Il fascino del rischio*

Quando mio figlio e mio nipote avevano circa tre anni, inventarono un gioco.

Dirigevo allora l’Istituto di Psicologia dell’Università di Padova per accedere al quale rapidamente attraversavo una specie di museo, appartenente all’Istituto di Zoologia, che occupava locali contigui a quelli del mio studio. Questo museo zoologico era qualche cosa di antiquato ed ammuffito, e mi capitò molti anni dopo di ripensarvi, quando lessi Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e giunsi alla scena della ingloriosa fine della pelle del nobile animale araldico della famiglia dei Principi Salina.

Più volte al giorno dunque passavo attraverso questa serie di animali impagliati che sapevano di muffa.

Uno ve n’era – si trattava di un leone (ma forse era una leonessa, non ricordo bene) – con cui finii coll’intrattenere rapporti. Dapprima mi provocò un certo disgusto: aveva (o l’impagliatore gli aveva dato) una espressione feroce, fermo sulle quattro zampe pronto ad avanzare, mentre la testa era proiettata in avanti minacciosa, e la bocca aperta pareva in procinto di azzannare. Il tutto era però, come bene si capisce, molto statico: e perciò – in questo suo aspetto minaccioso, ma immobile, e quindi innocuo – grottesco.

Finimmo tuttavia col fare amicizia.

Non che io potessi ovviamente imbastire con lui una vera conversazione. Ma gli rifacevo il verso. O mi sforzavo di rifarlo. Non a mo’ di scherno, ma per una sorta di solidarietà. Anch’io mi uniformavo a fare la faccia feroce, con la bocca che mostrava i denti bene in fuori, e gli occhi vitrei immobili.

Riuscivo bene, pare, in questa imitazione. Concetto Marchesi, che all’Università teneva la cattedra di Letteratura latina, e che veniva spesso a trovarmi nel mio Istituto, per passare, insieme ad altri amici, qualche mezz’ora, a lavoro terminato, era molto divertito, ed apprezzava questa mia attitudine ad identificarmi con gli animali impagliati. Per mio conto sostenevo che ciò faceva parte della mia attività professionale. Per capire gli altri, debbo identificarmi infatti con loro, vivere i loro stati d’animo, e comprendere le loro espressioni. Mi esercitavo appunto con gli animali impagliati. Così come un sarto si esercita sopra i manichini, e i soldati sparando su sagome di cartone.

Imitavo anche altri animali del museo zoologico. Ma per il leone finii con l’avere una predilezione.

In seguito mi accadde di assumere l’aspetto del leone impagliato anche a casa, scandalizzando le donne, ma interessando vivamente i bambini: mio figlio e mio nipote di cui ho detto.

In principio accennavo soltanto agli atteggiamenti del mio modello. Ma poi i piccoli cominciarono a divertirsi, ed io sfoderai tutte le mie tendenze esibizionistiche.

I bambini avevano uno strano comportamento. Da un lato erano attratti, e dall’altro avevano paura. «Zio, zio, fai il leone», mi diceva il nipote che era di qualche mese più giovane di mio figlio. Ed io, ringalluzzito, sfoggiavo la mia abilità. Diventavo feroce davvero, e ruggivo: non so se proprio come lo fanno i leoni nella realtà, perché questo il mio modello impagliato non me lo aveva potuto insegnare, ma con un rumore che per i miei bambinetti doveva apparire tremendo.

Appena facevo questo, i due bambini si spaventavano davvero, mettendosi a piangere a gran lagrime, e urlando dal terrore.

Fra l’indignazione di mia madre e di mia cognata, che dei bambini, rimasti entrambi orfani delle rispettive madri, avevano cura, io cercavo di ricompormi, e di farmi nuovamente riconoscere come padre e zio burlone.

Ma debbo dire che i bambini ci mettevano un certo tempo a vedermi nelle spoglie abituali: come se qualche cosa di paurosamente leonino mi fosse rimasto appiccicato addosso.

