Autoanalisi, analisi didattica e analisi personale*

È divenuto un luogo comune, universalmente accettato dagli psicoanalisti, il principio per cui non si può svolgere una attività analitica su altre persone se non ci si è preventivamente sottoposti personalmente ad un trattamento psicoanalitico.

La ragione è ovvia: non si può esplorare negli altri le complicazioni che si formano all’interno della persona, se questo lavoro esplorativo non è stato compiuto sopra noi stessi da un altro esperto. La personalità profonda di un individuo non è accessibile all’individuo stesso, in quanto forze molteplici, le cosiddette resistenze, lo impediscono, ed occorre che chi ha già superato le proprie resistenze aiuti il nuovo venuto a fare altrettanto con se medesimo.

Certamente, espressa così, questa necessità fa sorgere subito un problema. Un problema simile a quello di fronte al quale si trovò ai suoi inizi il mondo cristiano. Senza il Battesimo che liberi il catecumeno dal peccato originale non c’è salvezza. Ma d’altra parte sembrerebbe che solo un battezzato possa impartire ad altri il Battesimo (anche se nei tempi successivi il diritto canonico consentì che si facessero delle eccezioni).

Ed ecco apparire la figura del Battista, del Precursore, di colui che non è ancora il Messia, ma l’annunciatore: il quale battezza quanti credono nell’avvento del Dio incarnato. E Gesù stesso ricevette il Battesimo da Giovanni.

In questo modo la situazione sembra alla meglio aggiustata, nella cerchia di quei primi ebrei che hanno creduto in Cristo.

Ma noi psicoanalisti non abbiamo avuto un Battista; a meno di non assegnare questa funzione al dottor Fliess, che di Freud era l’intimo amico e confidente all’epoca della fondazione della psicoanalisi.

Fu lo stesso Freud che elaborò il metodo psicoanalitico. E Freud applicò l’analisi a se medesimo: facendo perciò quella autoanalisi di cui si dice oggi che è qualche cosa di impossibile per tutti coloro che dopo di lui sono venuti. Per modo che gli psicoanalisti esistenti dovrebbero avere tutti un loro personale pedigree, risalente al primo analista: a Freud.

Lo dovrebbero avere anche coloro che si dicono dissidenti, come i seguaci di Adler, di Jung, e magari ora di Lacan, e di tanti altri di recente sorti autonomamente come funghi.

C’è molto di ebraico in tutto questo, anche se per gli ebrei la ebraicità è trasmessa soltanto per via femminile. Ebreo infatti è, per gli ebrei – a parte le successive pratiche effettuate sui maschi e quelle che corrispondono ad una confermazione –, soltanto chi è figlio di madre ebrea.

Ma ritorniamo agli psicoanalisti, ed alla loro discendenza da una protofigura: quella dello stesso Freud.

Dell’autoanalisi di Freud abbiamo molte notizie: desunte dalle sue lettere scritte a Fliess, e poi dalla Traumdeutung, il cui carattere autobiografico, specialmente se ci soffermiamo sulla prima edizione dell’opera, risulta chiaramente.

Freud si sottopose ad un’autoanalisi nell’estate del 1897. Pervenne così a ricostruire molti elementi della sua vita infantile, ed a correggere alcuni falsi ricordi riguardanti i suoi rapporti infantili col padre. Contemporaneamente guarì da alcuni suoi disturbi nevrotici, come stati di angoscia e come alcune fobie specialmente per i viaggi.

Freud per effettuare la propria analisi si era ispirato a un caso curato da un suo collega, Joseph Breuer: il caso di Bertha Poppenheim. Questa da sola aveva inventato il sistema di sottoporsi ad una «pulizia» che chiamò «da spazzacamino», per liberarsi dagli inconsci grovigli che stavano alla base dei suoi disturbi.

Freud disse anche di non aver mai concluso la propria autoanalisi, e di avere, nel corso della vita, dedicato sempre un certo tempo ogni giorno per trarre – col metodo stesso che veniva applicando ai pazienti – la spiegazione dei propri comportamenti e dei propri pensieri, svincolandosi da antichi residui della sua vita infantile, e da fattori psichici in lui latenti, che egli riuscì a cogliere e a sistemare.

