Il diverticolo*

Debbo cominciare col dire che, malgrado la mia età avanzata, io non ho un mio medico personale. O meglio non l’avevo fino a pochi mesi fa.

Il perché è presto spiegato. In passato esercitava con me funzioni di consulenza medica un caro amico, che però ad un certo momento acquistò una preparazione psicoanalitica, e si mise a fare lo psicoanalista. Era tuttavia rimasto in contatto con gli ambienti propriamente medici, e così le rare volte in cui avevo bisogno di cure, mi facevo indirizzare da lui a qualche specialista.

Solo una volta, in una certa occasione, lo chiamai telefonicamente di notte. Mi era preso un dolore acuto nella regione cardiaca. Accorse, mi visitò, escluse l’infarto che io temevo, e pensò invece, giustamente, ad un pneumotorace spontaneo (dato che ne avevo avuti altri in precedenza). Corse allora in una farmacia notturna, e mi fece una iniezione di morfina.

Anzi, acquistò una scatola intera di sei fiale. Ne consumò una, e le altre cinque mi sono rimaste.

Quelle fiale me le son sempre portate dietro (e lo faccio tuttora). Mi danno infatti un senso di sicurezza.

Anzi, se debbo confessarmi completamente, dirò che l’anno scorso in villeggiatura mi colse uno spasmo uretrale fastidioso: fastidioso ma in complesso sopportabile. Tuttavia io,… con tutto il parlare che si fa delle droghe e dei tossicomani, approfittai della situazione. Volli cioè provare la morfina; e me ne iniettai una fiala in condizioni di non assoluta necessità. Per mia curiosità, e per capir meglio coloro che attualmente vengono detti i drogati.

Debbo dire che fu una delizia. Non solo mi passò lo spasmo. Ma – prima che la morfina mi facesse del tutto addormentare – provai le sensazioni che quella sostanza può dare. Compresi così che se uno, dopo averci provato, come ho fatto io, ripete l’esperimento e raggiunge una assuefazione, poi non può più che rimaner preso nella rete, e non riesce a liberarsi.

Ma – pensavo fra me e me – io sono uno psicologo, uno scienziato. È giusto che io sappia quello che avviene.

Avviene una cosa che uno non si aspetterebbe. Cioè tutte le sensazioni, per le quali sappiamo di possedere un corpo, il quale ha un proprio peso, che grava sulle parti su cui siamo seduti, o su cui siamo distesi, o anche in piedi sull’intero organismo – tutte queste sensazioni che in genere (specialmente in età giovanile) si trascurano, a meno di non rivolgervi specificamente l’attenzione: sensazioni, che però ci sono anche se non le avvertiamo specificamente: e che in definitiva sono le sensazioni del mondo intero che ci grava addosso, per cui è come se fossimo dentro uno scafandro simile a quello degli astronauti, o dei palombari prima che si tuffino… Basta, tutto questo scompare.

Uno si sente puro spirito. Ma proprio perché così si sente, ha l’impressione di essersi tolto di dosso un macigno: quel macigno che sempre ci accompagna, e noi non lo sappiamo. Oppure lo sappiamo nel momento in cui ci vien tolto,… sì, col mezzo della fialetta liberatrice che io ho usata quella sera. La liberazione tuttavia è ancor più totale di quanto qui io l’abbia descritta. Perché non soltanto il mondo fisico, l’universo intero con tutto l’insieme delle sue masse vicine o lontane, grava costantemente su di noi (anche se ci illudiamo di sentirci leggeri: ma coll’avanzare dell’età un tal gravame non si può più ignorare). Pesano su noi anche i pensieri, i ricordi, le preoccupazioni, i progetti, i programmi: tutto un gravame interiore che si somma a quello che viene sul nostro corpo dall’esterno.

Ebbene, anche questo se ne va. E subentra una sorta di lievitazione.

Io spiavo. Spiavo: non so se per la curiosità che dovrebbe competermi per il fatto di essere un cosiddetto scienziato, o per una semplice curiosità umana mia: appena mascherata dalla mia qualifica professionale.