Eppure, il giorno dopo, e magari anche assai prima, passata qualche ora appena, riprendevano a chiedermi di fare il leone. «Zio, zio, facci il leone», diceva il piccolino, tenendosi ben attaccato al cugino per protezione, e pregustava con lui (debbo proprio dire così) l’impressione che io avrei fatta loro, provocando il rinnovarsi del terrore, del pianto dirotto, e del non riconoscermi più per quello che ero.

Credo proprio che i bambini, avendo veduto i leoni veri soltanto in illustrazioni, ritenessero che essi nella realtà avessero l’aspetto che assumevo io.

La storia delle mie esibizioni come leone impagliato può anche essere divenuta divertente per me. Ma i bambini? Perché volevano questo gioco, e perché poi si spaventavano da morire?

C’è indubbiamente un fattore di eccitazione, di mobilitazione del sentimento di sé, in ogni emozione: anche in quelle negative. Così in genere una grande paura può scatenare un principio di eccitazione erotica. Mi hanno raccontato colleghi sovietici come a Stalingrado, prima della controffensiva che condusse alla resa dei tedeschi, e quando i sovietici erano ridotti a tenere due soli quartieri della città, gli abitanti, uomini e donne, che insieme combattevano, fra un turno e l’altro della difesa delle barricate, facessero all’amore in modo frenetico.

Spiegavano questi colleghi sovietici il fatto, un po’ materialisticamente, col principo che, in presenza della morte, l’istinto di vita, e della procreazione quindi, si acuisse, quasi a titolo di compensazione. Io mi esprimevo diversamente: nel senso che in presenza di una grave minaccia, si attenuano tutte le difese che normalmente rivolgiamo all’interno contro i nostri impulsi istintuali, per polarizzare le difese all’esterno, verso le gravi minacce che dall’esterno appunto provengono, e lasciando per così dire scoperto il fronte interno.

Nel 1915, nei primi giorni di guerra (avevo allora diciott’an-ni), mi trovavo sulla spiaggia del Lido a Venezia. C’era una ragazza che mi piaceva moltissimo e mi ispirava un tenero amore, ma che avendo due anni più di me, badava piuttosto alla corte che le facevano giovanotti di età alquanto maggiore, più esperti ed intraprendenti.

Un pomeriggio, un solitario areoplano austriaco (che poi finì in mare) sorvolò a bassa quota la spiaggia. E noi, del tutto inesperti di bombardamenti aerei e dei loro effetti (allora assai limitati), ci riparammo più che altro alla vista dell’aviatore solitario, nascondendoci sotto le travi del contiguo stabilimento balneare.

Quando l’aereo, o velivolo (come allora si diceva) passò sopra le nostre teste, la ragazza mi si buttò fra le braccia, dicendomi: «Tienmi con te, stringimi forte: moriamo insieme». Debbo dunque l’unico atto d’amore che ottenni da quella ragazza al suo attimo di terrore.

Se partiamo dalla constatazione che una situazione di pericolo può scatenare e soddisfare pulsioni erotiche, o comunque di ap-pagamento vitale, molti paradossi che si potevano raccogliere sotto il concetto di amore del rischio, divengono comprensibili.

Prima ho parlato di elementi erotici. Ma non è necessario che debba sempre entrarci l’erotismo, almeno nel senso abituale restrittivo. È chiaro che nel caso dei bambini e del leone impagliato c’era soltanto il desiderio di subire uno spavento, perché il trovarsi in uno stato di paura era per loro eccitante: salvo la conversione in terrore quando sentivano la situazione non più dominabile. Un fenomeno di catastrofe secondo la moderna teoria di Thom.

Pure in questa mescolanza di eccitazioni euforiche e di senso del pericolo, qualche cosa di erotico (magari in senso narcisistico, di autoerotismo dunque) sembra ci sia sempre.

È il piacere del rischio.

Una delle situazioni tipiche la troviamo nell’alpinismo, nell’alpinismo rischioso appunto: roccia e ghiacciai.

