La paura della libertà*

Il concetto di libertà – sia nel nostro linguaggio corrente, quanto in un linguaggio filosofico, o psicologico, o politico-sociale – è uno strano concetto.

Della libertà, o di una particolare libertà, ci accorgiamo soltanto quando essa ci viene sottratta, o quando comunque ne siamo privati. Essa è come l’aria che si respira di cui ci rendiamo conto solo se ci viene a mancare.

La libertà di parola, o di espressione? Nasce come idea nel momento in cui è proclamata una censura: censura verbale, o di stampa ecc.

La libertà di circolare per le strade, o di spostarsi da un paese ad un altro, acquista un senso nel momento in cui viene istituito un coprifuoco, o l’obbligo di un passaporto per l’estero, o anche per le varie province dello stesso Stato.

Ma pure in campo fisico: la libertà di muoversi semplicemente con le proprie gambe è qualche cosa di cui ci si accorge se subiamo una paralisi e restiamo inchiodati in una carrozzella. Altrimenti è parola priva di contenuto.

Tutto ciò deriva dal fatto che la libertà si identifica semplicemente con la stessa umana attività.

Quando una qualche specifica attività, di quelle che costituiscono il nostro normale comportamento, ci viene, o dalle forze della natura, o dalla organizzazione politico-sociale in cui viviamo, impedita, si rende esplicita la nozione, e l’aspirazione, a quella specifica libertà che ci è negata.

Di questo fatto spesso ci dimentichiamo. E trattiamo la libertà come una cosa specifica, che c’è o non c’è, e che possiamo pretendere da chi ce la nega. In campo politico la richiediamo a chi ci governa. Sempre con l’illusione che quella che domandiamo sia la libertà in generale, la vera libertà.

Per questo ogni movimento politico che tenda a modificare, in parte o in tutto, la struttura sociale entro la quale conduciamo la nostra vita, si appella alla libertà.

Tutti i rivolgimenti sociali, quelli che consideriamo progressisti, ma anche quelli che vengono giudicati reazionari, sono sempre invocati in nome della libertà. I fascisti che hanno imposto alla mia generazione la dittatura, cantavano: «Nel fascismo è la salvezza della nostra libertà».

E avevano in fondo ragione, quando a cantare così erano i giovinastri figli degli agrari della valle padana, premuti dalle richieste di migliori condizioni di vita, provenienti dai braccianti o dai fittavoli agricoli, o dalle nascenti cooperative contadine.

Ma, come ho detto, è sempre così. La libertà è invocata da chi si sente oppresso da pretese o da poteri altrui.

Non voglio però fare un discorso politico, perché in questo campo, anche se sono stato un militante ed ho talora assunto qualche responsabilità, mi considero poco più che un dilettante.

E allora della libertà, o mancanza di libertà, di una sua perdita o conquista, preferisco parlare in un ambito che mi è più familiare: quello cioè del modo come interiormente, nella nostra coscienza, la libertà stessa è vissuta.

E inizierò con un discorso autobiografico, e di confessione personale.

Si tratta di cose che risalgono ad oltre sessanta anni fa, quando come ufficiale di artiglieria mi trovavo al fronte, in guerra.

Debbo dire che, per una mia buona stella, mi sono trovato raramente in situazioni di grave pericolo: intendo un tipo di pericolo più specifico, di quello generico dovuto al fatto che, essendo in prima linea, ero sempre esposto alla possibilità che qualche proiettile d’artiglieria, o anche una semplice pallottola di fucile improvvisamente si ricordasse di me.

Qualche momento di paura l’ho avuto certo; ma era poca cosa.

Due volte mi avvenne invece in quell’epoca di essere preda di un acuto attacco di angoscia: angoscia che altro non era poi se non una grande, incoercibile, paura. Descriverò il secondo episodio che è di più facile comprensione.

Fu nel momento in cui, trovandomi in marcia di trasferimento col mio reggimento, ebbi l’improvviso annuncio che la guerra era finita, e che l’armistizio era stato firmato.

