Sogno e realtà*
Vi è un atteggiamento tradizionale per cui la realtà, la solida realtà, è quella che conta, mentre tutto ciò che è pura apparenza, o soltanto sogno, viene deprezzato e considerato tale da non prendersi in considerazione.
Quando nel secolo scorso si ebbero i primi tentativi per la fondazione di una psicologia su base scientifica, la preoccupazione di coloro che in quel tempo si chiamarono psicofisiologi, e poi psicologi sperimentalisti, era quella di costruire una disciplina che avesse possibilmente i caratteri stessi delle scienze riguardanti il mondo fisico.
Talora sorgevano dubbi circa questa possibilità. Porto un esempio che in qualche modo coinvolge anche la mia persona.
Un filosofo, Antonio Aliotta, mio Maestro nell’Università di Padova, che aveva avuto anche una formazione psicologica alla scuola di De Sarlo a Firenze, e a cui sono rimasto molto affezionato, scrisse, verso il 1910, un’opera, La misura in psicologia.
In essa sostenne che, mentre si possono ottenere misure dirette delle quantità fisiche, nel campo psicologico le misure sarebbero sempre indirette, e fondate sopra convenzioni in certo modo arbitrarie. Tesi che – come spesso accade nei rapporti tra allievo e Maestro – io cercai più tardi di confutare: sostenendo che anche nelle scienze fisiche le misure hanno carattere convenzionale, dato che soltanto la numerazione è un’operazione diretta, pur essendo in quanto tale puramente definitoria. Mentre qualunque applicazione di elementi numerici, ad entità di ogni specie, verrebbe sempre operata attraverso una convenzione – nella sfera fisica esattamente come in quella psichica – per cui non esistono differenze fra l’una e l’altra specie di misura.
In una psicologia che voleva imitare la fisica, e magari la meccanica razionale, il sogno non aveva posto. E del sogno difatti gli psicologi dell’Ottocento non si sono seriamente occupati.
Ciò spiega il fatto che, quando Freud alla fine del secolo scorso, o all’alba di questo, pubblicò la Traumdeutung, questa non fu presa in alcuna seria considerazione.
Si deve dire che di ciò Freud stesso è in parte responsabile. Per quella che avrebbe potuto essere una sottile ironia, ma che si rivelò invece una ingenuità, quando intitolò l’opera sua appunto Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni). Titolo che corrispondeva a quello usato in lingua tedesca per i tradizionali Libri dei sogni: destinati alle vecchiette, che dai sogni volevano trarre presagi per l’avvenire, o ai giocatori di lotterie, ansiosi di ottenere lumi per le loro giocate.
Ne derivò un totale insuccesso del libro, di cui nei primi tre anni furono vendute meno di trecento copie, e che impiegò poi otto anni (fino al 1908 dunque) perché fosse esaurita l’edizione di sole 1500 copie.
Gli psichiatri dell’epoca qualificarono l’opera (senza neppure averla letta, come poi confessarono), uno sciocco tentativo di spiegare le malattie mentali, ricorrendo ai sogni: con i mezzi dunque delle fattucchiere e dei sedicenti maghi, i quali all’interpretazione dei sogni ricorrevano per dare responsi ai loro clienti.
Dietro questa incomprensione per l’opera di Freud, sta il generale convincimento – diffuso appunto in quell’epoca – che i sogni siano qualche cosa di inessenziale: pleonasmi della vita psichica, prodotti casuali di una attività mentale abnorme e priva di alcun solido appiglio alla realtà.
Non ha senso cercare un senso in ciò che non ha alcun senso.
Egual sorte ebbero, fino a pochi decenni fa, i deliri degli alienati, ed ogni manifestazione che venga qualificata irrazionale dell’attività mentale.
Io non appartengo all’Ottocento. Tuttavia nell’Ottocento sono nato. E ho presente questa svalutazione dell’irrazionale, o anche possiamo dire del sogno, e di tutti i prodotti del pensiero che al sogno possono essere collegati.
Prima ancora di essere istradato verso la psicoanalisi e l’attività analitica, negli anni venti, quando – reduce di guerra – ero studente e poi assistente nel Laboratorio di Psicologia dell’Università di Padova, mi interessavo molto a questo problema: del razionale e dell’irrazionale. E scrissi anche un breve lavoro: Funzione logica dell’irrazionale.
