Chi ha paura del lupo cattivo?*
Normalmente la paura si produce, ed è anzi provocata, dalla rappresentazione di un pericolo; ci sono tuttavia paure dove il pericolo è puramente immaginario, non visibile e non definibile.
Si tratta di quelle situazioni che gli psicologi indicano come stati fobici: agorafobia (cioè paura dei luoghi aperti), claustrofobia (ossia paura di restar rinchiusi), e ancora altre fobie, come quella per vari animali non pericolosi in realtà. Sfuma inoltre la fobia con stati ad essa apparentati: ad esempio col pudore, o con la timidezza. Perché infatti uno è timido là dove un altro è sfacciatamente disinvolto? Ed uno è pudico, mentre un altro è spudorato?
Differenze di carattere si dice. Va bene.
Ma di che cosa propriamente si ha paura?
Per gli psicologi, gli psichiatri e gli psicoanalisti, il problema è molto importante. La risposta si potrebbe dare subito. Ma essa in nessun caso servirebbe a far scomparire la paura.
Le fobie (queste paure che il resto della gente non comprende) sono tenaci. La psicoanalisi tuttavia può affrontarle, magari meglio di altre anomalie psichiche.
Racconterò, a titolo di esempio, un caso di cui mi sono interessato.
Si tratta di una giovane signora, bella, elegante, intelligente, laureata e sposata con un collega, già suo compagno di studi fin dal tempo del liceo, con due bambine che vengono su molto bene.
La signora, che è figlia unica, si era in certo modo fidanzata col marito fin dal tempo del liceo. Aveva avuto poi qualche perplessità, ma il ragazzo si era dimostrato così affezionato e premuroso, che essa abbandonò ogni altra fantasia amorosa adolescenziale, per legarsi a lui. Fecero l’università insieme, e avevano progettato non solo di sposarsi, ma anche di svolgere la stessa professione, associandosi nel lavoro.
Invece lei finì con l’annoiarsi delle cose di cui si occupava il marito. Si erano laureati entrambi in legge, ma lei non seguì la carriera del coniuge.
Non aveva bisogno di lavorare e si occupava delle due figlie. Tuttavia questo non le bastava. D’altra parte aveva cominciato, in seguito ad un episodio del tutto banale, a sviluppare una forma di agorafobia, che si fece progressivamente più intensa.
L’episodio banale è questo. Si era recata in una farmacia vicina a casa per acquistare comuni pastiglie contro la tosse. Ma era arrivata nel momento in cui la farmacia stava chiudendo, e vide così abbassare la serranda del negozio davanti a sé, nel momento in cui stava per entrare.
Le passò allora per la mente l’idea: se io ora mi sento male, non posso ricorrere a quella farmacista, che in qualche modo è la rappresentante della custodia della salute. E si sentì male subito, così da essere costretta a fermarsi ed a sedersi sui gradini esterni della farmacia, piena di angoscia, col cuore in tumulto e l’impressione di morire. «Muoio! Muoio!», si mise a gridare.
Da allora non uscì più di casa sola. Aveva bisogno che la madre, o il padre, l’accompagnassero, anche per fare pochi passi.
Avevo avuto fin da principio l’impressione che lei avesse sposato il marito sotto forma di una continuazione della loro amicizia di ragazzi, e non per lo sviluppo di un vero amore, da persone giovani emotivamente maturate.
Non mi azzardavo ad affrontare l’argomento, per non essere io a spingere la signora ad un atteggiamento ostile nei confronti del marito.
Questi era un buon uomo, ma molto meno brillante della moglie.
Un giudizio di questo genere lo formulavamo, in qualche modo, tanto io quanto la signora, ma nessuno dei due ne parlava.
La cosa si sbloccò fra noi in un modo molto curioso.
Da certi vaghi accenni della paziente fui indotto un giorno a chiederle: «Ma lei, quando (sia pure accompagnata come sempre da qualcuno di cui abbia fiducia) esce dalla porta di casa, che cosa fa subito?».