Si capisce che la gente divenga tossicomane. Riflettei subito: «Se io, le quattro fiale che mi restano, me le inietto per quattro giorni di seguito (con questa sono cinque), sono spacciato. E non me ne libero più».

Invece no, le altre quattro le tengo di scorta: col rischio di essere arrestato per detenzione di stupefacenti, ma sapendo di avere il paradiso a portata di mano. Perché è effettivamente un paradiso.

Come altro si potrebbe dire? Sentirsi ancor vivere, ma non avere più il proprio corpo, e neppure alcuna delle preoccupazioni che di solito – anche quando si è sul punto di addormentarsi – occhieggiano da qualche angolino, e ti avvertono che qualche cosa ti aspetta. No, nulla di tutto questo.

Dunque la mia esperienza della droga, della più classica delle droghe conosciute dai moderni, me la sono fatta. Sempre per merito di quel mio amico-medico-allievo-collega, che quella notte lontana si alzò dal letto alle tre, per venirmi a visitare e per andare nella farmacia notturna a farmi la ricetta.

Ma egli, amico mio carissimo, è mancato improvvisamente qualche anno fa. Ed io non mi son sentito di rivolgermi ad alcun altro medico.

Finché, qualche mese fa, una mia giovane cugina, dato che lamentavo non so più quale lieve disturbo, mi disse: «Ma tu, perché non chiami il medico?». «Veramente il medico non ce l’ho più, da quando il mio è morto». «Ma come, non hai medico? Alla tua età? Non è possibile». «Ma ti ho detto che il mio medico è morto». «Trovatene un altro, caspita. Anzi, te lo trovo io». E mi procurò un dottore, che in campo medico è bravissimo, che sta a cento metri da casa mia, e che si è anzi precipitato personalmente da me, perché io non dovessi neppure fare quel centinaio di metri che separano le nostre abitazioni. Quella di allora era una cosa da nulla, ed egli mi mise a posto subito. Mi diede alcuni consigli per la dieta. E mi raccomandò: «In qualunque evenienza, mi dia un colpo di telefono, ed io sono immediatamente da lei».

Sì, sì. Si fa presto a dire. Ma, abituato come sono a non avere medico, ora ho ritegno a disturbarlo, per cose che mi appaiono di poco conto.

Così accadde che un paio di mesi fa, sentendo un dolorino nella parte destra del ventre, diciamo nella zona appendicolare, non ritenni assolutamente che fosse il caso di rivolgermi a lui, e mi tenni il dolorino che andava e veniva.

Agì qui una vecchia storia infantile.

Abbiamo tutti una strana memoria per i ricordi infantili. Le cose dette dagli adulti, quando eravamo bambini, hanno la proprietà di restarci impresse, e di assumere il carattere di dogmi infallibili: e questo malgrado tutte le differenti successive esperienze che possiamo aver avuto.

Così ad esempio ricordo che, quando ero bambino e prendevo uno spavento, mia madre mi faceva bere un bicchier d’acqua, dicendo che quello avrebbe fatto andar via lo spavento. Tanta era la fiducia nelle affermazioni di mia madre, che io continuai a credere a questo effetto magico del bicchier d’acqua, anche da adulto.

Un giorno del settembre 1917 (ricordo la data esatta, perché avevo sostenuto quel giorno, al fronte dove mi trovavo, l’esame per passare da aspirante ufficiale a sottotenente) mi trovavo in piedi appoggiato ai sacchetti a terra (così venivano chiamati) posti a protezione del muro in cemento armato che riparava la fiancata sinistra di un nostro cannone. Il posto si chiama Cà Pierotti, a 300 m di quota, sulla riva sinistra dell’Astico, a poca distanza da un mozzicone di torre viscontea che ha resistito a tutte le guerre. Il posto è segnato sulle carte militari col suo nome, e i resti delle nostre postazioni di artiglieria ci sono ancora (così che qualche volta vado a rivedermele).