I soldati in mezzo ai quali mi trovavo, molti dei quali avevano sulle spalle più di tre anni di guerra, esultavano e sembravano impazziti dalla gioia. Anch’io, certamente, avrei voluto partecipare a questo loro sentimento. Invece fui immobilizzato da una grande, da una immensa paura. Paura di che cosa? Ma… è difficile dirlo. Io mi illudevo che la maggior parte di noi dovesse essere subito smobilitata, congedata, e rispedita alle proprie occupazioni normali. Personalmente ero studente universitario, e ritenevo che entro un mese al massimo, sarei stato mandato a casa, in tempo per riprendere gli studi all’università.

Non fu per nulla così; giacché ci vuole molto più tempo per smobilitare un esercito di milioni di uomini, e per di più vittorioso, che non per effettuare una mobilitazione generale e mettere addosso una divisa a quegli stessi milioni di uomini.

Comunque fui spaventato dall’idea che scomparisse ad un tratto tutto quell’apparato, pesantemente oppressivo, che è un esercito, ed in particolare un esercito in guerra: dove io non potevo allontanarmi dal luogo e dal compito che mi veniva assegnato, e la mia sfera di libertà consisteva esclusivamente nell’effettuare come meglio potevo quello che in modo tassativo mi veniva comandato: con la minaccia di tutte quelle cose orribili che sono contenute nel Codice militare di guerra: le quali vanno dalle punizioni più semplici, alla fucilazione per disobbedienza, o per tradimento.

Sì, ero spaventato che tutto questo avesse fine, ed io dovessi prendere d’ora in poi nelle mie mani la mia vita, organizzandola come meglio credevo.

Certo, fuori dalla atmosfera in cui mi trovavo in quel momento, e dunque per coloro che leggono queste mie righe, ciò può apparire estremamente sciocco. E sciocco oggi sembra anche a me, naturalmente.

Ma immaginate un bambino di pochi anni, tre supponiamo, abituato a stare sempre attaccato alla madre, che magari è un po’ severa, e isterica ed ansiosa anche lei per certe cose, la quale sgrida, dà scapaccioni, e vieta al bambino molti giochi che egli vorrebbe fare; bene immaginate che questo bambino si perda nella folla di una grande piazza, oppure su e giù per le scale mobili della Rinascente, e si senta improvvisamente solo. Libero dalla madre, dalla quale magari egli stesso è scappato per evitare una sgridata, ma che proprio perché libero, si sente abbandonato a se stesso, in mezzo ad estranei: tutti pericolosi perché non corrispondono alle figure familiari con cui ha dimestichezza e di cui si fida.

Bene, anch’io cercavo in quel giorno del 3 novembre 1918 il volto della madre: che era quello scorbutico del mio comandante di batteria, quel perfetto imbecille del mio colonnello, quella bestia vanesia del generale comandante la divisione, e tutti quegli altri personaggi che costituivano, sia pur nel mio limitato settore, la macchina della guerra.

Adesso sarei stato solo e avrei dovuto provvedere a me stesso. Di questo mio io, ridivenuto padrone di se stesso, che avrebbe dovuto esser contento di riacquistare la propria libertà, avevo paura.

Ma paura di che? Paura della responsabilità che, insieme alla libertà di fare, tornava a cadere su di me.

Si può anche giudicare da questo episodio che io fossi alquanto nevrotico, anzi un grosso nevrotico: il quale preferiva una vita da schiavo ad una vita di libertà.

Non ho nulla da obiettare verso un tale giudizio.

Ma persone che si trovano nella situazione in cui mi venni a trovare io all’annuncio che la guerra era finita e secondo la mia illusione (del tutto balorda e lontana dalla realtà) la mia dipendenza dalle superiori autorità militari era terminata, per cui ho vissuto con angoscia il pensiero di essere ora completamente responsabile delle mie azioni, persone così ne incontro e ne ho incontrate nel corso della mia attività di psicologo e di analista, un gran numero.

Ognuno aspira alla libertà, ma della libertà molti hanno paura.

