Psicoanalista e scenografo*

Una era la madre, l’altra doveva essere la zia. Il ragazzo non aveva voluto venire, e così mi raccontarono loro la sua storia. Era stato un bambino normale: un po’ chiuso, ma in complesso normale. Aveva fatto il ginnasio-liceo, poi si era iscritto a Medicina. Fece il primo anno due esami, ma stentatamente. Smise allora di studiare e diede segni di squilibrio. Sono forme frequenti: ragazzi che, passata l’adolescenza, ed affacciatisi all’età propriamente giovanile, perdono la capacità di comportarsi normalmente, di studiare, di mantenere contatti con altri giovani, e presentano elementi schizofrenici più o meno accentuati.

Le due donne mi raccontarono anche che lo avevano fatto vedere. «Sa, da un famoso professore di Verona, Cheru…». Le fermai a metà parola e dissi: «elettroshock». «Si, gli fece molti elettroshock, senza esito purtroppo. Ma lei come fa a saperlo?» «Conosco un poco questi psichiatri, anche quelli che vanno per la maggiore; e così so anche come si comportano e ciò che di preferenza prescrivono ai pazienti».

«Poi lo abbiamo portato da un altro professore», e disse il nome. Ed io subito: «che prescrisse una serie di psicofarmaci».

«Sì, proprio così. Abbiamo interpellato anche una psicoanalista, la dottoressa Righini. Ma non ci fece una buona impressione. Perché sa, la prima cosa che ci chiese è se i suoi genitori, quando lui era piccolo, si picchiavano fra loro».

Rimasi per un momento perplesso. Righini, Righini. «Scusi, ma non è per caso originaria di Borgonuovo?»

«Sì, sì, appartiene a una famiglia molto nota che è proprio di quel paese lì».

«Ah, ma allora la conosco benissimo. È un’ottima psicoanalista ed è stata, vari anni fa, mia allieva per parecchio tempo. È bravissima. Vi potreste fidare».

«Sì, ma sa; quella domanda fatta a bruciapelo sui genitori ci ha disgustato».

«So anche l’origine di quella domanda!» Comunque, io non potevo consigliare nulla per il ragazzo. Dissi semplicemente che sono forme non tanto belle. Qualche volta, sì, regrediscono. Ma per lo più le cose non vanno bene. Il paziente si sente legato in tutte le sue facoltà mentali e in condizioni di inferiorità rispetto agli altri giovani. Questo incattivisce anche, e spesso si è costretti a ricoverarlo.

«Io non saprei che cosa consigliare. Cercategli un lavoro semplice, dove si possa un po’ impegnare. Non so che cos’altro dirvi, ma se avete ancora contatti con la dottoressa Righini, affidatevi a lei che va benissimo».

Uscite le due donne, mi misi a pensare. Di questa dottoressa che era stata nominata, io conosco molte cose, perché l’ho avuta in analisi per parecchio tempo, come ho detto. So che la madre era ammalata di mente da molti anni, e che dava in escandescenze col marito. Il marito, il padre della ragazza dunque, da anni non rivolgeva più la parola alla moglie. Mentre le due sorelle maggiori della mia allieva avevano addirittura sequestrato la madre, chiudendola in una stanza dalla quale non poteva avere contatti con l’esterno.

Per la vergogna! Per la vergogna! Perché avere un ammalato di mente in casa costituisce una macchia per tutta la famiglia. E la figlia minore, la mia allieva, aveva passato tutta l’infanzia e la giovinezza in questa atmosfera allucinante. Aveva studiato medicina, poi si era diplomata in psichiatria, ed era venuta in analisi da me, col miraggio di divenire a sua volta analista e di poter curare la madre: la quale, a quanto ricordo, presentava una forma maniaco-depressiva.

Ma all’insaputa di tutti; per questo pregiudizio, che le malattie mentali costituiscano qualche cosa di vergognoso per tutta la famiglia, e perciò da tener nascoste.

Era un sequestro di persona vero e proprio. Un reato grave.

Ed ora tutta la storia della mia allieva mi si presentò nei particolari, e si risvegliò in me l’antico affetto che avevo per la ragazzetta, venuta in analisi col miraggio di guarire la madre.