Dichiarò egli stesso che quanto faceva in tal modo corrispondeva a quello che egli faceva con i pazienti (associare, abbandonarsi ai pensieri che fuggevolmente apparivano alla sua mente, stabilendo legami di questo materiale emergente in forma apparentemente casuale con i fatti ed i pensieri della propria vita cosciente), individuando nel contempo le resistenze, le difese, i processi di rimozione, che tentavano di occultare quanto di doloroso, di perturbante, di inabituale, di proibito c’era in lui; e corrispondentemente affrontando tutto questo.

Freud affermò che questo lavoro era stato per lui estremamente difficile. E possiamo comprendere che esso non sia mai stato esaurito.

Sappiamo che anche coloro che si sono sottoposti ad una formazione psicoanalitica, ed alla analisi personale condotta su loro da un altro esperto, non pervengono mai ad una conclusione che possa essere del tutto esauriente. Escono dall’analisi (che in questo caso diciamo didattica) avendo in gran parte esplorato la zona inconscia della propria personalità. Ma soprattutto avendo appreso a continuare da soli il lavoro della analisi.

Così… sì: in un certo senso l’autoanalisi è un lavoro improbo, che soltanto ad un uomo come Freud poté riuscire: e non completamente, non del tutto, perché, per usare una espressione dello stesso Freud, ogni analisi è a rigore interminabile.

Sul piano pratico possiamo anche fissare, come fece appunto Freud, criteri per dire che l’analisi è completata. Ma in realtà non vi è alcuna sicurezza di avere esaurito il lavoro analitico.

Perché la nostra vita si svolge di fatto alla luce del sole, intendendo con questo sul piano della coscienza. E i processi inconsci divengono sì permeabili e comprensibili attraverso la analisi, ma si rinnovano continuamente; e in qualche angolo buio di noi stessi vanno a rincantucciarsi sempre cose nuove, che magari una volta sono state portate a livello di coscienza, ma che poi sono tornate a nascondersi.

Della analisi didattica, da lui considerata indispensabile per poter poi esercitare l’analisi su altri, Freud aveva un’idea molto diversa da quella che ne hanno gli psicoanalisti moderni; per lo meno quelli dell’indirizzo ortodosso e che provengono per gradini successivi dallo stesso Freud e dai suoi primi allievi: gli apostoli (per conservare il parallelismo con la diffusione del cristianesimo).

Freud infatti sosteneva che l’analisi didattica poteva limitarsi a far prendere coscienza all’allievo delle modalità caratteristiche del pensiero inconscio, e a rendere lo stesso allievo cosciente delle resistenze che agiscono in lui come in ognuno: quelle resistenze che si oppongono al riconoscimento del materiale inconscio. Inoltre si doveva far prendere coscienza all’allievo di alcuni fenomeni che si producono nel corso di una analisi, quelli del transfert: fenomeni che possono essere utilizzati per l’analisi, ma che talora possono anche rappresentare per essa un grande ostacolo. Dopo di ciò l’allievo dovrebbe procedere da solo.

Presso gli psicoanalisti moderni l’analisi didattica è qualche cosa di assai più complicato. Non differisce in sostanza da una comune analisi terapeutica (perché la differenza tra l’individuo sano e il nevrotico non è poi tanto rilevante) e quindi l’allievo è considerato un paziente come tutti gli altri.

Se da un lato si può dire che l’analisi didattica non differisce essenzialmente da un’analisi terapeutica, e che, se mai c’è una differenza, essa riguarderebbe soltanto lo scopo del particolare rapporto analitico costituito tra colui che conduce l’analisi e colui che in un certo senso la subisce, dall’altro si può fare una diversa identificazione.

Che cosa fa l’analista col proprio paziente se non farlo associare e spiegargli poi i legami che esistono tra le associazioni e i suoi sintomi, o meglio tra le associazioni ed i processi psichici agenti nell’inconscio, e che in genere hanno una origine remota risalente alla prima infanzia?