«Ah», rispose lei. «Sa che cosa faccio? Mi guardo intorno, e mi chiedo se qualcuno mi osserva».
«Qualcuno? Una persona qualsiasi?»
«… No, mi vergogno a dirlo, ma guardo se c’è un uomo giovane che mi stia osservando».
Se sul posto l’uomo giovane c’era effettivamente, la guardava di certo, perché era una gran bella giovane signora, sempre elegantissima nel vestire. Attirava quindi l’attenzione. Di tutti, ma ovviamente in modo specifico dei giovanotti.
Fu questo piccolo spiraglio che aprì la via per ricostruire l’intero caso.
La signora aveva fatto un matrimonio da ragazzi; si era poi resa conto che il marito era un buon uomo, ma tuttavia modesto.
Le si era risvegliato il desiderio di un amore più vero e più maturo. Sapeva di possedere le qualità per poter aspirare a questo. Ma era insieme terrorizzata all’idea che le potesse accadere di tradire il marito.
La paura della strada, dell’essere sola per la strada, era soltanto timore di trovarsi nelle condizioni di cedere alla fantasia di avventure amorose con qualcuno che non fosse il marito e che più corrispondesse alle esigenze affettive di una giovane donna bella, intelligente e colta.
Mentre prima i suoi sogni erano rari e poco comprensibili, questa spiegazione, datale con cautela, riuscì a modificare la situazione.
Mi raccontò pure un episodio che confermava ogni cosa.
Un giorno per la strada fu presa dal solito attacco d’angoscia. Fece per tornare a casa, di corsa, e … prima di giungere alla propria abitazione cominciò, per la via, a spogliarsi: in apparenza, come per giungere più presto nel porto sicuro, ma effettivamente realizzando in extremis il proprio esibizionismo, così da arrivare in sottoveste al portone.
Si stava dunque denudando per via. Per quella strada che le metteva tanta paura.
Dopo le spiegazioni alle quali siamo insieme pervenuti, si scatenò in principio una forte aggressività verso il marito. Tutti i suoi difetti vennero a galla, suscitando sgradevoli reazioni in lei. Poi finì coll’equilibrarsi.
Per quanto riguarda il marito, pur vedendolo ora con occhi diversi da prima, si rese conto che, anche se persona non di spicco, aveva suoi valori: svolgeva un lavoro assolutamente di routine, ma in una professione molto redditizia, che gli permetteva di soddisfare completamente le esigenze familiari. Ed era possibile anche volergli bene, per la dedizione verso la moglie e le figlie, e l’impegno con cui esplicava la propria attività.
Quanto alle ambizioni della signora, facesse lei quello che credeva: sia come attività di lavoro, se questa l’attraeva, sia per il suo comportamento diciamo così sociale ed anche affettivo. Queste erano cose per me estranee e che riguardavano lei soltanto.
A me spettava liberarla dalla sua agorafobia, e insieme ridarle fiducia, anche nei rapporti col marito. Questi non corrispondeva alla figura ideale che lei si era fatta da adolescente, spingendola al fidanzamento, ancora bambina, si può dire. Ma era, come si è detto, un buon padre di famiglia, dedito a lei e alle due bambine, e poteva essere accettato come marito dalla signora: la quale tuttavia avrebbe potuto conservare una propria libertà, svincolandosi da certe concezioni tradizionali, e mettendo a frutto le proprie possibilità intellettuali per realizzarsi nel modo a lei più congeniale.
Si è tirata fuori dalla propria agorafobia, accettando una diversa e più moderna concezione della vita in genere, e della vita matrimoniale in ispecie. Non per seguire un consiglio mio (che non mi sarebbe stato lecito dare), ma per una autonoma maggiore libertà di valutazione e di giudizio sulla propria vita.
Penso che potrà essere felice con le figlie, e anche con il marito, rivendicando però a se stessa una certa libertà. Senza avere paura.
Ma la paura per che cosa l’aveva?