Ero dunque appoggiato a questi sacchetti a terra, con un collega appoggiato come me, e che stava con me conversando, a non più di 40 o 50 cm di distanza. Arrivò improvvisamente da una postazione austriaca in caverna, lontana – in linea d’aria – 1200 m da noi, ma collocata in alto, sul bordo dell’altopiano di Tonezza, una granata (per fortuna di piccolo calibro) che si infilò nei sacchetti a terra, nel breve tratto che separava i nostri due corpi. Scoppiò là dentro sollevando sassi e terriccio, ma senza che giungessero su noi schegge metalliche. Ebbimo entrambi l’impressione che il collega fosse stato preso in pieno. Invece restammo illesi entrambi, soltanto tutti impolverati e contusi dal materiale sollevato dallo scoppio e che ci era venuto addosso.

Eravamo – come poi ci dissero i soldati accorsi per aiutarci – entrambi sbiancati in volto dallo spavento. Però ognuno dei due vedeva soltanto l’altro, pallido e smorto, senza vedere se stesso che era nelle identiche condizioni.

Allora dissi al collega: «Vuoi un bicchier d’acqua?». Era il vecchio insegnamento che mi aveva dato mia madre. Furono i soldati a dire: «Ma che bicchier d’acqua, signor tenente! Gli offra della grappa. E la prenda anche lei, che ne ha pure bisogno».

Questa faccenda del prendere come un dogma le affermazioni di mia madre, mi fece fare qualche anno dopo una magra figura con un collega. Ero allora già professore di Psicologia nell’Università di Padova. Da poco era arrivato un nuovo professore di zoologia. E si passò la sera con lui ed altri colleghi. Ad un certo momento si venne a parlare delle zanzare (in dialetto i «mussati») comuni particolarmente a Venezia e nella pianura veneta, e di come esse siano fastidiose.

Io allora sentenziai: «Strano è il fatto che vi è una zona qui presso, fra Mira e Dolo, dove le zanzare, pur essendo identiche alle altre, non pungono». «Ma non saranno zanzare, saranno altri insetti simili», obiettò lo zoologo, e fece alcuni esempi.

«No, no», replicai io sicuro. «Sono zanzare come le altre». Il discorso fu lasciato cadere, tanto era sciocco. Ma la sera dopo andai in campagna a trovare i miei genitori, proprio nella località di cui avevo parlato. E a mia mamma dissi: «Sai, un nuovo professore di zoologia, venuto ora all’Università, non voleva credere che le zanzare qui dove siamo non pungono». «Come non pungono?», fa mia madre. «Pungono naturalmente come tutte le altre».

Restai di stucco, e cadde così un altro mio dogma. Le cose avevano avuto questa origine. A Venezia usavamo le zanzariere per ciascun letto; e ci infilavamo sotto quelle per restar protetti dagli insetti. In campagna invece le zanzariere non c’erano. Io, bambino, debbo essermi lamentato con mia madre, dicendo: «Mamma, ma qui non ci sono zanzariere». E mia madre, per tagliar corto, deve aver troncato il discorso, dicendo: «Le zanzare che ci sono qui, a differenza di quelle di Venezia, non pungono». Io credetti, perché a ciò che dice la mamma bisogna credere.

E vengo alla situazione dei doloretti di pancia.

Sempre quando ero bambino, mia nonna materna, che era di origine trentina, se ci lamentavamo per qualche dolorino di pancia, usava dire: «Gnente, gnente; xe una scoreseta per traverso» (Niente, niente, è una flatulenza collocatasi per traverso).

Si vede che, dopo ottant’anni, sono in fondo rimasto dell’opinione di mia nonna. E per questo motivo non feci caso nei mesi scorsi a quello che, più che un dolore, era solo un fastidio.

Finché prolungandosi la cosa cominciai a pensare.

L’appendice non l’ho più. Me l’ha tolta una ventina d’anni fa il professor Oselladore che dirigeva la Clinica chirurgica dell’Università qui a Milano, e che negli anni degli studi universitari era stato studente con me a Padova. Eravamo buoni amici, ed egli era uno di quei chirurghi che amavano andare per le spicce. Avevo anche allora un dolorino nella parte destra del basso ventre, e lo consultai. Disse subito: «Da quella parte, o fegato o appendice. Il fegato non ha niente. Quindi non resta che l’appendice». Aggiunse un motto preciso che era solito ripetere: «Appendice accusata, appendice condannata». E poi, in veneto (era originario di Chioggia): «Taiemo, taiemo» (che era il suo motto abituale). «Vieni domani in Clinica, che ti ricovero subito. Così poi te ne vai in villeggiatura tranquillo».

