Il segreto dell’ottimista*
La nostra esistenza, l’inevitabilità dei dolori, delle delusioni, delle malattie, e infine della morte, è da qualcuno giudicata una maledizione del Signore, un vero scherzo da preti, riservatoci per nostra disgrazia, tanto da far sorgere la tentazione di chiudere bottega anzitempo, sottraendoci alla continuazione di questa tragicommedia, che sarebbe la vita. Mentre altri, pur lamentandosi, e chiamando la vita con ogni epiteto denigratorio («vitaccia», «vita da cani» e via dicendo), pur parlandone male, hanno ancor più paura della morte, e lasciano che, su questo exitus, decida il Signore: assistito al caso da quegli aiutanti che sono i medici; i medici come erano considerati una volta: ministri di vita e di morte.
Ma ci sono anche i buontemponi, che sanno gustare i piaceri della vita, che alla vita sono attaccati, che alla morte preferiscono non pensare, nella dolce illusione che il nostro sia, malgrado tutto, un mondo accettabile.
Molteplici sono le vie percorse da costoro che alla vita sono saldamente attaccati e che di essa sono soddisfatti. Non starò ad elencare tutti i piaceri che questi uomini felici si procurano: piaceri che vanno, secondo la natura delle persone, l’ambiente frequentato e l’educazione ricevuta, da quelli più grossolani e materiali a quelli più raffinati e spirituali. Del resto le distinzioni sono approssimative ed imprecise, e una scala di valori, in questo campo, è assai ardua da costruire.
Anche perché la felicità che l’uomo ricerca non è assolutamente legata alle cose di cui l’individuo nel corso dell’esistenza può fruire, o che gli vengono negate, ma soprattutto alla struttura della sua persona.
Non seguirò perciò lo schema delle discussioni che ad esempio si facevano fra i filosofi e i pensatori del Settecento, per ironizzare, come fa Voltaire nel Candide, sulla celebre affermazione di Leibniz che diceva non poter essere questo mondo che il migliore fra quelli possibili. Frase che si presta sì all’ironia caustica di un Voltaire, ma che possiede una sua metafisica bellezza, inserita nella costruzione, grandiosa e pazza insieme, della dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita.
Non voglio dunque attardarmi nelle alte sfere della metafisica prekantiana. Preferisco invece riferirmi alla condizione umana, così come si presenta a noi. A come io, e ciascuno di noi, vive la propria vita e si dispone interiormente rispetto a quello che è il proprio sviluppo storico.
E allora dobbiamo fare questa constatazione.
Uno può avere nella vita tutto il desiderabile ed essere infelice. Così come può non avere nulla, ma essere profondamente felice. Da Diogene a Charlot, sappiamo che la valutazione della felicità o della infelicità non sta tanto nelle cose, quanto nell’atteggiamento dell’uomo verso le cose. E che i dolori i quali nel corso della vita ci colpiscono, sono sì elementi negativi per chi deve soffrirli, ma non sono fattori determinanti per la caratterizzazione della vita di un uomo, in termini di felicità ed infelicità.
Vi sono persone che hanno sofferto molte sciagure, così che alla fine dell’esistenza dovrebbero chiudere in passivo il proprio bilancio, e che invece le disgrazie hanno potuto sopportare, tanto che della propria vita, malgrado tutto, si dicono soddisfatte.
Deve perciò esservi qualche cosa di soggettivo che caratterizza gli uomini, e che gli uni rende infelici, tristi, qualche volta disperati.
Ed a proposito di disperati, mi viene in mente un episodio che riguarda il figlio di un mio giovane collega psicoanalista. A scuola i suoi compagni gli avevano chiesto quale fosse la professione del padre. Ed egli aveva risposto – anche per la difficoltà di entrare nei particolari dell’attività paterna, sulla quale egli stesso, piccolino, non poteva non avere qualche incertezza –: «Fa il medico». Ma quei compagni, frequentando poi la casa del piccolo, videro un appartamento ed anche lo studio del padre del ragazzo attrezzati in un modo diverso da come immaginavano dovessero essere quelli di un medico. Per cui insistettero a chiedere: «Ma quali ammalati cura tuo padre?». Al che il ragazzo rispose: «Mio padre cura i disperati». Non avrebbe potuto cogliere con maggiore concisa precisione la natura dei pazienti, o almeno di alcuni pazienti del padre.