In sostanza sviluppavo là il concetto che quanto noi giudichiamo irrazionale non è spazzatura da buttar via, per il fatto che sembra non rientrare negli schemi della ragione. E che esso ha invece una propria funzione, anche nei confronti di una concezione razionalistica della realtà.
In quell’epoca pubblicai pure un libretto: Analisi del concetto di realtà empirica. Vi sostenevo alcune cose che oggi forse sono pacificamente e generalmente accettate, ma che allora invece costituivano affermazioni estranee alla mentalità degli studiosi.
Analizzavo il concetto di realtà, sia per ciò che riguarda la realtà fisica, e cioè quella del mondo esterno, che per la realtà psichica, ossia per quanto di reale postuliamo come costitutivo della nostra personalità spirituale. E trattavo tali concetti come prodotti di una costruzione, effettuata con un processo di razionalizzazione.
Perché questo parallelismo tra realtà fisica e realtà psichica?
Perché mi sembrava necessario determinare l’attività mentale, attraverso la quale, sopra i dati immediati dell’esperienza (sia esterna che interiore), noi costruiamo la realtà del mondo fisico, e quella della nostra personalità individuale.
La realtà dunque contrapposta agli elementi fluttuanti di una esperienza ancora disorganizzata: specie di nuvolosità cangiante, quale noi possiamo osservare nella volta del cielo, non coagulata, consolidata e pietrificata da una costruzione di realtà.
Ciò che ha la consistenza della nuvola, ed un aspetto amebico, sembrava non prestarsi ad essere trattato come oggetto di scienza.
Ecco perché una scienza dei sogni, una onirologia, sembrava una contraddizione in termini: una impresa impossibile.
E non si tratta di sogni soltanto, di quei sogni cioè che ci può capitare di fare di notte, mentre dormiamo, ma anche di tutto quello che non rientra nella sfera della realtà razionale. E dunque pure la fantasticheria, e il delirio.
Ricordo bene quando da giovanotto bazzicavo – specialmente a Roma, al seguito di Sante De Sanctis – per gli ospedali psichiatrici (o manicomi, come ancora venivano chiamati), e gli psichiatri del tempo mi illustravano le bizzarrie degli ammalati: sorridendo, con atteggiamenti di scherno, come per dire: «il matto è lui, non sono mica io». Senza alcun tentativo per comprendere il perché di quelle bizzarrie, e il loro significato.
Non potevano, secondo il giudizio di allora, avere un significato.
E per contrasto, penso ora al libro recente dell’amico dottor Arrigo Lucchin, La tana degli specchi. Dove l’autore, dalla sua esperienza di medico di ospedale psichiatrico, ricava il materiale per un’opera, che non soltanto ha un proprio pregio artistico, ma che contiene quella che può apparire una scoperta. «La scoperta», ho affermato in una presentazione di questo libro, «della somiglianza fra la condizione del malato delirante, e quella del poeta, o del creatore di fantasie. Fantasia che significa ancora, non legata alle norme, alle leggi, di quella che si suol dire la realtà».
Ma allora: realtà, o non realtà?
Nel parlare del libro di Lucchin ho detto: «realtà della fantasia, del sogno e del delirio, contrapposta alla realtà razionale». E avevo anche aggiunto: «Vi è pure una realtà dell’irrazionale».
Ecco che il titolo che ho qui usato sembra errato.
Sogno e realtà. Ma pure il sogno e i suoi parenti (la fantasticheria, le associazioni libere, il pensiero dell’alienato) posseggono una loro realtà. Pur se non quella della realtà reale, organizzata razionalmente, e così consolidata. Ma invece quella delle nuvole, abbiamo detto. E cioè non ischeletrita e pietrificata, come la realtà riconosciuta dal senso comune.
Questo allargamento del concetto di realtà non dovrebbe più scandalizzare, alla luce del pensiero moderno.
Non siamo più nell’epoca del realismo ingenuo, e neppure al tempo del vecchio realismo scientifico.
Se consideriamo i caratteri assunti dal pensiero scientifico attuale, ci rendiamo conto che l’immagine della realtà è in continua trasformazione.
Come è noto, Freud negli ultimi suoi scritti ha abbandonato il concetto di interpretazione. Sostituendolo con quello di costruzione. Costruzione di realtà dunque.