Jung, in una delle sue opere, racconta la storia, che mi sembra esemplare, di un proprio amico alpinista appassionato. Jung, col suo spirito misticheggiante e misteriosofilo, racconta la vicenda in un modo particolare; la storia comunque mi sembra paradigmatica per quanto riguarda il rischio degli alpinisti. Egli dunque incontra questo amico amante della montagna, che gli dice: «Sai, ho fatto un sogno strano. Stavo compiendo la scalata di un monte, e facevo gli ultimi passi in salita, gli ultimi gradini, per arrivare in vetta. Ma qui giunto, non mi sono fermato; ho continuato a salire ancora, trovandomi al di sopra della montagna, in cielo. Poi mi sono svegliato con una grande eccitazione. Che cosa vorrà dire?».

Jung gli rispose allarmato: «Il tuo è un sogno premonitore. Non devi più andare in montagna. E soprattutto non devi andarci da solo, perché rischi… di rimetterci la vita, finendo all’altro mondo: in cielo, come nel sogno, su su, in paradiso. Comunque mi devi promettere che se tu dovessi intraprendere una scalata, ci andresti accompagnato, e non da una guida sola, ma almeno da due guide».

Qui Jung commise il solito errore ben noto; quello delle sibille, degli indovini, degli oracoli di tutti i tempi. Ha predetto l’avvenire catastrofico, ma ha dato insieme i consigli per evitarlo. Come se, qualora ci fosse un destino, esistessero anche i mezzi per evitarlo.

Lo stesso Jung narra che quella fu l’ultima volta che vide l’amico. Giacché questi, pochi giorni appresso, durante un’ascensione, benché avesse con sé una guida alpina, mise un piede in fallo e precipitò, trascinando con sé anche la guida con cui era legato, cosicché si sfracellarono entrambi.

Non credo alla premonizione del mettere il piede fuori della montagna per salire in cielo, come sembra ritenere Jung. Sono invece convinto che la sciagura avvenuta sia stata casuale. Ritengo tuttavia che il sogno, anche se non va considerato premonitore, ci spieghi molto bene i fattori profondi che stavano alla base della passione per la montagna dello sfortunato alpinista (e di tanti, come lui, amanti della montagna).

Egli voleva superare se stesso. «Oltre la meta», «Excelsior». Questo significa il sogno. Tuttavia lo stesso elemento vi è in ogni passione per la montagna di grado superiore. Sempre: oltre la meta.

Non ritengo dunque che l’amico di Jung volesse morire. Voleva sfidare la morte, questo sì, superando se stesso.

Quasi tutte le disgrazie in montagna hanno la stessa origine.

Ma eguale origine ha anche ogni ricerca di un rischio, che sia effettivamente tale.

Paradigmatica, nella sua estrema stupidità, è la famosa e tragicomica roulette russa.

L’individuo si gioca in certo modo ai dadi la propria sopravvivenza. Qual è il premio della scommessa? La sopravvivenza stessa, che (al momento) non era minacciata da alcuno.

Il premio (per quanto balordo) c’è. Consiste nel poter dire: «Io ho così poca paura della morte, che metto in palio la mia vita».

Funziona qui un doppio meccanismo psicologico, con caratteri contradditori. Da un lato la sicurezza nella propria fortuna. Dall’altro l’orgoglio di poter dire: io non ho avuto paura, ho saputo affrontare la morte senza tremare. E ovviamente il senso di potenza che dà questo orgoglio.

Credo proprio che in ogni forma di rischio volontariamente affrontato, funzionino queste due posizioni: che sono opposte, perché sono fondate su due convinzioni che dovrebbero escludersi l’un l’altra: la certezza che il pericolo in realtà non c’è, e la soddisfazione di potersi vantare, perché effettivamente invece c’era.

Freud, ai tempi della prima guerra mondiale, quando – dopo un periodo di smarrimento – cominciò a studiare i processi psichici agenti nei combattenti, processi che sono quelli che rendono possibili le guerre di tipo tradizionale – di quelle future Freud non poteva ovviamente ancora parlare –, si pose questo problema.