Perché, già, ci sono anche i disperati. Disperati non in seguito ad una disgrazia specifica, ma disperati in senso assoluto. Senza speranza. Che significa avere la vita vuota, sentita come non vita.
Ecco, individui che, del tutto indipendentemente, per lo più, dagli avvenimenti che sono loro occorsi (o al massimo sopra una sottile trama di fatti negativi) sentono questo vuoto; cosicché la loro esistenza non può venire alimentata da qualche cosa di p0sitivo.
E invece ci sono individui per i quali le disgrazie esistono, sì, ma vengono sopportate, non per insensibilità, per aridità, o per labilità di memoria, per cui le cose sgradevoli vengano gettate dietro le spalle, ma perché hanno in se stessi una forza speciale, che alimenta ed arricchisce continuamente la vita, così che godono di cose che lasciano indifferenti altri, e dispongono di inesauribili risorse; tanto che non ci sono persecuzioni del destino, sventure familiari, economiche, o di salute, che li possano piegare.
Felici, e contenti della propria esistenza, qualunque cosa accada. È proprio di questi individui che vorrei parlare. Danno l’impressione di essere in possesso di un segreto: che sul piano spirituale muta il carbone in oro, fa spuntare fra le nuvole il sole, rende una landa deserta un giardino fiorito, e la malvagità degli uomini una simpatica ingenuità di poveracci.
Credo che questi, nel Medioevo, li facessero santi. Santi con l’aureola, perché capaci di far scomparire il male negli altri, ma soprattutto in se stessi.
Per chi ai santi crede, il problema è dunque bello e risolto. Ma il povero psicologo moderno, che ai santi non può rifarsi, come se la cava per spiegare la natura di questi individui, e il segreto dunque del loro ottimismo? Che ovviamente non è un privilegio dei santi, e che personalmente neppure ritengo sia un dono della fede, di origine dunque soprannaturale, ma qualche cosa che nasce dalla intima essenza della persona?
Ci si può rappresentare la vita come qualche cosa suscettibile di impoverirsi progressivamente, fino a divenire un nulla, come abbiamo veduto, per cui non vale la pena di viverla; ma che può invece anche dilatarsi, dilatarsi a dismisura: tanto da non sembrare più una vita sola riguardante una singola persona (in contatto sì col mondo e con gli altri uomini con cui convive, ma restando singola, e perciò in definitiva, se non del tutto distaccata, separata dagli altri). Per queste altre persone invece avviene una cosa diversa. E cioè un arricchirsi con la vita altrui, che trasforma la propria unicità in una pluralità di esistenze. Questo è il segreto.
Certamente un tentativo per allargare la cerchia dei propri interessi e delle proprie esperienze viene fatto da ognuno: salvo che dal vero misantropo, il quale consuma la propria solitudine, fino a che la sua fiammella non si spenga.
Un tentativo per uscire dalla propria solitudine in genere può compiersi anche attraverso la contemplazione di tipo artistico: ad esempio coll’immergersi nella ascoltazione di quel messaggio di sentimenti, di impressioni, di vaghi sobbalzi emotivi, quali può dare la musica, ascoltata, suonata, o cantata; oppure invece attraverso le vicende che ci sono narrate da coloro che hanno il dono del narrare colorato, per cui chi legge penetra in altri mondi e in altre esistenze, e si identifica con molti personaggi, ed è – per un tempo breve – l’uno o l’altro, o tutti quei personaggi.
La virtù consolatrice dell’arte sta proprio qui. Io, uomo miserello, privo di risorse personali, a cui è stato negato un vero amore, che divento – per virtù dell’arte – signore del destino, dell’amore e della potenza, munito di ricchezza e consapevole di una propria prima ignorata genialità.
Per un breve tratto di tempo, certamente; perché da un siffatto sogno si esce presto; ma intanto per quel tratto di tempo tutti gli affanni della vita sono stati dimenticati, e il nostro bilancio è stato per quella durata in attivo.
