Nato a ridosso di una ribalta*
Ho già raccontato, una decina di anni fa,1 come il mio primo ricordo infantile si riferisca all’impressione profonda fattami, all’età di tre anni, da uno di quelli che allora si chiamavano café chantant, e come, collegata a questa, una seconda e più precisa immagine mi sia rimasta impressa: la recita del Lohengrin, rappresentato alla Fenice di Venezia, e visto stando seduto sulle ginocchia di mia madre, che mi aveva portato a teatro per sottrarmi a un attacco di disperazione infantile dovuto alla partenza della mia tata carinziana.
Mi scuso anticipatamente con il lettore se, in alcune noterelle autobiografiche che in questi anni di vecchiaia mi vien fatto di scrivere, io abbia già raccontato due episodi, entrambi collegati all’impressione lasciatami da quella serata.
Per l’influenza esercitata su di me da mio padre (che da ragazzo aveva suonato il violino al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, sotto la direzione di Riccardo Wagner, durante una visita da questi fatta negli ultimi mesi di vita), io divenni un fervente wagneriano: anche se le mie nozioni di musica, apprese da un pianoforte che c’era in casa, sono rimaste molto sommarie.
Avevano regalato a me e a mio fratello, bambini, un teatrino: di quelli col posto interno per il burattinaio, che così poteva recitare con le mani infilate sotto due pupazzi. La limitazione era costituita dal fatto di avere solo due mani, e quindi di non poter muovere più di due burattini alla volta. Questo era il motivo per cui, fra le opere di Wagner, preferivo La Walkiria: dove appunto agiscono quasi sempre due soli personaggi in scena.
Avevo sette anni, e sapevo appena leggere. Col libretto davanti agli occhi declamavo, anche se soltanto in prosa, con toni solenni. Ma avevo bisogno di un pubblico. E allora costringevo a fare da pubblico, con la prepotenza del fratello maggiore, il mio fratellino: il quale, in onore di Wagner, si chiamava Riccardo, ma che non capiva nulla della vicenda, annoiandosi a morte.
Qualche anno più tardi – ecco il secondo episodio legato all’impressione lasciatami dal Lohengrin, visto sulle ginocchia di mia madre – presi a frequentare il teatro da solo.
Avevo studiato un po’ di pianoforte con una cara signora a cui sono rimasto molto affezionato, ma che era del tutto incapace di instradare un giovane nella tecnica del pianoforte. Imparai così a leggere la musica, ma non a suonare.
Leggere la musica: quale gioia!
Andavo alla Fenice, a Venezia, in loggione. Mi sembra che occupassi il posto numero 1 (da sinistra, guardando la scena). Da là, si vedeva molto male lo spettacolo. E il posto era quasi sempre vuoto, perché il pubblico si assiepava al centro, magari restando in piedi, per vedere meglio. Mi portavo lo spartito per pianoforte, e seguivo l’esecuzione dal principio alla fine, attento ai «tagli» che qualche volta il direttore d’orchestra introduceva.
«Ma non vedevi nulla scioccherello!»
Vedevo, vedevo. Perché l’opera la conoscevo a memoria. E i suoni e le voci a me bastavano, per ricostruire visivamente la vicenda.
Vidi così, oltre al Lohengrin ripetutamente, la Trilogia, il Tannhäuser, I maestri cantori di Norimberga. E di volta in volta mi identificavo con Lohengrin, con Hans Sachs o con Walter von Stolzing:
Nel verno, a’ pie’ del focolar,
se dal fioccar, non suol ristar
e il finale:
Gualtiero fu dei Vogelweid,
che il mio maestro è stato.
Ma pure:
Voluttuoso, sporgente in fuor,
un frutto d’ôr,
dai bei sapor,
all’ansia mia
superbo offria
suoi molli rami un arboscello allor!
Sì. Ero sempre in scena. Poi ci fu il miracolo. Arrivò in Italia, superati non so bene quali ostacoli amministrativi, il Parsifal. Esaltante e sconvolgente. Il puro folle del primo atto. E il lento cammino verso la sala del Graal:
… diviene il tempo spazio qui.
Dio mio! Io che stavo giusto allora occupandomi dei problemi dello spazio-tempo, e della nuova Teoria della relatività!
Ma con il Parsifal ci fu un’altra cosa che mi turbava. Il secondo atto:
È tempo già.
Il mio castello il folle adesca
e già lo vedo lieto qui venir.
In mortal sonno tiene il mio voler
colei ch’io posso ancor destare.
