che mi riferivo alla notte di Steinach. Lei allora obbiettò: «Ma io non sono mai stata a Steinach!».
Replicai: «Nell’estate del ’48, quando lei volle ripercorrere la strada per la quale l’hanno portata ad Auschwitz».
«Sì certo, sono stata portata ad Auschwitz, ed è stato un vero miracolo se sono sopravvissuta ed ho potuto ritornare a casa. Ma non ho mai rifatto quel viaggio, e non sono mai stata nel luogo di cui mi parla lei».
Non era il caso di insistere. E poi per telefono era difficile spiegarsi.
Però quella notte a Steinach, mica posso essermela inventata io.
No. Quella notte essa deve essersi scaricata di un’angoscia, esplosa quando al Brennero aveva passato la frontiera, per ritrovarsi nell’ambiente di lingua tedesca.
Si era scaricata, dimenticando poi tutto.
Ed è come se il ricordo di quella notte di rievocazioni lei lo avesse lasciato a me.
Perché io quella notte nel Lager ci sono stato. Ed ho conosciuto (fino ad essere capace di rappresentarmelo visivamente) l’ufficiale medico, gentile fino ad essere galante, ma insieme freddo esecutore di ordini inumani. Ed ho veduto i tavolacci, i giacigli, dove le donne ridotte a scheletri si coricavano ammassate, e i pidocchi, e l’acqua fetida, e le radici date come nutrimento, e la sporcizia, e poi la ferocia delle kapò, modelli di identificazione con l’aggressore.
Per una notte sola.