Tuttavia, quando si ha occasione di ascoltare le persone che beneficiano di questi limitati periodi di gloria e di eccitazione trionfale, si ha quasi l’impressione che esse siano state vittime di una beffa.
Dal sogno che l’arte procura ci si deve pure risvegliare, così come al mattino ci si sveglia dal sogno che abbiamo confinato dentro di noi, durante la notte. Ed il risveglio può essere ancora più amaro.
No, la finzione non basta all’uomo normale. Forse potrebbe bastare all’individuo che, per effetto di turbe psicologiche, si è staccato del tutto dalla realtà, e che dalla fantasia provocata da altri, o costruita dalla propria mente ammalata, non esce, assumendola come realtà effettiva. Ma neppure così la felicità è raggiunta, perché quegli stessi fattori che lo hanno fatto staccare dalla realtà, che l’hanno cancellata per lui, intervengono nella creazione del suo mondo fittizio: in cui egli si rifugia prendendolo per vero, ma in cui ritrova – se pur travestiti – i mali, le sconfitte, le perdite di personalità, gli elementi di morte, altrui e propria, che hanno determinato il delirio.
No. Gli psicologi, gli psicopatologi, gli psichiatri, gli psicoanalisti, possono andar frugando in queste formazioni mentali, in cui l’ammalato che rifiuta la realtà si è rifugiato, alla ricerca di un briciolo di felicità. Ma lui, l’alienato, lo schizofrenico, o il paranoico, si è portato dietro tutto il suo dramma della vita reale, ed ha insudiciato lo stesso delirio, in cui si voleva rifugiare cercando la felicità, con la sofferenza della vita reale dalla quale aveva tentato di fuggire.
Se l’arte è un rimedio breve da cui ci si può risvegliare con la bocca amara, la follia non è rimedio per nulla. E la morte, data a se stesso direttamente, o indirettamente dopo aver scatenato l’aggressività verso altri, è la soluzione obbligata, per chi dalle leggi della vita è stato costretto a fuggire.
Se vogliamo indicare la via della felicità e il segreto dell’ottimismo, siamo completamente fuori strada.
È bensì vero che l’unica vera via porta ad uscire dai confini della propria esistenza individuale. Ma non verso le aride steppe della follia, o la breve evasione negli scenari della fantasia e dell’arte.
Occorre arricchire la propria vita in altri modi. Arricchirla così che anche le più angosciose piaghe aperte in noi dagli avvenimenti reali che toccano la nostra persona possano prosciugare e lasciarci respiro, così da rinnovare ancor sempre, testardamente, la capacità di vivere, e di farlo attivamente e gioiosamente. Rinascere dunque di continuo, qualunque sia la ferita che ci è stata inferta.
Se la vita ti è stata matrigna, vivi altre cento, altre mille vite. Tante così da sentirti ricco più di qualsiasi ricco.
Sì, ma come si fa?
Ho detto che quello dell’ottimismo è un segreto. E i segreti dovrebbero restare tali. Tuttavia, poiché mi sono impegnato, dovrò pur rivelarlo.
Come si fa a vivere, oltre alla propria, una vita altrui? È in definitiva semplice. Abbiamo fatto prima l’esempio della musica e del romanzo, ed abbiamo detto che tutto andrebbe bene, se non ci fosse il momento in cui la musica ha termine, il romanzo è giunto alla sua conclusione, il sipario è calato; e noi ci ritroviamo soli con noi stessi. Magari con noi stessi più soli di prima, per cui ci avviene di scontare i periodi di felicità vissuti, col momento della fine, col rientro nella vita solitaria, col riprendere l’esistenza di ogni giorno. E il senso magari di avere vissuto una finzione o un sogno, ci procura un certo disagio, quasi ci fossimo lasciati ingannare da quella finzione.
Certamente non ci son regole, e ci sono finzioni e finzioni. Quelle che siamo pronti a rifiutare, staccandocene e non sentendole poi più qualche cosa di nostro (qualche cosa della nostra vita) e finzioni che acquistano il peso e la consistenza di una roccia, e che ci portiamo dietro come cosa nostra, che non perderemo, che ci accompagneranno per tutta la vita, arricchendola per sempre.