Orsù, opriam!
…
Chi ti resiste può salvarti:
or tenta col giovin che vien.
E le fanciulle-fiori! E il duetto con Kundry:
Un’ora sola mio.
Un’ora sola tua
…
la sanguinante piaga
sanguina pure in me!
…
La ferita che hai fatto
sanerà quest’arma,
così come abbatte
il tuo fallace poter!
…
Tu sai dove potrai trovarmi ancor!
«Musica e soltanto musica?»
Mentre terminavo il liceo cominciai a frequentare anche il teatro di prosa.
Avevo un prozio che portava il mio stesso nome. O a dire il vero ero io che, quando nacqui, fui chiamato col suo nome: Cesare. Il dottor Cesare Musatti: uno dei primi medici italiani specializzatisi in Pediatria. Il quale, mentre ancora esercitava la sua professione, s’interessò anche di problemi linguistici. E cominciando a prestare attenzione alle frasi delle madri, che accompagnavano i loro bimbi alla visita, finì con l’occuparsi del dialetto veneziano, ed ovviamente con lo studiare l’opera del suo maggior autore: Carlo Goldoni. Fu perciò, mio zio, un grande esperto di Goldoni. Di Goldoni e della sua epoca: il Settecento veneziano.
In quel Settecento egli si muoveva con estrema disinvoltura: conosceva tutti, nelle cose serie e nei pettegolezzi, nei segreti di alcova e negli aspetti culturali. Conversare con lui era come entrare in questo mondo, della nobiltà decadente e della piccola borghesia nascente.
«Va bene: questo zio omonimo con tanti interessi, anche teatrali. Ma tu, per farla breve, hai mai recitato?»
Ecco: recitato no! Ma mi dicevano… sì, mi dicevano, quando ero ormai adulto e facevo il professore, che avrei avuto buone attitudini. C’era Marchesi, Concetto Marchesi, amico mio fraterno… o paterno, non so. Il quale spesso esclamava: «Musatteddu, tu non sei un uomo, sei una folla!». Perché mi identificavo con tutti e rifacevo i comportamenti altrui. I più pensavano che avessi una dote particolare: quella appunto dell’attore, capace di calarsi in qualsiasi personaggio. A me invece pareva una qualità acquisita grazie al mio mestiere di psicoanalista.
«Come mai?»
Perché quando un paziente parla e racconta i fatti propri, l’analista non lo sta a sentire.
«Come non lo sta a sentire?»
Non si sofferma cioè su quanto il paziente gli comunica, ma si occupa di ciò che sta dietro le parole pronunciate.
«Non capisco».
Insomma, trascura le parole pronunciate, e cerca di cogliere ciò che il paziente pensa e non dice.
«Ma è sempre così?»
Sì, è sempre così. In tal modo l’analista non è più se stesso, ma dentro di sé recita, improvvisando anche i pensieri occulti del paziente.
«Recita?»
Certo, recita. E se per sua natura è un individuo abituato a recitare, nel senso di interpretare le parti degli altri, i drammi, le commedie, le tragedie interiori (pure quelle ignote agli stessi pazienti), si può concludere che lo psicoanalista sia per definizione un uomo di teatro.
«Però non conosco psicoanalisti che si siano dati al teatro: all’infuori di Levi Moreno, il cui caso tuttavia presenta altri caratteri».
Vedi, nel corso di un’attività professionale, come quella dell’analista – ma anche di altro tipo, come la mia, che ho fatto il professore universitario di Psicologia – non è facile mettersi a fare il teatrante. Soprattutto per una certa divisione dei ruoli, che ha un suo peso nell’organizzazione sociale. Per esempio, a me Paolo Grassi offrì un giorno una scrittura. Voleva che gli interpretassi una parte nei Rusteghi. Confesso che non mi sarebbe dispiaciuto. Ma mia moglie Carla, persona saggia e molto consapevole degli obblighi e delle cautele inerenti all’attività di pubblico insegnante, mi pose un veto assoluto. Così mi risparmiò ciò che accadde a quel professore universitario fiorentino, che recitò una parte in un film di De Sica. Fece un fiasco come attore, e fu pure giudicato un mediocre come docente.
«Ed ora?»
Ora, non è che io reciti, ma… insomma mi son messo a scrivere lavori teatrali.
«E come farai?»
Per raccontare questa storia debbo soffermarmi sulla questione dei rapporti esistenti fra teatro e psicoanalisi: un problema che è sorto dentro di me ed è via via diventato qualcosa di molto importante.