Premessa
Gli scritti scelti per questa parte offrono l’opportunità di approfondire un aspetto centrale della figura di Musatti, che lo caratterizza in tutti i campi della sua attività: la straordinaria apertura mentale unita al rigore scientifico del suo pensiero, che rimanda ai suoi primi studi nel campo della matematica.
Le riflessioni su come funziona la mente dello psicoanalista nel rapporto con il paziente si concentrano sulla questione se l’indagine sul funzionamento dell’apparato psichico appartenga al campo delle scienze. Musatti riconosce che lo psicoanalista deve prendere per buono tutto ciò che racconta il paziente, nel senso che deve immergersi nel modo in cui questi vede il mondo per poterlo comprendere. D’altra parte, afferma con forza, la psicologia è una scienza biologica come le altre, che deve entrare in contatto con l’individualità specifica di un soggetto e poi individuarne le leggi della vita psichica. In questa concezione Musatti manifesta una straordinaria modernità, che anticipa recenti teorizzazioni della filosofia della scienza.
In Come e perché si diventa psicologi, testo per molti aspetti datato – è del 1958 e parla di un’Italia in cui non erano ancora state legislativamente definite le professioni di psicologo e di psicoterapeuta, né istituito l’Ordine degli Psicologi, e nella quale esistevano ancora gli ospedali psichiatrici –, propone considerazioni tuttora interessanti sul fatto che per svolgere un lavoro in questo campo è necessario possedere qualcosa di irregolare, un tallone d’Achille, un «fermento che può mettere in moto l’interesse e la sensibilità psicologica».1 Afferma che «senza un interno problema che attenda ancora una soluzione, non si sviluppa (o per lo meno è assai difficile che si sviluppi) una vocazione psicologica»,2 avvicinandosi così alle considerazioni di Carl Gustav Jung in merito al guaritore ferito. Proprio perché «si comprendono gli altri attraverso noi stessi»,3 Musatti evidenzia il ruolo cruciale dell’analisi nel percorso di formazione professionale, affermando di ritenerla utile non solo per quanti si orienteranno al lavoro clinico in senso stretto, laddove più che utile la si può dire indispensabile – per limitare il più possibile il proiettare «sopra gli altri le proprie situazioni personali» e «le cosiddette resistenze interiori e i conseguenti scotomi psichici» –,4 ma per tutti coloro che «in una maniera o nell’altra intendono esercitare una attività psicologica».5
Dimostrando ancora una volta una notevole modernità in Psicoanalisi e palcoscenico, Musatti individua nella capacità dell’analista di immergersi nelle situazioni, stando «dentro fino al collo»,6 una qualità essenziale, proprio come accade a lui stesso quando assiste a uno spettacolo teatrale, o vede un film: si perde, diventa l’altro. Offre poetiche descrizioni di questa capacità di rêverie, quando ad esempio racconta gli intensi sentimenti controtransferali provati verso una giovane paziente che «diventa» per lui la tata perduta dell’infanzia: «Fräulein Bertha, nei suoi veri e originali sembianti, è ritornata una volta di propria iniziativa da me. Una voce femminile mi chiede per telefono un appuntamento per un colloquio professionale. E arriva proprio lei, giovane quale l’avevo conosciuta e come se non fossero passati tutti questi anni, con gli stessi occhi azzurri acciaio, ma anche lo stesso viso, direi, e i capelli biondi tirati su alla stessa maniera. Soltanto non parlava tedesco: solo italiano».7 L’intensità di questo passaggio e di altri mostra la capacità di relazione emotiva con il paziente di cui Musatti era capace. La conoscenza per esperienza analitica dell’intensità di questi processi gli ha permesso di descriverli teoricamente con limpidezza da scienziato.