Tuttavia queste situazioni sono in definitiva rare.
Ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che può veramente riempire stabilmente la nostra esistenza, dilatandola, è la persona viva, il cui mondo interiore noi possiamo far nostro.
Personalmente, ho condotto un mestiere particolare, e non posso certo costituire una regola. Ma credo di poter parlare di questo mio mestiere a titolo di esempio. Ben consapevole che non è il mestiere in quanto tale che ha dato a me un certo potere o una certa possibilità. Ma che anzi se mai è vero proprio il contrario. E che cioè al mestiere stesso sono pervenuto, perché avevo una tal quale attitudine ad identificarmi col prossimo: a vivere le sue vicende, a mettermi al posto suo, a soffrire (sì, anche) con lui, ma insieme così dilatando in questo modo la mia persona, ed accogliendo in me la vita degli altri.
Però forse anche questo è sbagliato. In quanto mestiere ed attitudine non sono disgiungibili.
Si arriva al mestiere quando si è portati a questo identificarsi con la vita altrui; e ci si identifica perché questo è il solo modo per comprendere quello che succede nell’altro, e di svolgere così – se ci si dedica ad una attività psicoterapeutica – il proprio lavoro. E le due cose vanno di pari passo.
Debbo anche dire che, da questa identificazione con l’altro, che c’è nel mestiere da me praticato, ci si deve anche in qualche misura difendere. Agli allievi nostri noi diamo istruzioni contradditorie. Perché da un lato diciamo che una immedesimazione col paziente è indispensabile per poter rivivere in noi quella che è stata ed è la sua vita. Ma dall’altro lato raccomandiamo di mantenere separata la propria vita personale da quella del paziente, e formuliamo regole precise per mantenere determinate distanze. Tuttavia nulla di nuovo c’è neppur qui. Anche l’attore deve veramente vivere la vita del suo personaggio. Ma lo fa in un modo particolare, salvaguardando la propria persona e non lasciandosi inquinare.
Certo è difficile in linea generale stabilire come debba essere il contatto umano e la umana comprensione, e insieme la difesa della propria persona, così che non venga, per così dire, diluendosi in quella degli altri.
È difficile; è molto difficile certamente. Perché qui è il fulcro della vita sociale, del vivere insieme, della umana simpatia e solidarietà, e nello stesso tempo la salvaguardia della pr0pria individualità. Per cui vivere la vita altrui sia un effettivo arricchimento, così che gli altri divengano parti di noi stessi e tuttavia noi restiamo ciò che siamo. Anzi direi che occorre avere una salda personalità individuale per poter accogliere in sé altri, tutti gli altri.
Ritornando per un momento al mio tipo di attività, racconterò che una volta un mio amico, a cui dicevo che in definitiva i pazienti bisogna amarli per poterli comprendere ed aiutare, mi 0biettò: «E se il paziente ti è antipatico?». Gli risposi subito nel solo modo possibile: «Se il paziente mi è antipatico, debbo farmelo diventare simpatico». «Ma è possibile?» «Sì, è possibile. Per lo meno quasi sempre possibile». Perché debbo comprenderlo, anche negli elementi negativi che ci sono in lui. E a tal fine debbo analizzare me stesso e le radici di questa mia antipatia. I suoi elementi che mi appaiono negativi debbo sentirglieli nascere dentro, per effetto di qualche situazione particolare. E debbo partecipare alla sofferenza che c’è in lui per questi elementi, che spesso egli stesso avverte come negativi (tanto che anch’egli può essere antipatico a se stesso). Ho avuto in analisi naturalmente anche veri e propri delinquenti, pure con colpe pesanti, ma sono stati per me come gli altri.
Però sto soffermandomi troppo sul mestiere che ho fatto, e che in definitiva è qualche cosa di puramente contingente; e che poi mestiere non dovrebbe mai diventare: perché non vada perduta quella capacità spontanea, immediata, istantanea, di penetrare nella vita altrui, impadronendosi (ovviamente senza portargli nocumento) di quella vita, e facendola propria.