Aveva ovviamente paura di se stessa. E ciò è caratteristico per ogni agorafobia. L’agorafobia è paura della libertà, paura di se medesimi.
Prima di congedarmi qui dalla storia di questa paziente, voglio accennare a un lapsus commesso dalla signora dopo la fine dell’analisi.
Doveva ordinare per telefono, alla sua drogheria, due qualità di riso. Indicò correttamente la prima; poi aggiunse, utilizzando in modo distorto la denominazione della seconda qualità, confezionata in una scatola azzurra: «E poi mi mandi un principe azzurro».
Un altro paziente, anch’esso guarito e che anzi fa attualmente l’analista, un giorno, mentre era in analisi, venne terrorizzato a dirmi che, passeggiando con il figlioletto per mano sul marciapiede di corso Buenos Aires a Milano, era stato colto da angoscia. Gli era venuta con terrore l’idea che se avesse dato una spinta al bambino, buttandolo fuori dal marciapiede in mezzo alla strada, dove le macchine passavano a grande velocità, avrebbe fatto sfracellare quel suo bambino dalle vetture in corsa.
Fu preso dal terrore. Ma di che cosa aveva paura? Di se stesso, ovviamente. Aveva bisogno che qualcuno lo difendesse dagli impulsi aggressivi verso il figlio, che agivano dentro di lui.
Ed ecco un altro caso.
Ho avuto occasione molti anni fa di curare analiticamente un agorafobico, che abitava a Venezia, mentre io allora risiedevo a Padova.
Durante le vacanze estive, per non interrompere l’analisi, egli volle andare in villeggiatura in montagna, nel paese stesso dove io passavo le vacanze con la mia famiglia. Era una cosa del tutto contraria alle regole dell’analisi, ma non potei vietargliela.
Era abituato, a Venezia, a portarsi a letto d’estate, in rapida successione, parecchie signore straniere, giunte sole nel nostro paese in cerca di ardenti italiani, da alternare ai freddi e poco efficienti mariti, lasciati a passare l’estate nelle loro dimore settentrionali.
Era venuto in montagna con una nordica adultera.
Lo avevo avvertito: per una corretta continuazione della cura, era del tutto inopportuna la promiscuità che si sarebbe stabilita tra la mia famiglia e lui stesso, per gli inevitabili incontri nel piccolo paese.
Però, come ho detto, non potei impedirgli di venire dove mi trovavo io, e così ci salutavamo correttamente per la strada quando, accompagnati, ci incontravamo. Ci trovavamo poi, in separata sede, per le sedute analitiche.
Era un agorafobico, e insieme un dongiovanni. E agorafobico perché dongiovanni. Anch’egli aveva paura di se stesso e di tutto quello che avrebbe potuto fare in campo amoroso, e che poi effettivamente faceva, malgrado la paura, e continuando ad avere paura.
Mentre eravamo in montagna, ed egli si dedicava ai suoi amori quasi in mia presenza, gli si sviluppò improvvisamente una nuova fobia: quella che si chiama tecnicamente acrofobia, paura dell’altezza.
Non poteva più passare davanti al campanile del paese: che gli pareva altissimo e pauroso.
Paura questa volta del campanile. Simbolo fallico. Simbolo di un fallo in erezione, che egli non poteva esibire, senza svelare l’amorazzo colpevole a cui si era abbandonato in mia presenza.
Anche qui, se si va a vedere, oggetto della paura era egli stesso. Egli, ossia il proprio senso di colpa.
Ci si può chiedere: un dongiovanni incallito, uso a tutte le avventure possibili, e che in genere risiedeva in estate a Venezia, proprio perché a Venezia accorrevano in abbondanza le straniere sole e spregiudicate, in cerca del latin lover, aveva paura di se stesso e dei propri impulsi erotici?
Già. Questa è la complicazione della struttura della psiche umana. Uno diventa adulto. Muta le proprie opinioni. Accetta le esigenze che si fanno sentire col maturare del proprio corpo e del proprio spirito, e poi, come un bambino piccino, ha bisogno della mamma che lo protegga dai cattivi pensieri.