Mi operò, togliendomi l’appendice, che era bella rosea e non aveva assolutamente nulla, e mi spedì in montagna con la ferita appena chiusa.

Date queste premesse mi venne in mente che, quella volta della operazione così affrettata, fosse rimasta qualche aderenza, o che so io. E andai finalmente a farmi visitare dal mio nuovo medico.

Questi, appena cominciò a palparmi la pancia, mise la mano sul punto dolente. Ed io gli dissi che era proprio lì.

Era raggiante: «Vede, appena messa la mano, l’ho acchiappato subito». Ripetè la frase varie volte, e sembrava un cercatore di funghi che avesse messo la mano su un porcino da mezzo chilo.

«Ma che cosa ha acchiappato?» «Io penso che non sia nulla. Comunque è meglio fare un clisma opaco e le lastre; perché potrebbe anche essere un diverticolo».

Un diverticolo? Io so che cosa è un diverticolo. È – nei meandri del nostro corpo, pieno di passaggi, di canali e di condotti – una specie di quei posti, che nelle nostre città sono indicati col cartello: «Strada senza uscita». Posti, i quali hanno la caratteristica che, se ci si infilano due o tre macchine, nessuna di loro riesce più a far manovra, e si determina un ingorgo.

Tuttavia al momento non pensai al significato tecnico della parola. Mi colpì invece il suono. «Diverticolo, diverticolo!» Sì, io sto effettivamente scrivendo in questi giorni un articolo. Ma che cosa c’entra l’articolo con la mia pancia? L’articolo pretenderebbe di essere divertente. Dunque divertentearticolo: contratto in diverticolo. Ma anche spettacolo; perché pure di uno spettacolo mi debbo occupare. Tutto questo mi passò per la mente come in un lampo. E io mi trovai subito dopo di fronte alla dura realtà delle purghe, dei lavacri intestinali, del clisma opaco, del lettino duro collocato sotto l’apparecchio radiologico e radiografico.

Fui però compensato. Il radiologo continuava ad esclamare: «Ma che bell’intestino! Che bell’intestino! Lo avessi così io! Un intestino da uomo di quarant’anni sano. E poi vede come è elastico, e si ritrae quando la maggior parte del bario è stata espulsa! Ecco qui il cieco, qui il colon ascendente, il trasverso, e poi il sigma».

Mi fece vedere le lastre. E a momenti me le offrì perché le incorniciassi e tappezzassi con esse il mio studio.

Trovai la cosa esagerata. Ma le lastre me le presi, quale documento che la mia nonna materna aveva in fondo ragione.

Poi però ci meditai sopra.

Sì. Come mai è fatto questo nostro corpo? I singoli organi visti nelle lastre sembrano tanti animali a se stanti. Che funzionano per conto loro, con una certa autonomia.

Già: in ogni minuscola parte di materia vivente, c’è tutto un mondo. E forse il nostro mondo, quello grande, è a sua volta un piccolo elemento di un organismo ancora maggiore.

Ah vecchio Leibniz, fantasioso e geniale! Da tanto tempo non pensavo a te! Ma ora nel vedere quel serpentello bianco, che è poi il mio intestino, l’impulso a prolungare la immaginazione mi prende. E mi si affaccia la tentazione di questa discesa nell’infinitesimo non raggiungibile mai, e della risalita verso un infinito senza confini, e dilatabile oltre ogni nostra volontà.

So bene che il giocattolo della metafisica è stato definitivamente rotto e distrutto da Kant. Per sempre.

Ma per un attimo le lastre del mio intestino mi hanno fatto ancora sognare il mondo vivente che, secondo Leibniz, va dalla entità più minuscola a quella senza confini, sempre ripetendosi e rispecchiandosi. E sono rimasto così ancora una volta incantato di fronte alla folle fantasia di questo grande pensatore, che ci ha insegnato a maneggiare col calcolo gli infiniti e gli infinitesimi.