Gli psicoanalisti, afferma in Il segreto dell’ottimista, vivono le vite degli altri, sono «antropofilici e (non in senso materiale ovviamente ma in senso spirituale) antropofagi», si arricchiscono assimilando le esperienze degli altri: «l’impossessamento orale rimane il modello della attività attraverso la quale si forma nel tempo la persona».8 Ma per accogliere gli altri dentro di sé gli psicoanalisti necessitano di una solida personalità individuale. L’esperienza di analisi didattica, che è sempre un’analisi personale, costituisce un elemento fondamentale, come illustra in Autoanalisi, analisi didattica e analisi personale: «non poteva che essere così: non si entra infatti nella vita interiore di un altro (sano o malato che sia). Si può solo appropriarsi di una tale visione interiore, che sembrerebbe non nostra: ritrovare cioè in noi gli altri, ed elaborare interiormente quella parte di vita altrui, che siamo riusciti attraverso un processo di identificazione a fare nostra. Guarire gli altri dentro di sé dunque, quando si tratti di analisi terapeutica. Istruire anche gli altri dentro di sé, quando si tratti di analisi didattica».9 Pare qui risuonare quanto Bion ha concettualizzato in merito alla funzione alfa della madre che, a partire dagli elementi beta provenienti dal lattante, metabolizza per lui emozioni e sensazioni restituendogliele in forma assimilabile, contribuendo al tempo stesso a costruire il contenitore mentale del bambino. Ma è più probabile che Musatti, per dare forma a tali teorizzazioni, si sia richiamato alla stessa matrice freudiana da cui anche Bion è partito, presente in un passaggio contenuto nel Progetto di una psicologia (1895) – che Musatti ha giustamente voluto includere nelle Opere pur se pubblicato postumo soltanto nel 1950 – nel quale Freud parla della fondamentale funzione svolta dal soccorritore esterno nell’origine della vita psichica soggettiva.10
La profondità epistemologica di tali considerazioni è particolare in Psicoanalista e scenografo: Musatti riesce ad affrontare la questione di quale deve essere la formazione dell’analista, con incisività e levità, mettendo in scena la folla dei personaggi con cui si è felicemente identificato, senza perdere di coesione interiore. Lo psicoanalista quindi come attore e spettatore, lo spazio analitico come «cerchio magico», teatrino intimo di cui allestisce paesaggi mai visti se non attraverso gli occhi e i racconti dei pazienti, con modalità che evocano i personaggi di Antonino Ferro e le immagini della figurabilità di César e Sarah Botella. Ciò che conta per la vita di un soggetto, come già notava Freud nella famosa lettera a Wilhelm Fliess del 21 settembre 1897,11 non è una supposta realtà oggettiva, per tanti versi inattingibile, quanto piuttosto la sua realtà psichica, che ha anch’essa valore di verità per il soggetto, in se stessa e negli effetti che produce.
Questa pluralità intrinseca del soggetto è oggi particolarmente evidente nell’esperienza clinica, che si è allargata a numerosi casi limite e borderline che popolano gli studi psicoanalitici. Musatti, in Il pensiero dialogato, ne ha indicato chiaramente la radice profonda universale: «perché lo stesso individuo – benché venga detto individuo, cioè non divisibile – è in se medesimo molteplice».12 Traducendo il saggio freudiano Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926),13 testo redatto in forma di dialogo scientifico con un interlocutore imparziale, Musatti coglie nella concezione della molteplicità intrinseca dell’individuo un elemento essenziale del metodo psicoanalitico e della sua innovativa radice epistemologica. Osserva infatti che Freud, a differenza di tanti autori che sin dall’antichità classica, passando per il Rinascimento e sino a giungere all’Illuminismo, hanno fatto uso della forma letteraria del dialogo per esprimere le proprie idee, presenta l’interlocutore in modo originale rispetto alla tradizione: «non è il nemico, non è l’estraneo. Dice cose con le quali lo stesso Freud concorda. Questo, in realtà, è ciò che mi ha dato da pensare».14
L’esperienza clinica ci permette di riconoscere, come afferma Musatti, che proprio non siamo uno solo, ma che esiste una poliedricità di aspetti interiori, che l’analista, grazie anche al suo percorso formativo, aiuta a conoscere e ad accettare.