Sappiamo che i pensieri non sono né buoni né cattivi, che il nostro intelletto ci indica le vie da percorrere, e che d’altra parte ci sono molti modi di vedere e di giudicare le cose. Comunque, di noi stessi non dovremmo mai avere paura, perché proprio noi regoliamo la nostra condotta: in bene e in male. Tutt’al più possiamo essere più o meno soddisfatti di noi stessi.
Non dovremmo avere paura, perché non ci portiamo dietro la mamma o il papà, o il maestro, con l’emme minuscola, oppure anche il Maestro con l’emme grande: che ci sorvegli, ci castighi e ci minacci.
Di chi allora hai paura?
Di nessuno finché sei una persona sana, equilibrata, e con una personalità unitaria e non scissa: il che poi significa non percorsa da conflitti interiori fra una istintualità prepotente, che non si lascia domare, ed una istanza legislatrice, derivata dai divieti ricevuti nell’infanzia, da genitori e maestri, e qualche volta di origini lontane che risalgono ad avi ed antenati, in abiti borghesi od ecclesiastici.
Il lupo cattivo indicato nel titolo, l’abbiamo dunque dentro di noi.
E la paura del fobico è perciò una paura di se medesimo: che mette in moto tutta una serie di contromisure.
Le quali sono a loro volta fonti di altre paure: paure di secondo grado, potremmo dire. Quando eventualmente ci troviamo di fronte ad una persona che si impone determinate leggi come quella di verificare (non una volta sola, ma un certo numero di volte) che ad esempio il rubinetto dell’acqua sia ben chiuso alla sera. E fa questo ripetendo al caso una certa formula come: Chiuso (e lo chiude), Aperto (e lo apre), e ancora: Chiuso (e lo torna a chiudere), Aperto, e ancora per la terza volta: Chiuso, e poi ancora: Aperto, e infine chiudendolo: Definitivamente chiuso; quando un individuo si comporta in questo modo, egli non è solo un fobico: il quale ha il timore di aver lasciato aperto il rubinetto (ciò che simbolicamente può significare lasciare aperti in se stesso deflussi o scorrimenti di chissà che cosa), ma crea tutto un cerimoniale dove, alla fobia originaria, si aggiunge il timore di non aver provveduto adeguatamente alla misura difensiva: il soggetto non è allora più soltanto un fobico, ma un fobico-ossessivo.
Ha paura di sé. Ma può accadere che proietti al di fuori l’oggetto della propria paura. Il pericolo da interno si fa esterno. Singole persone, a suo parere, lo minacciano. E tutto il mondo si fa nemico. L’individuo non è ora più un fobico, ma uno che si sente perseguitato. Delirio paranoico, pronunciano i medici.
E di volta in volta il persecutore può mutare.
Può mutare perché è come se la propria interiore istanza aggressiva si proiettasse al di fuori, all’intorno.
Al modo stesso che un occhio, colpito in una sua parte da una luce intensa (quella di una forte lampada ad esempio), porta con sé l’immagine consecutiva di quella fonte luminosa, e cioè una macchia nera: una macchia che col girar degli occhi e della persona gli rimane sempre davanti, per modo che l’occhio continua a guardare la macchia e a vederla, in qualunque direzione si sposti, così il fattore persecutorio è dovunque. E l’individuo si sente inseguito. La macchia di cui dicevamo quando è proiettata sopra un oggetto vicino si rimpicciolisce, mentre invece proiettata lontano si ingrandisce a dismisura.
Così è per il fattore persecutorio, che comunque, quale oggetto esterno, ti insegue e non ti dà pace.
Ecco la paranoia. Il soggetto vive nella paura e ritiene che il nemico sia dovunque, ora più ora meno pericoloso.
Sappiamo che il suo pericolo (come il disco nero della immagine), è qualche cosa che egli porta con sé, mentre fuori non c’è nulla. Ma per lui il pericolo è invece esterno. Si sposta e si diffonde. Ha ora carattere meno pericoloso, ora diventa invece una minaccia tremenda ed implacabile.