Abitavano in un grande stabile, che era stato un tempo un mulino. Ora il mulino non funzionava più. C’era solo l’edificio ed esso consentiva che la madre, tenuta prigioniera, potesse affacciarsi e prendere aria da un cortile interno, sottratta ad ogni vista indiscreta.

Ripensandoci, dopo tanti anni, molti episodi mi vengono in mente.

Come quella volta che sulla piazza del paese la mia paziente, allora bambina, reduce da scuola, incontrò suo padre che era sopra pensiero e che neppure la guardò; per cui lei ci rimase tanto male, e anche ne voleva al padre per quell’episodio; come del resto gliene voleva per la malattia della madre. Le pareva che anche quella malattia fosse dovuta a dissapori fra i coniugi. E lei era incerta se parteggiare per il padre, che era burbero e immerso nei propri pensieri, o per la madre, con la quale non si poteva entrare in contatto: perché era ammalata (le avevano spiegato le sorelle) e che soltanto un grande medico avrebbe potuto guarire.

«Io sarò quel medico», pensò la bambina; e così studiò medicina, e poi psichiatria. Quindi era venuta da me per divenire psicoanalista.

Ma allora, la domanda fatta a proposito del ragazzo che le era stato portato come paziente, «Si picchiavano padre e madre?», era ripetuta per quel giovane schizofrenico, ma riguardava la propria storia personale.

Questa sua storia personale mi ritornò in mente, ed io la vidi.

Debbo proprio dire che la vidi. E nel contempo mi si presentò un problema.

Ogni volta che noi parliamo con un’altra persona e questa ci descrive un posto qualsiasi dove gli è accaduta qualche cosa, noi siamo indotti a rappresentarci visivamente quel posto.

Naturalmente, in genere ciò accade in modo molto sommario, perché esattamente – se non conosciamo già il luogo – non ce lo possiamo rappresentare.

Non saprei esprimere le cose in modo diverso da questo: facciamo mentalmente un disegnino, uno schizzo alla buona, della località. Quel tanto che ci consente di figurarci la scena, il dialogo, o quant’altro il nostro interlocutore ci sta dicendo.

Poi questo disegnino lo buttiamo via, lo espelliamo dalla memoria, perché non ci serve più.

Afferrato il fatto che ci è stato narrato, è questo che in qualche modo rimane nella nostra memoria, e non il luogo, che non conta e non ha importanza.

Credo che tutti possano essere d’accordo con me su questo modo di descrivere le cose.

Ma adesso riferiamoci alla condizione di uno psicoanalista, che sta per ore ed ore ad ascoltare i vari fatti costituenti la vita del paziente.

Questi gli racconta dall’età più tenera, badate, dal primo o dai primi ricordi. E ritorna ripetutamente ad esporre altri fatti avvenuti proprio nello stesso ambiente. In questo caso non si possono costruire ogni volta disegni e schizzi. L’ambiente prende corpo, le cose hanno un loro posto. L’analista ha di fronte a sé la struttura completa dell’ambiente dove tanti fatti sono accaduti. E ad ogni racconto, mette nel luogo esatto i personaggi e gli oggetti.

Si crea cioè qualche cosa come una recita, a lunghi intervalli anche, ma in cui ci si ritrova, perché l’ambiente è sempre quello.

Sì, lo psicoanalista (ma se si trattasse di un ascoltatore abituale che, non per esigenze analitiche, ma per altri motivi, dovesse sentirsi ripetere le cose accadute in un posto dove egli non è mai stato, sarebbe la stessa cosa), lo psicoanalista dunque, diventa architetto, urbanista, o scenografo, secondo le esigenze dei fatti.

Dirò di più: a tratti lo scenografo può sbizzarrirsi e cambiare, ad esempio di atto in atto, la scena.

L’analista che deve ricostruire la storia del proprio paziente, in base al racconto che questi gli fa – dalla prima infanzia all’età adulta – ha in certo modo meno libertà di inventiva e di mutamento, di quanto ne abbia lo scenografo.

È più legato: e quella che egli costruisce è una realtà più solida, e meno plastica, di quanto non sia una creazione teatrale.

Solida ed immodificabile. Tanto è vero che un giorno, trovandomi da quelle parti, ho voluto andare a vedere Borgonuovo.