Però se ho parlato tanto della professione (quella dello psicologo e dello psicoanalista) è soltanto perché (come chi mi legge può comprendere), mi torna più facile, per descrivere le cose, rifarmi ad una attività lungamente esercitata. Non perché questa capacità di identificazione costituisca un privilegio di una data categoria di persone, alla quale io stesso appartengo.
Ho conosciuto in modo diretto molti individui che non si sono mai sognati di fare gli psicologi o gli psicoanalisti, e che hanno avuto questa capacità di arricchire la vita propria con la vita degli altri. Ed ho una visione quasi plastica di questo prolungare la propria persona negli altri: che costituisce un fattore se non propriamente maniacale, certamente trionfalistico.
Non lo proclamano ai quattro venti: per pudore, per modestia, per riservatezza; ma costoro hanno vissuto molte vite. E sono ottimisti. Perché della vita, delle risorse esistenti, conoscono tutto.
Una mia pazientina, andata un giorno a Venezia, mi mandò una cartolina con la propria fotografia, una istantanea scattata su uno dei tanti ponti che a Venezia ci sono, un ponte che parte da una fondamenta per attraversare un rio. Il ponte proveniva dalla Fondamenta del Rimedio. A lei, alla ragazza, faceva impressione e insieme faceva anche molto ridere questa espressione «Fondamenta del Rimedio». Come se esistesse una strada (a Venezia si dice soltanto calle, calle larga, salizada, rio terà, fondamenta) dove per qualunque disavventura o disgrazia, esistesse, in loco, il rimedio.
La ragazza è un impasto di malinconia e di ottimismo. A me ha voluto mandare una cartolina ottimistica. «Per ogni male dunque c’è un rimedio». Spero di aver potuto essere io un rimedio per lei. Se lo sono stato è soltanto per averla fatta partecipare a questo allargamento della propria vita, con quella altrui: a questo accogliere gli altri in sé.
Ora, giunto alla fine, mi assale, lo confesso, qualche dubbio.
È una dote innata, o qualche cosa di acquisito, questa capacità di dare respiro ed ampiezza alla propria esistenza, partecipando a quella altrui?
In fondo si tratta della stessa domanda posta prima per quanto riguardava la attitudine al mestiere, e l’effetto prodotto su di noi dall’esercizio dello stesso mestiere.
E se la domanda torna, anche con altra forma verbale, a presentarsi, ciò significa che qualche cosa di irrisolto permane, e che il problema del tutto liquidato non è.
Esiste certamente un fattore originario: ottimisti si nasce. Allo stesso modo come esiste una spinta alla socialità. Anche in chi si rinchiude in se stesso: per pudore, per timidezza, per timore degli altri, per diffidenza, per mancanza di una maturità spirituale o per insufficiente curiosità verso gli uomini: curiosità di come sono, come vivono, che cosa sentono, e come è la immagine che hanno dell’esistenza. Ed è forse questo che stabilisce il legame fra una attitudine professionale (che – per carità – non è soltanto quella dello psicologo e dello psicoanalista, anche se si vede di più in questo genere di lavoro) e la tendenza a divenire non dirò filantropi, ma antropofilici e (non in senso materiale ovviamente ma in senso spirituale) antropofagi.
E badate, non è uno scherzo di parole: sembra infatti che gli antropofagi, quelli veri (i cannibali insomma) siano persuasi di impossessarsi in qualche modo della personalità di colui di cui si cibano.
Bene: mi rendo conto che qui sto esagerando, facendo diventare modello di ottimismo l’antropofagia.
Ma tuttavia, se spogliamo questa espressione di tutto ciò che di macabro e insieme di paradossale e sarcastico possa avere, qualche cosa di vero c’è in questa maniera di esprimersi.
Perché l’ottimismo, il vero ottimismo, quello del cui segreto ho voluto parlare, nasce davvero da una fame di umanità, e da un bisogno di introiettare in se stessi tutta la estensione della esperienza umana e tutta la varietà in cui si rifrange nei vari individui quella che è la nostra comune molteplice umanità.