Ancora dunque un oggetto della paura creato dallo stesso soggetto.
Ho usato una immagine ottica. Ma si comprende che voglio soltanto dire che anche il paranoico, affetto da mania di persecuzione, in realtà altro non fa che estromettere, collocandolo all’esterno, quel qualche cosa che egli ha in sé (il lupo cattivo), il quale soltanto è l’oggetto della paura.
Certo questo caso è più complicato dei due precedenti: più complicato di una semplice fobia, ed anche di un comportamento ossessivo. Ma siamo ancora nella situazione dell’individuo che ha paura di sé.
Nel caso del fobico, si tratta di una persona che teme di fare qualche cosa di vietato, ed ha dunque paura di se medesimo, proiettando questa paura sopra situazioni del tutto banali, le quali simbolicamente lo mettono di fronte a ciò che non deve fare e teme di fare.
Nel caso dell’ossessivo, si tratta di un individuo che mette in opera tutta una serie di comportamenti precauzionali, sempre per il timore di effettuare qualche cosa di proibito, finendo col trasferire sulle misure difensive l’imperiosità che gli viene dal proprio timore di trasgredire ai divieti, e quindi ancora da una paura di sé: o di una parte di sé, della parte giudicata cattiva della propria persona. Ed ecco spuntare il demonio, e lo spirito tentatore: che giustifica le pratiche magico-religiose, gli esorcismi, per tirar fuori dal corpo dell’ossesso il maligno e il male.
E infine il paranoico, che il male ormai sente completamente distaccato da sé: male che su di sé infierisce come venendo dal di fuori. Per cui tutti lo vogliono avvelenare, trarre in un tranello, e perseguitare.
E la persecuzione è sì tenuta e sentita come incombente dal di fuori, ma insieme anche vissuta come qualche cosa di liberatorio. Il fantastico castello che il paranoico costruisce attorno alla propria persona funge da autoflagellazione. La quale dà al paranoico un senso di grandezza. Se tutto il mondo gli è ostile, egli acquista in importanza e potenza.
Qui appare la difficoltà di curare questi paranoici. Non vogliono, nel profondo del loro spirito, venir privati della sofferenza e della persecuzione, in quanto perderebbero quella grandezza per cui si sentono perseguitati.
Sono come autoflagellanti, i quali non rinunciano ai dolori corporei che si procurano e con cui ritengono di conquistarsi il paradiso. Essi pure dunque si flagellano per il timore di perdere la propria santità. Ed hanno paura di sé.
Questa produzione di un comportamento obiettivo a compenso dei propri impulsi temuti lo troviamo anche in persone neppure considerate ammalate, perché il danno che si procurano può ritenersi incidentale, rientrando nei processi studiati come lapsus o atti mancati.
In certo modo simile è pure il comportamento di persone giudicate oneste e per bene, e che improvvisamente commettono (senza uno scopo o un guadagno apparente, o comunque non tale da giustificare l’atto) un’azione condannata dalla legge e dall’opinione pubblica: esse poi si fanno cogliere sul fatto, in modo da attirare effettivamente la reazione altrui. Anche queste debbono in certo modo pagare uno scotto, per qualche inconscio impulso personale di cui hanno paura. Per pacificarsi, hanno bisogno di una persecuzione.
Sempre di noi stessi dunque abbiamo paura.
Naturalmente ci sono anche timori che si generano su basi razionali, prodotti da mali effettivamente minacciati dall’esterno. Da un punto di vista quantitativo però, ciò che più ci spaventa è sempre il nostro io personale: anche se le vicende della vita fanno sì che le minacce interiori e quelle esteriori si intreccino, per modo che una vera distinzione qualche volta non si può neppur fare.
Si potrebbe continuare con le esemplificazioni: fino a tentare di ridurre l’intero quadro della psicopatologia sotto l’unica formula della paura, che ognuno di noi ha, per una parte di se medesimo.