In tal modo egli ha assunto una posizione corrispondente a quella di tutto il pensiero scientifico moderno, e alla dottrina dei modelli. I modelli sono appunto costruzioni: la cui validità è sempre provvisoria. Perché i modelli non riproducono una postulata realtà che esista per se stessa, ma sono soltanto sistemazioni della realtà medesima. E hanno un valore euristico, potendo sempre – ove ne emerga la necessità – venir mutati. Costruzioni nostre dunque, per usare il termine di Freud, valide finché nuove esperienze non ci costringano a mutarle.
La realtà e il sogno (in esso comprendendo ogni prodotto soggettivo) non appaiono più fra loro in contrapposizione.
E mi torna ora in mente qualche cosa di cui mi sono già occupato altrove: e cioè la strana situazione verificatasi a metà del Seicento: quando contemporaneamente, benché non ci sia stata tra essi alcuna comunicazione, due grandi spiriti di quell’epoca, Calderón de la Barca e Cartesio – rispettivamente nella Vida es sueño e nel Discorso sul metodo – si sono posti entrambi il problema di ciò che può distinguere la realtà dal sogno.
Sembra un paradosso. Ma la distanza fra sogno e realtà appare oggi minore di quanto non fosse ai tempi di Calderón e di Cartesio.
Non ovviamente nel senso del dilemma: «Sogno o son desto?». A questo dilemma ognuno sa rispondere agevolmente, almeno quando è di fatto sveglio.
Ma nel senso che da un lato la stessa realtà, e cioè il mondo in cui conduciamo la nostra vita, e che il pensiero scientifico insieme esplora e costruisce (se teniamo conto che la realtà nei suoi aspetti, connessioni e rapporti viene proprio costruita da noi), e dall’altro tutti i prodotti di tipo oniroide, e quindi pure quelli della fantasia, dell’arte, e anche del delirio e della follia, non sono cose fra loro molto differenziate e distanti.
Si può parlare di una realtà della fantasia, e di una soggettività del mondo reale.
Ora però mi assale un dubbio. Il dubbio di avere, con quanto ho detto qui, distrutto il problema stesso che mi ero posto: Sogno e realtà. Perché mi pare di avere vanificato la contrapposizione. Di aver dunque ridotto la realtà stessa a un sogno, e di aver fatto rientrare il sogno nella realtà.
Forse mi sono proprio avviato per una strada sbagliata.
Anziché sottolineare ciò che differenzia il sogno dalla realtà, mi sono affannato a identificare le due sfere, o i due mondi.
E come rimedio adesso? Prendo fiato; e imbocco una strada diversa: non per percorrerla, ma per accennarla soltanto.
Trascuriamo dunque quanto può ricondurre una delle due sfere all’altra, e prendiamo invece in considerazione ciò che ci costringe a distinguere, e a distinguere nettamente, le due sfere.
Per questo possiamo utilizzare i diversi comportamenti che gli uomini possono avere, nei confronti di queste entità contrapposte.
C’è chi vive di realtà, e chi vive di sogni. C’è chi trascura tutto quello che esula da quanto non ha la consistenza, la solidità e la durezza della realtà, disdegnando le fantasie, i sogni, le immagini dell’arte e i prodotti della scatenata follia.
E chi invece ama convivere con questi prodotti di un pensiero libero, rispetto agli imperativi della ragione; colui cioè che proprio vive di sogni e di immagini. E non teme, oppure è addirittura da forze oscure costretto a rompere gli ormeggi dalla solida terra della realtà razionale, per lasciarsi sospingere dai venti e dalle onde, nell’ampio oceano: del sogno, dell’arte e della follia.
La contrapposizione allora cessa di essere teoretica. E appare soltanto psicologica. Con la possibilità ovviamente di passare dall’uno all’altro elemento della contrapposizione.
E quindi per l’uomo d’affari di farsi poeta ed individuo fantasioso, quando la malattia addirittura non lo porti fuori completamente dalla sua vita abituale, per trascinarlo in mezzo ai fantasmi della follia. E per il poeta o l’artista, si ponga il compito di tutelare ad esempio presso un agente finanziario, i propri interessi economici.
Riducendo allora il dilemma a due opposte posizioni spirituali, che in definitiva possono, in molte diverse proporzioni, coesistere in ognuno di noi.