E poi non dimentichiamo che, in campo religioso, il sacramento della comunione indica anch’esso una incorporazione da intendere come fatto spirituale.
Bella conclusione, direte voi. Per essere ottimisti bisogna diventare antropofagi.
Certamente la cosa fa ridere.
Ma gli psicoanalisti, sulle orme di Freud, hanno studiato le varie fasi dello sviluppo della pulsionalità istintiva umana. Ed hanno individuato come prima ed originaria fase di un tale sviluppo, proprio la oralità.
Il bisogno dell’impossessamento orale non è soltanto una necessità che si manifesta subito dopo la nascita, col bisogno di succhiare il latte materno (o i vari surrogati che nell’età nostra sono stati inventati), ma è l’origine dell’intero sviluppo della persona.
Orali siamo tutti, non soltanto perché mangiar bisogna, ma perché l’impossessamento orale rimane il modello della attività attraverso la quale si forma nel tempo la persona.
Si usa pur dire: «Nozioni mal digerite»; «fame di sapere»; «caro questo bambino, me lo mangerei di baci».
Metafore indubbiamente: che tuttavia hanno una loro ragion d’essere.
E la cosa risulta particolarmente visibile, quando procediamo ad un rovesciamento della situazione.
Intendo parlare di una malattia grave, che, se non curata a tempo, può portare alla morte: l’anoressia mentale. Molti sapranno di che cosa si tratti, anche perché viviamo in un periodo in cui il numero degli anoressici è in forte aumento. Il soggetto affetto da questa forma rifiuta l’alimentazione. Ma non come Pannella a scopo pubblicitario (sia pure per cause nobili ed apprezzabili), ma per uno spontaneo rifiuto di quella universale operazione, comune a tutti gli esseri viventi, di rinnovare le scorte di cui l’organismo dispone per continuare a vivere.
Si tratta dunque di un rifiuto della realtà, di un dire di no al mondo. È dunque la situazione opposta a quella dell’ottimista. Egli è potenzialmente un suicida. Ma non un suicida attivo, per disperazione, per protesta, per il bisogno di compiere un atto di violenza su di sé (dal momento che non è possibile, o non è permesso compierlo su altri).
No: l’anoressico semplicemente disprezza il mondo, si chiude in se stesso, dimostra di non aver legami con alcuno, e di voler soltanto esser lasciato morire.
Come il digiunatore del racconto di Kafka: il quale non digiunava per stabilire (secondo quanto la gente credeva) strani record di durata, ma perché aveva orrore, repugnanza, schifo di ciò che gli altri potevano offrirgli per mantenersi in vita. Un anoressico egli pure, dunque; ed un misantropo negatore degli uomini e del mondo.
Allora. Se mi è consentito mantenermi sul piano della metafora (e dire cose che sono molto serie col linguaggio scanzonato, che mi è congeniale; perché io, sì – malgrado i numerosi guai che ho avuto nel corso della vita – sono indubbiamente un vecchio ottimista), se mi è consentito questo, dirò che il segreto dell’ottimista è quello di non considerare nulla delle cose del mondo estraneo ai propri interessi, e tale dunque da non invogliarlo a farsele proprie e ad immedesimarcisi. Cioè un individuo che aspirerebbe ad essere tutti, e ad arricchire la propria esperienza delle esperienze di ognuno: il che tuttavia non significa accettare passivamente quelle esperienze, ma lottare quando c’è da lottare, e portare in ogni luogo la propria persona. Rendendo così la propria vita e la esperienza individuale estremamente ricca, la più ricca possibile.
Mentre l’anoressico, che vogliamo assumere come l’espressione tipica di una posizione antitetica, riduce al nulla i suoi contatti col mondo esterno; taglia ogni ponte con la realtà, così come vorrebbe tagliare la cannula con cui si tenta di alimentarlo artificialmente per via endovenosa. Finché non giunga, liberatrice, la conclusione finale, e il mondo intero, variopinto, con tante impressioni e desideri ed esperienze diverse, per lui non scompaia nel nulla, e sopraggiunga la morte volontaria di colui che ottimista non ha voluto, o non ha saputo essere, e quanto è umano ha deciso per sempre di negare.