Vorrei ora accennare ad una situazione di cui ognuno, e soprattutto chi ha avuto a che fare con bambini, ha certamente esperienza.
Ricordate il bambino che è in stato di disagio con se stesso, perché in qualche modo si è messo in contrasto con i propri genitori, ed ha creato una situazione di conflitto con loro, senza sapere poi come uscirne, per ristabilire un’atmosfera di serenità, in cui potersi sentire protetto dai familiari e liberato dall’interiore disagio? Lo ricordate quel bambino? Che piange, e che al padre e alla madre che cercano di pacificarlo, dice fra le lacrime: «Sono cattivo, sono cattivo!».
Sono situazioni che ricordo, perché da bambino facevo così anch’io.
Ma questo lo fanno pure gli adulti.
I fanciulli hanno la mamma e il padre che rassicurano, e il piccolo, quando ha ritrovato la protezione dei genitori, liquida il proprio dramma.
Ma gli adulti?
Gli adulti si comportano come il bambino cattivo, abbiamo detto; ma senza i genitori che vengano a pacificarli. Tutt’al più hanno i preti, o gli psicoanalisti, i quali fanno quello che possono; ma costoro hanno di fronte individui maturi e non fanciullini, per cui la faccenda è molto più complicata.
Tenuto pur conto di tali differenze, si pensi dunque al bambino che si lamenta di essere cattivo e ha paura, ed al fatto che siamo un po’ tutti come lui. Abbiamo paura di ciò che dentro di noi contrasta con una certa immagine che ci siamo fatti della nostra persona.
Le altre paure vengono dall’esterno e ce ne difendiamo come ci è possibile.
Ma ognuno ha dunque timore anche di se stesso, di un se stesso che può essere più superficiale o più profondo, più dominabile ed esplorabile, o meno accessibile ad una esplorazione. Quello che sta lì in agguato, il lupo cattivo, e che – a meno di non farci amicizia e conoscenza (come dovrebbe accadere ad uno psicoterapeuta) – è pronto a far scatenare l’angoscia, la quale minaccia di travolgere ciascuno, e di avvelenare a ciascuno l’esistenza.
Ma dove è questo lupo cattivo? E chi è propriamente il lupo cattivo? Dentro di noi abbiamo detto. Ma come?
Freud ai tempi suoi tracciò una mappa della nostra vita interiore. Una mappa che va considerata con cautela. Non può essere certo una riproduzione fotografica di una corrispondente realtà; perché i processi mentali che si svolgono in noi non hanno caratteri spaziali: non c’è un sopra e un sotto, una destra ed una sinistra, un avanti e un dietro. La mappa costruita da Freud è quindi soltanto un modello: che si propone di esprimere spazialmente determinati rapporti (che spaziali ovviamente non sono) fra i vari nostri processi interiori.
Da altri analisti, per render conto di nuovi particolari rapporti, sono state portate modificazioni al modello di Freud. Ed egli stesso aveva prospettato differenti versioni.
Prendiamo dunque il modello più completo da lui immaginato. Esso è ben noto; ma vogliamo ravvivarne il ricordo.
Vi è una parte superiore indicata come l’Io. È ciò in cui ciascuno di noi propriamente si riconosce. Al di sotto appare una zona per cui è usato il termine Es. Es in tedesco è il pronome impiegato per i verbi impersonali. Non si può infatti dire in quella lingua: «piove», o «fa freddo». Occorre dare un soggetto alla frase, ed il soggetto dei verbi e delle locuzioni impersonali è appunto il pronome Es: «Es regnet, Es ist kalt».
Non c’è in italiano, e neppure in altre lingue, un vocabolo corrispondente a questo Es tedesco; e conviene pertanto mantenere tale termine, anziché tentare di tradurlo con vocaboli di altre lingue.
L’Es, nella mappa di Freud, è collocato sotto l’Io; ed è aperto verso la realtà corporea, somatica, con cui è in stretta relazione.