I giovani prendono parte alle guerre, non solo senza protestare, ma in genere con un atteggiamento euforico. La guerra è possibile perché gli impulsi aggressivi ed omicidi, quali sono presenti in ognuno, sono soltanto trattenuti a freno da una serie di forze che agiscono in condizioni normali. Quando viene dato l’ordine di distruggere il nemico (affrontando insieme il pericolo di essere colpiti dal nemico stesso), il normale imperativo «non uccidere» si converte nella consapevolezza che si può, anzi si deve uccidere il nemico.

Si rischia con questo di divenire, a propria volta, vittime. Ma intervengono allora proprio i due convincimenti di cui abbiamo detto sopra: «Es kann dir Nichts geschehen» (Non ti può accadere nulla). Le pallottole possono colpire i compagni che si trovano al tuo fianco, ma a te questo non avviene. E nello stesso tempo potrai vantarti di essere stato in mezzo ai proiettili che fischiavano, e di aver rischiato la tua vita. «Perciò il tuo eroismo, che consiste nell’aver affrontato il rischio di morire, ti verrà riconosciuto»: con la croce di ferro, o con la croce di guerra, o – come è accaduto a me – con la semplice tessera di libera circolazione sulle linee tramviarie di superficie, o metropolitane, della mia città, in quanto Cavaliere di Vittorio Veneto.

Ma lasciamo stare i rischi di guerra: i quali rappresentano una grossa complicazione in quanto nelle situazioni di guerra intervengono tutti i fattori della psicologia collettiva e sociale, cosicché i meccanismi agenti sul singolo individuo sono spesso vari e retti da motivazioni diverse.

Vivere significa necessariamente rischiare. Rischiare continuamente, giacché qualunque decisione uno prenda, influisce sul proprio destino (come contemporaneamente su quello altrui), e quindi richiede che si affrontino determinati rischi.

Il voler evitare continuamente ogni pericolo è di per sé una malattia fobica, ed anche abbastanza grave: la quale tende poi ad estendersi, così che un individuo non esce più di casa, e si astiene da tutta una serie di azioni: a rigore non fa nulla. «Si riduce sul mattone», come si esprimeva una cara ragazza che è stata mia paziente molti anni fa, proprio per questa forma fobica. «Ridursi sul mattone»: che significava per lei, con riferimento al pavimento a mattonelle della casa della sua infanzia, restare immobili (come gli stiliti dei primi tempi del cristianesimo), fermi sulla mattonella su cui sono appoggiati i piedi. E questo per la impossibilità di optare – come l’asino di Buridano – per qualsiasi scelta di movimento, dato che ogni scelta è rischio.

Ed ecco dunque che, volendo concludere, vengo a trovarmi anch’io nella condizione dell’asino di Buridano.

Perché da un lato dovrei raccomandare: evitate i rischi che siete in grado di scansare, e che cioè richiedono un vostro consenso. Ma dall’altro dovrei anche chiarire che non si può, e non si deve, vivere coll’ossessione di escludere ogni possibile rischio. Perché questo significherebbe rinunciare a vivere.

Rinunciare a vivere, non solo come persona, ma anche come membro della collettività.

La quale procede in questa, che è la avventura umana, la avventura della storia, del progresso tecnologico e scientifico, e della civiltà, attraverso continue scelte, individuali e collettive, e quindi affrontando continui rischi.

Perciò, come programma, il «vivere pericolosamente» è una sciocchezza, che veniva proclamata al principio del secolo, quando le acque della storia stagnavano e sembrava che l’umanità si fosse adagiata in una condizione di stabilità e di conservazione.

Tuttavia, aggiungere a quel tanto di rischio, che è insito nella partecipazione alla vita di questa nostra umanità in trasformazione, altri inutili rischi individuali, e questo soltanto per potersene poi vantare, è segno di immaturità, di vanità e di scarso rispetto per la propria persona.