Vi è una categoria di persone che possono essere prese a modello per una situazione paradossale come questa. Sono quelli che noi chiamiamo agorafobici. Fobici della piazza etimologicamente. Ma in genere fobici delle situazioni nelle quali essi si trovano soli, per le vie, o per le piazze (peggio se le vie o le piazze sono larghe e non c’è modo di camminare rasente i muri, così da ridurre in qualche misura la libertà di movimento).

Se si chiede a costoro di che cosa hanno paura, dicono di temere di star male. E di fatto stanno male, e magari sono presi da dispnea o da tachicardia, e non possono muoversi, e si lascerebbero volentieri cadere per terra, perché si sentono veramente morire.

Effettivamente il ragionamento va capovolto. Non hanno paura perché hanno la dispnea o la tachicardia (e un altro sacco di mali), cosicché temono di morire. Hanno invece l’impressione di morire e tutti questi altri sintomi, semplicemente perché hanno paura.

Paura di chi, se nessuno li minaccia? Paura di se stessi, di ciò che potrebbero fare.

E che cosa potrebbero fare? Oh Dio! La donna per la strada può divenire una donna di strada. E l’uomo può divenire quello che una volta si indicava come brigante di strada, e che oggi può essere chiamato con tanti nomi diversi.

Non vanno prese troppo alla lettera queste affermazioni, che io enuncio brutalmente e in modo scherzoso per farmi meglio capire. Ma sempre la libertà di abbandonarsi ai propri impulsi inconsci, che sono in definitiva monotoni, rozzi e primitivi (e potrebbero, oltre al resto, venir soddisfatti in molte altre maniere più comode, che non per la strada o per le piazze) fa paura. E quegli impulsi, ancorché inconsci, si fanno sentire proprio là dove non ci sono ripari, dove si è esposti al giudizio altrui, al giudizio pubblico, dove non c’è la possibilità di nascondersi dietro qualcuno, o trasmettere ad altri la responsabilità degli atti inconsciamente immaginati od attuati di fantasia.

Ben vengano – se non ci sono i familiari che si assumono la responsabilità di tutto quello che succede e garantiscono con la loro presenza l’innocenza e la rispettabilità della persona – ben vengano le guardie, le manette, le prigioni, la sorveglianza costante o il letto di contenzione.

Ecco il problema grave.

Anch’io, quando ero giovane psicologo, e per motivi di studio visitavo i vecchi manicomi dei primi decenni del secolo, pensavo che era una barbarie tenere prigioniera della gente, la quale magari non minacciava alcuno, ma dava in ismanie, e urlava. Urlava soprattutto per darsi coraggio.

Avevo la tentazione di andare io stesso a liberarli, dalla stanza imbottita dove erano chiusi a chiave, o dal letto di contenzione.

Ma i medici e gli infermieri erano timorosi: che facessero del male a se stessi o agli altri.

Avevano magari più paura loro degli stessi ammalati: i quali – pur protestando – si lasciavano legare. Continuando magari a vivere i propri impulsi aggressivi, ma incanalando tali impulsi verso o contro gli infermieri e i medici, in luogo dei fantasmi che prima avevano provocato le loro crisi di angoscia e le tentazioni omicide.

Ora c’è modo di affrontare queste situazioni in altra maniera: non con manovre di forza, ma con psicofarmaci che attenuano e smorzano questi attacchi: i quali tuttavia sono tutti reazioni alla paura che il paziente ha verso i propri impulsi interiori.

La cosiddetta psichiatria democratica si fa un vanto di aver aperto i cancelli degli ospedali psichiatrici. E noi dobbiamo dare atto, sia al senso di umanità che sta alla base di questa apertura verso il mondo comune di quelli che una volta erano i reclusi dei manicomi, sia alla fede nella umanità e nella libertà, che questo atteggiamento implica. Ma non possiamo dimenticare che soltanto mediante l’uso dei nuovi psicofarmaci si è potuto ridurre l’angoscia che domina questi ammalati e che costringeva – spesso, se non per loro esplicita domanda, attraverso l’indiretta richiesta manifestantesi con le crisi di scatenato furore – a privarli della libertà di movimento nelle celle di segregazione e mediante le camicie di forza.