Un terzo elemento viene indicato da Freud con la parola Super-io (Über-Ich).
Si tratta di qualche cosa che appartiene a noi, ma che si differenzia dal nostro Io, in quanto agisce sull’Io come istanza etica, ed in genere normativa: portatrice di valori dunque. Tale istanza deriva da tutti i fattori che su noi hanno agito nel corso del nostro sviluppo. Ogni autorità che, a partire dall’infanzia, ha avuto presa sulla nostra persona, è stata in certo modo interiorizzata, e concorre a istituire il Super-io. Da legge esterna si fa, col Super-io, legge interiore.
Nella mappa di Freud il Super-io non è collocato al di sopra dell’Io, come si potrebbe pensare, dato il modo con cui è indicato, ma in disparte. Cosicché è a contatto coll’Io, ma contemporaneamente pesca per così dire nel sottostante Es. E qui è resa visibile una circostanza importante. Benché l’Es rappresenti l’insieme delle pulsioni istintuali, e il Super-io la somma degli elementi normativi, l’Es e il Super-io hanno parzialmente una derivazione comune.
Nell’infanzia infatti i genitori sono l’oggetto dei primi investimenti affettivi, ma anche la fonte dei primitivi divieti: costituiscono il modello dunque di tutti i successivi oggetti d’amore, e insieme di tutte le istanze limitatrici della spontaneità individuale. Ciò spiega l’intimo legame esistente fra la sfera degli istinti e quella dei divieti.
Ma il lupo? Il lupo cattivo di cui abbiamo paura? Paura abbiamo sia degli istinti che di quelle che diciamo norme etiche.
Se consideriamo le fobie di cui abbiamo parlato, sembra che il lupo sia prevalentemente da individuare negli istinti, e dunque nell’Es.
Ma nelle forme ossessive, minaccioso è sì l’insieme dei nostri impulsi istintivi, ma contemporaneamente anche l’istanza normativa, il Super-io, che impone coattivamente tutte le manovre con le quali dall’Es l’individuo si difende.
E ancor più evidente è l’azione del Super-io nella paranoia. La persecuzione che il paranoico avverte nella realtà esterna è una proiezione della minaccia di punizione derivante dal Super-io.
Così come è una istanza etica, collocata nel Super-io, quella che produce la ricerca di una punizione in coloro che abbiamo chiamati delinquenti per senso di colpa.
Questa posizione ambigua della minaccia che ci sovrasta, e che abbiamo qui chiamata lupo cattivo, si ritrova, in verità, anche nella fiaba di Cappuccetto Rosso. Vi è là infatti il lupo travestito da nonna, con la cuffia in testa e gli occhiali sul naso. È dunque una commistione del lupo (l’Es appunto) e della stessa Nonna (il Super-io, custode della tradizione familiare).
Del resto, anche nelle concezioni tradizionali del pensiero religioso si trova l’angelo custode (sulla spalla sinistra della persona), il Super-io dunque, che protegge dalle tentazioni. Ma anche il diavoletto inseritosi nel corpo, a contatto con i visceri (così come Freud dice dell’Es, in diretta comunicazione con gli elementi della realtà corporea). Quel diavoletto che deve essere esorcizzato (ex ore), cioè tirato fuori dal corpo attraverso la bocca.
Diavoli ed angeli sono però esseri di egual natura. E Lucifero, il principe degli angeli, diventa (ah! La révolte des anges, di Anatole France!) il demonio per eccellenza, nel fondo del baratro infernale.
L’ambiguità che sorge per localizzare il lupo cattivo, di cui abbiamo paura, si complica per una nuova circostanza.
Queste che abbiamo chiamate istanze psichiche, l’Es e il Super-io, non sono per nulla fattori semplici e coerenti.
Il Super-io, in particolare, è il prodotto di successive sedimentazioni. Non si tratta soltanto dell’autorità genitoriale interiorizzata; ma di tante successive autorità che vengono a costituire strati sovrapposti dello stesso Super-io. Questa pluralità delle istanze del Super-io (o istanze superegoiche, come possiamo dire) dà luogo a conflitti infrasuperegoici.