Ma tutto questo l’analista lo può fare solo interrogando se medesimo: cioè ritrovando in sé quei processi, quegli impulsi, quelle difese che hanno a che fare col materiale (costituito insieme dai sintomi e dal complesso di idee, ma anche da tutti i comportamenti, e le manifestazioni di ogni genere, presentate dal soggetto).

Certo questo può apparire strano. L’analista (che si presume immunizzato dai meccanismi patologici agenti nel paziente) deve cercare in se stesso le strutture psichiche che costituiscono la malattia del paziente medesimo.

È così, e non potrebbe essere differentemente.

Non si riuscirebbe infatti a comprendere il nevrotico, se non si riuscisse a rintracciare in se stessi, attenuati, se vogliamo, in miniatura, qualche volta caricaturizzati, talora anche semplificati e sterilizzati, i processi stessi che – in forma invece drammatica – si ritrovano nei pazienti.

Non si comprende e quindi non si guarisce alcuno, se non ci si mette al posto stesso del nostro paziente.

La conclusione di questo discorso assume allora veramente un carattere paradossale.

Abbiamo distinto l’autoanalisi (quella che solo a Freud sarebbe riuscita) dall’analisi didattica, che dell’autoanalisi (ritenuta per lo più impossibile) dovrebbe fare le veci.

Ma poi abbiamo detto che l’analisi didattica non si distingue essenzialmente dall’analisi terapeutica. E infine abbiamo affermato che l’analisi terapeutica implica l’autoanalisi; anzi che essa era ed è sempre e soltanto un’autoanalisi: perché soltanto rivivendo in sé la nevrosi del paziente, e sentendo sulla propria pelle (con l’aiuto del paziente, certo) i processi che agiscono nel nevrotico, l’analista coglie l’essenza dei nuclei nevrotici, e li può sciogliere in sé e nel paziente.

Si deve allora concludere che vi è sempre soltanto una autoanalisi: quella autoanalisi che però avevamo dichiarato impossibile e che sarebbe riuscita soltanto a Freud (sia pure in modo difettoso e parziale, perché Freud dovette farsi da solo la sua pratica).

Il risultato è veramente conturbante.

E tuttavia non poteva essere che così: non si entra infatti nella vita interiore di un altro (sano o malato che sia). Si può solo appropriarsi di una tale vita interiore, che sembrerebbe non nostra: ritrovare cioè in noi gli altri, ed elaborare interiormente quella parte di vita altrui, che siamo riusciti attraverso un processo di identificazione a far nostra.

Guarire gli altri dentro di sé dunque, quando si tratti di analisi terapeutica. Istruire anche gli altri dentro di sé, quando si tratti di analisi didattica.

Con ciò non si vuol fare un minestrone, dove si ficca dentro tutto.

Rimane la grossa difficoltà di compiere una autoanalisi senza lo stimolo e l’aiuto altrui; e l’autoanalisi in quanto tale rimane veramente un’impresa pressoché impossibile.

Resta il fatto che quello stimolo e quell’aiuto altrui di cui sopra dicevamo, quando debba venire utilizzato ai fini di acquistare la capacità di prendere in analisi persone che ne abbiano bisogno sul piano terapeutico, debbono venire ricercati presso un analista esperto, quello che noi chiamiamo analista didattico, sottoponendosi dunque ad analisi presso un tale didatta.

E resta il fatto che soltanto coloro che siano divenuti analisti mediante un’analisi condotta da un loro didatta possono essere considerati idonei ad esercitare l’analisi terapeutica sopra pazienti.

Per cui, nell’impossibilità di stabilire una regolamentazione più precisa dell’esercizio professionale della psicoanalisi, le norme che le varie sezioni della Società internazionale di psicoanalisi hanno stabilito costituiscono per il momento la migliore soluzione possibile per tutelare il pubblico da pseudopsicoanalisti improvvisati e non controllati, e per dare un certo ordinamento all’esercizio della professione dell’analista.