A tutto ciò intendevo riferirmi per sostenere che la libertà – a cui ambisce ogni uomo civile, sano, e in situazioni normali – è sì un bene per chi è in grado di goderla ed esercitarla, ma è un pericolo, una iattura, una enorme fonte di angoscia, per chi non si trova in tale stato.

E ahimè vi sono condizioni sociali e momenti storici, in cui accade precisamente che gli uomini, i cittadini (o almeno la maggior parte di essi) di fronte alla libertà, si sentono perduti.

Si sentono proprio come il bambino di cui dicevamo prima. Allora è sufficiente che si costituisca una forza, rappresentata da un gruppo omogeneo; oppure anche da un solo uomo che sia in possesso di determinate specifiche qualità, perché tutta la carica di angoscia che si è accumulata, esploda. Gli individui non hanno più fiducia in se stessi. Hanno bisogno di delegare qualcuno, o una fazione che appoggi questo qualcuno, perché assuma la responsabilità per tutti.

È la fine della libertà. È la dittatura. Tutto il potere che ognuno ha e sa di avere in se stesso, è delegato, portato per così dire all’ammasso, di quell’unico dittatore, o della organizzazione che lo sostiene. E in lui la gente, in grande maggioranza, finisce col credere.

Le dittature non nascono mai solo perché c’è un cattivone che si impadronisce del potere, ma perché una moltitudine dà la propria investitura al dittatore, o al direttorio che esercita funzioni dittatoriali.

Sì, certo, verrà il momento in cui il popolo arriverà, col sacrificio del sangue e del martirio, a riconquistarsi la libertà. Ma la libertà è stata fin dall’inizio alienata, perché di quella libertà la gente ha avuto paura.

Proprio così come ho avuto paura io – consentitemi il paragone – nel momento in cui credevo di essere sul punto di lasciare la divisa militare, per rivestirmi dei miei abitucci borghesi, ritornando padrone di me stesso.

A noi psicoanalisti che non abbiamo a che fare con i popoli, ma con singole persone sofferenti, spetta un compito difficile, ma limitato.

Il compito di rendere cosciente il paziente che ricorre all’opera nostra, delle pulsioni che agiscono in lui e che egli teme, anche se non ne ha piena consapevolezza. Di renderlo cosciente, in modo che possa affrontare quelle pulsioni, come meglio crede: appagandole, se è il caso, perché noi non facciamo i moralisti; oppure invece rinunciando ad esse, se il gioco non vale la candela, se cioè siano preferibili parziali limitazioni (purché razionalmente e consapevolmente accettate) di fronte ad elementi che presentano una validità maggiore. Giacché al paziente non va mai suggerito un comportamento particolare: che egli, e soltanto egli, è chiamato a scegliere e a decidere.

Nel caso però in cui non di un paziente si tratti; ma di una classe, di una nazione, di un popolo – quantunque non spetti allo psicoanalista in quanto tale intervenire sui comportamenti collettivi e sulle scelte politiche – è augurabile che la gente non perda mai il senso del valore della propria libertà. Mai si lasci cogliere da quella che ho chiamata la paura della libertà. E abbia sempre presente che ciò che con la dittatura si perde si riconquista solo col sacrificio e col sangue.

Meglio un qualsiasi errore, meglio la miseria, ed ogni altro sacrificio che essa porta con sé, che non quella paura che ho cercato di descrivere.

Quanto al destino di chi di tale paura si serve, per impadronirsi di una nazione, rendendo succubi coloro che hanno essi stessi abdicato ai loro poteri, esso è un destino segnato.

Prima o poi, con l’intervento di fattori esterni, o per furore di popolo, giunge la conclusione emblematica di ogni tirannia: la morte violenta del tiranno: sulla cui persona si concentra tutta la aggressività mortifera di coloro stessi che lo hanno osannato.