Porterò un esempio concreto, riguardante la mia vita personale.
Nel 1938, quando iniziò nel nostro paese la persecuzione razziale, io, che insegnavo nell’Università di Padova, mi trovai in una posizione difficile.
Come figlio di padre ebreo e di madre non ebrea, ero un individuo misto: condizione equivoca per le nostre leggi di allora, e che dava luogo a soluzioni differenti, in base a circostanze non ben definite.
Mi impratichii di tutti gli artifici possibili, con cui i misti come me potevano sfuggire alla persecuzione; ed aiutai così a salvarsi diversi amici e conoscenti che si trovavano nelle mie identiche condizioni.
Per quanto riguardava me stesso, combinai invece un sacco di pasticci. Cosicché alla fine venni considerato di razza ariana per l’esercito (e dovetti partecipare, come capitano, alla seconda guerra mondiale), per l’insegnamento secondario (cosicché insegnai al Liceo Parini di Milano) e per gli uffici dello Stato civile; ma invece non ariano per l’insegnamento universitario che avevo professato fin dal 1928, e per la stampa di pubblicazioni scientifiche.
Ho potuto in seguito rendermi conto che i pasticci da me compiuti e che mi hanno impedito di uscire totalmente indenne dalla situazione (come ne uscirono gli amici e conoscenti da me aiutati) sono stati determinati dal fatto che in me stesso funzionava (come elemento del mio Super-io, in cui è interiorizzata anche l’autorità sociale e politica) una qualche inconscia solidarietà con il regime persecutore.
Ero cioè in qualche modo d’accordo con chi mi condannava.
Questa è una banale storia personale.
Ma il fatto che possano agire, nel Super-io individuale, istanze differenti ed opposte può dar luogo a fenomeni che sembrerebbero difficili da spiegare in altro modo.
Tutte le conversioni ad esempio.
Solo apparentemente il convertito (in un senso o in un altro non importa) è illuminato da una luce nuova. Quella luce – nel senso dell’ardore che lo anima nel sostenere la diversa posizione – c’era anche prima e covava sotto la cenere.
Non si possono spiegare diversamente gli improvvisi capovolgimenti delle posizioni individuali.
Mi riferisco ad esempio a ciò che accadde nel nostro paese dopo l’8 settembre: repubblichini che si convertivano in partigiani, e partigiani che diventavano repubblichini. Ma anche recentemente: i giovani cresciuti nelle formazioni cattoliche e divenuti brigatisti, e poi i brigatisti divenuti dei pentiti, collaboratori delle forze repressive.
È sempre lo stesso fenomeno: più appariscente quando è collettivo (l’osanna della Domenica delle Palme e il crucifige del Giovedì), ma che presenta un egual carattere quando è individuale. E tanto se è di segno negativo (l’esaltazione che si muta in esecrazione), quanto di segno opposto (Paolo il persecutore, sulla via di Damasco).
Jung indicò questa situazione col termine enantiodromia (la corsa nell’opposto), che corrisponde poi a conversione.
Questa corsa nell’opposto è però possibile in quanto gli opposti, come imperativi etici, sono compresenti. Non ce ne accorgiamo soltanto perché funziona un altro imperativo: quello della coerenza logica, e cioè il principio di non contraddizione.
Per cui la contemporaneità degli opposti viene avvertita soltanto come alternanza.
E si produce allora il fanatismo del neofita. La intolleranza che ne deriva è un modo con cui questi tenta di rassicurare se stesso di trovarsi attualmente nella verità, e di essere stato prima nell’errore.
E il neofita ha sempre bisogno di dire a se stesso: «Dio lo vuole!», per sentirsi confortato nella sua posizione attuale, scrollandosi di dosso il proprio passato.
Non hanno in verità torto i nevrotici di temere il Super-io, e di ravvisare in esso il lupo cattivo, che dal nostro interno costantemente ci minaccia.