E lì accadde quello che è logico dovesse accadere, ma che mi lasciò sbalordito.

In macchina, seguendo qualche cartello segnaletico, arrivai in questo luogo, che di Borgonuovo aveva il nome, ma, per quanto mi riguarda, non l’aspetto.

Mi fermai in uno slargo della via; scesi dalla macchina e domandai: «Scusi, mi saprebbe dire dov’è la piazza?».

«Ma è proprio questa», mi sentii rispondere. Dio mio! La piazza, la grande piazza, dove la bambina incontra suo padre, che neppure la guarda. La grande piazza non è che questo spiazzo di pochi metri quadri!

«E scusi», continuai, «e il mulino, il vecchio mulino, dov’è?»

«Ah! Non c’è più. Hanno buttato giù tutto, e fatto degli appartamenti».

Balle! Balle! Balle! Borgonuovo c’è, col suo mulino, e la sua gran piazza. E questo è qualcosa di camuffato: una caricatura.

Il vero paese è quello che io ho nel cuore. Quello che ho sentito descrivere dalla mia pazientina, e che mi sono ricostruito per conto mio.

Debbo dire che questa storia mi ha sconvolto.

Non ho una grande memoria. Ma i pazienti, caspita, non sono gente qualunque. E allora mi è venuto il desiderio di ricostruire. Fin dove potevo, con questa mia capacità di farmi scenografo: uno scenografo che non si serve di colla, cartoni e spago, ma costruisce – sia pur nella propria mente – qualche cosa di solido e duraturo.

Ho cominciato col mio primo vero paziente. È roba di quasi sessant’anni fa, e non ho più bisogno di osservare particolari riguardi per nomi e per cose. Era il titolare di una di quelle che allora si chiamavano cattedre ambulanti di agricoltura: un agronomo dunque.

Egli mi raccontò il suo primo ricordo d’infanzia. Allora non esisteva ancora Fiorenzuola d’Arda, ma al suo posto due paesi distinti sulle rive dell’Arda appunto. Un ponte c’era, ma era il ponte della via Emilia. Fecero allora un ponte nuovo che congiungesse i due paesi, i quali presero il nome unico di Fiorenzuola.

Il mio paziente era figlio di un negoziante, che abitava là e che vendeva un po’ di tutto. Sul negozio c’era un’insegna con questa scritta: «Pelli, Polli, Uova e Selvaggina».

Il paziente raccontava, come suo primo ricordo, l’inaugurazione del ponte, con funzionari e militari in feluca. Egli anzi mi disse che c’era anche il re; credo però che fosse una sua fantasia infantile. Accanto al ponte esisteva una casa coi gradini sulla porta d’ingresso; e poiché a lui si erano slacciate le scarpe, la madre lo fece sedere, salendo un gradino, e gli allacciò gli scarponcini.

Questo gesto della madre ebbe influenze sulla nevrosi che il paziente presentava, quando venne da me. E ci siamo tornati su spesso. Anche l’inaugurazione del ponte ha naturalmente un suo significato.

Ma quando, qualche anno fa, io mi fermai a Fiorenzuola, non trovai né il negozio «Pelli, Polli, Uova e Selvaggina» (e questo si può capire), né lo scalino vicino al ponte. Anche perché di ponti ne hanno costruiti in seguito altri, ed io non seppi individuare quello dell’inaugurazione.

Ancora mi trovai davanti al dilemma: se la vera Fiorenzuola fosse quella da me immaginata in base al racconto del mio paziente, o quella attuale.

E rimasi in uno stato d’animo incerto. Avvilito da un lato per l’impressione di essermi lasciato ingannare, coll’indurre la mia fantasia scenografica a costruire cose fasulle e inesistenti (o per lo meno oggi inesistenti). E d’altra parte orgoglioso per aver creato – da racconti frammentari – paesaggi, edifici e costruzioni, inesistenti per gli altri, ma ben reali per la mia fantasia.

Comunque non ripetei tali tentativi di verifica con tutti i pazienti che seguirono. E i luoghi da me fantasticati e animati dalle varie storie che mi sono state narrate, me li sono tenuti per me: disdegnando di andare a confrontarli con le morte sagome di una realtà da registro catastale, che al mio spirito non dicono un bel nulla.